date

1926

author

Zanotti Bianco, Umberto

title

La Basilicata [estratto 1]

bibliography

  • "La Basilicata", Collezione Meridionale Editrice, Roma 1926, pp. 5-8.

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«L’Europe finit à Naples – scriveva un francese che all’inizio del secolo XIX si era avventurato in Sicilia – et même elle y finit assez mal. La Calabre, la Sicile tout le reste c’est de l’Afrique» . In quel tout le reste la Basilicata, da quasi tutti i viaggiatori perfettamente ignorata.

Il Lenormant che tra i primi la percorse con il vigile interesse del ricercatore la chiamò «la plus sauvage peutêtre des provinces d’Italie»; certo la più povera.

I suoi 88 chilometri di costiera ionica talora coperta di dune, talora fertile, sempre fortemente malarica, e i suoi 22 chilometri di scoscendimenti nella litoranea tirrenica ove si annida l’unico piccolo suo porto, Maratea, la rendono ancor oggi quasi inaccessibile per via di mare.

All’epoca dell’unificazione, priva assolutamente di ferrovie, con soli 400 chilometri di strade rotabili, con 91 paesi senza comunicazioni, con le vallate dell’Ofanto, del Bradano, del Basento, dell’Agri e del Sinni senza argini, senza ponte alcuno, la Basilicata poteva dirsi veramente tagliata fuori dal consorzio europeo. Un lontano centro di consumo, Napoli, che la mal sicurezza della sola via e le vessazioni della polizia rendevano difficile a raggiungere, un unico centro per scarsa esportazione, Barletta.

In questo mercato chiuso di cereali che il regime doganale borbonico cerava di mantenere a basso prezzo, e di pochi altri prodotti quasi interamente consumati sul posto, il peso dell’imposta fondiaria poteva considerarsi non eccessivo se fu quasi triplicata nel periodo seguente. Gli altri cespiti non erano colpiti: e lo stesso basso tenore di vita, le limitate esigenze della collettività, la scarsezza dei pubblici servizi permettevano ai comuni di sopperire alle poche spese con le entrate patrimoniali senza il gravame delle tasse locali.

Poteva però dirsi la ragione un modesto Eden di generale per quanto mediocre agiatezza come alcuni hanno voluto sostenere? Se ai contadini non mancava il sostentamento quotidiano, questo, al dire d’un ministro di Ferdinando II, Lodovico Bianchini, «costava meno del mantenimento di un asino»: e dall’altro lato nessun impulso era possibile alla produzione della ricchezza. La vita stagnava nella sua bassura; l’immobilità economica manteneva in un sopore morboso ogni contrasto tragico: l’immobilità morale pareva aver strappato al dolore i suoi aculei e dava alla disperante capacità di adattamento, allo scetticismo universale, virtù di sapienza. Addò 'nc’è sfizii – diceva il popolo – nun c’è perdenza .

Chi poteva prevedere cosa sarebbe successo il giorno che alle porte di questa landa sconosciuta si fosse presentato quel giovane ma intraprendente Stato, che in un periodo febbrile di rinnovamento – grazie ad una preparazione morale che ne aveva esaltato le forze, alla sua virtù di disciplina ed al genio di un suo uomo di governo – era riuscito a mettersi al livello delle altre nazioni europee, e avesse cercato di trascinare, come già aveva fatto per l’alta e media Italia, anche quella e le altre popolazioni del Mezzogiorno in un medesimo ritmo di vita con le sue esigenze civili, con la sua nervatura amministrativa, con i suoi gravami fiscali, con i suoi ferrei ordinamenti militari?

Era mai possibile comporre l’equilibrio tra le forze economiche dell’alta e della bassa Italia senza sacrificare troppo la prima e senza sconvolgere la seconda?

Come avrebbero accolto le masse l’immediato aumento d’imposte, i nuovi tributi spartiti tra gli enti locali per far fronte ai debiti contratti dal giovane Stato nel suo sforzo costruttivo e a tutte le indispensabili opere pubbliche?

Quale atteggiamento, e con quali conseguenze tra le turbe fanatiche dei contadini, avrebbe assunto il clero così poco ben disposto verso il Piemonte autore della legge Siccardi per l’abolizione dei suoi privilegi e della legge sulle corporazioni religiose? Quali direttive sarebbero venute dal Vaticano ora che il primo ministro d’Italia s’avviava a strappare alla propaganda mazziniana la bandiera di «Roma capitale»?

Delle regioni che offrivano un contingente annuo altissimo di renitenti alla leva e di disertori, si sarebbero sottomesse facilmente alla coscrizione militare con cui il Piemonte, sacrificato in tutte le sue classi sociali, intendeva ripartire il peso della guerra liberatrice?

Cavour stesso – che doveva aver presente le drammatiche pagine del Macaulay sull’annessione della Scozia all’Inghilterra – era rimasto incerto di fronte a questi formidabili problemi quando la leggendaria marcia dei Mille l’obbligò a fronteggiarli.

Nel mito, Garibaldi passa tra le messi siciliane e tra le giogaie calabresi come il liberatore d’ignorate e compresse forze unitarie in attesa della loro ora: ma ai dirigenti garibaldini stessi non isfuggiva quanto di oscuro e di preoccupante si nascondeva dietro al crollo repentino e singolare d’un reame di oltre dieci milioni, con un esercito bene agguerrito di 100.000 uomini e una flotta di 40 navi.

Se Rosalino Pio e altri patrioti siciliani della sua fede incarnavano, nell’isola, l’Italia credente e generosa evocata da Mazzini, se i calabresi di Stocco gareggiavano in eroismo con i migliori tra i Mille, un’altra Italia sconosciuta, miserabile, moralmente informe faceva il suo ingresso nella storia unitaria della penisola con tutte le bande di quei sedicenti liberali che nel nome di Garibaldi infestavano il Mezzogiorno, assalendo municipi, esattorie, abitazioni private; con i 3000 insorti che assistevano alla battaglia di Calatafimi pronti – a quanto asserivano i garibaldini loro conterranei - unirsi al vincitore, qualsiasi fosse; cogli avidi pezzenti che accorrevano dalle loro bicocche a spogliare ignudi i morti per la loro libertà; con i cafoni del continente assalenti le schiere di Alberto Mario e di Francesco Nullo come anni prima quelle dell’eroico Pisacane; con tutte quelle sommosse equivoche, quelle gazzarre festaiole che si trasformavano in deserto ogni qual volta si parlava seriamente di sottoscrizioni e di leva per rinvigorire il moto di redenzione.

Dal cozzo, più che unificazione, tra queste due Italie, tra questi due mondi moralmente ed economicamente diversi, che si sospettavano senza conoscersi a vicenda, si sprigionarono le prime scintille che fecero divampare, nelle cento piccole comunità della Basilicata – allora più che oggi selvaggiamente isolate – il brigantaggio.

CRUEZÉ DE LESSER, Voyage en Italie et en Sicile, Paris, Didot, l’aîné 1806, p. 96. Dove non ci sono forti aspirazioni non c’è perdita. «Grande era il numero di coloro – scriveva già il 20 maggio 1861 da Napoli Costantino Nigra al conte di Cavour nel suo rapporto sulla situazione del Mezzogiorno – che pensavano che la libertà e la nazionalità fossero sinonimi di ricchezze di impieghi e di pane: e si trovarono delusi e malcontenti».

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