La linea ferroviaria Rocchetta Sant’Antonio - Gioia del Colle

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Cilenti, Nicola

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A Gaudiano in Val d’Ofanto

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La carrozzella aveva velocemente percorsa la strada nazionale che da Lavello, dopo la discesa tortuosa del poggio su cui è situato, porta nella sterminata valle dell’Ofanto, striata in quell’ora dalle prime nebbie mattinali; e, voltato a destra, continuava adagio il suo cammino lungo il «tratturo», tra siepi odoranti di mentastro.

Una languida alba degli ultimi giorni di settembre dello scorso anno. Il Monte Vulture, dietro le spalle, s’illuminava co’ suoi vertici aguzzi a’ primi raggi del sole, mentre la sua mole gigantesca si copriva d’una malinconica veste d’azzurro-cupo. Il fiume, a sinistra, correva inosservato dietro le macchie di tamerici e di pioppi selvatici (alvanelle), chiuso alla opposta riva dell’altipiano frumentario di Ascoli e di Cerignola; a picco, su la estrema punta di questo, i vetri di un fabbricato bianco splendevano tremuli: il santuario della Madonna di Ripalta. Giù in fondo, lontano, giacente tra le vigne, Canosa dormiva ancora il sonno autunnale, pronta alla vendemmia abbondante, al lieto lavoro del mosto in fermento. A destra, su le Murge, Minervino si affacciava sorridente, con le sue case ad anfiteatro, dalla prima terrazza della provincia di Bari.

E la infinita steppa giallognola durava uniforme, appena qua e là interrotta da masserie silenziose. Nel cielo opalino, qualche nibbio solenne; nella quiete profonda de’ campi, non più che l’abbaiare ritmico d’un mastino, e il rumore lieve della carrozzella; in tanta solitudine, come un abbandono di tutte le membra mi prese a un tratto, e un indefinibile sogno s’impadronì della mia fantasia, stranamente alterandomi tutti i contorni, tutte le sfumature della realtà. Quanto avrei voluto che la dolce emozione mi fosse durata senza risveglio! Chi ti dimenticherà più, lontana alba settembrina, in quelle intraducibili voluttuose sensazioni della natura?

Il sole cominciava a farmisi sentire, che io ero già in vista de’ fabbricati e della palazzina, seminascosta tra gli alberi, di Gaudiano. E il ricordo mi tornava in mente della gita estiva dell’anno prima su a Rionero, in casa Giustino Fortunato, ivi convenuto per festeggiare, insieme con molti giovani socialisti del Circondario, Francesco Ciccotti e la fresca sua sposa, dimoranti a Palazzo. Oh l’allegra giornata, vissuta in quella bellissima casa, tutti libri e quadri, sgomenti della improvvisa nostra irruzione! Su di un tavolino, tra le molte, la fotografia di Enrico Ferri, con la dedica: «A Giustino Fortunato, quando scesi dal Vulture per salire alla sua casa intellettuale». E poi il pranzo, durante il quale si confusero, come in una gioconda torre babelica, tutte le tendenze socialiste. E dopo il pranzo, l’inno de’ lavoratori, accompagnato al pianoforte dalla signora Ciccotti, mentre i tranquilli cittadini di Rionero, sotto le finestre aperte della sala rumorosa, si fermavano a commentare. E la sera, alla stazione, o come descrivere la nostra ilarità nel veder giungere da Potenza, con lo stesso treno che ci doveva portar via, un buon nerbo di incolpevoli carabinieri, colà piovuti Dio sa mai perché?...

Ma ecco la piccola casa cantoniera, ecco le prime viti allineate tra un ordine e l’altro di mandorli, i primi terreni arati, sottili come la seta, alimentati di concime chimico, e i primi distesi campi a foraggi; ecco la mandria libera delle cavalle, masticanti il fieno odoroso, e i grandi buoi, sdraiati per terra, con gli occhi fissi nel vuoto; ecco le fabbriche, bianchissime d’intonaco, il disusato pozzo patriarcale, la pila e la cannella della nuova fontana d’acqua venuta di lontano, la chiesetta, la palazzina col cipresso in vedetta alle spalle: ed ecco l’on. Giustino Fortunato e il fratello Ernesto venirci incontro, facendo atto con le mani a me e alla carrozzella, che ora trottava facile nell’aia, rivestita di tenero verde, chiusa da siepi di agavi e fichidindia. È Gaudiano, tutto moto e lavoro da un capo all’altro dell’anno, nel bel mezzo della malarica deserta valle dell’Ofanto, e dove vivono la lor vita, serena e raccolta, due fratelli fedeli.

Scendo dal legno, e incrociate le prime cordiali strette di mano con le prime affettuose parole di saluto, c’incamminiamo passo passo dietro al genius loci, Ernesto Fortunato, il tenace amatore della terra pugliese: originalissimo tipo d’uomo e di agricoltore, che, lasciata Napoli trentacinque anni fa, volle qui chiudersi nell’aperto cenobio campestre, e qui operare in vantaggio dell’azienda di famiglia, condotta direttamente, non senza valido esempio alle molte altre aziende private sparse all’intorno.

Don Giustino (noi lo chiamiamo così, seguendo gl’immutevoli usi paesani) sembra respirare a pieni polmoni, assai contento di questa breve parentesi nella sua dimora temporanea.

- Vedi – egli mi dice, - come stiamo bene, dopo tutta una estate torrida, noi e quanti qui abitano, cominciando da mio fratello che, ormai, non lascia più Gaudiano per una corsa a Napoli e Rionero. Egli e i suoi lavoratori sono de’ veri ipernutriti di chinino: la profilassi chininica è qui un fatto compiuto.

- Quanti lavoratori ha Gaudiano? -, io domando.

- Parecchie centinaia gli avventizi, più o meno a seconda delle stagioni; alcune diecine quelli ad anno, conforme alle usanze di Puglia: tutti di Minervino e di Lavello, validissima gente, specialmente i primi, ma a noi più familiari i secondi. L’emigrazione, così desolante in tanta parte della Basilicata, quaggiù non attecchisce; anche su, a Rionero, son gli artigiani che in maggior numero valicano, non senza profitto, il mare, perché in condizioni assai più difficili e precarie.

- Così proprio a Lavello, - io soggiungo.

E del contadino lavellese don Ernesto, che mi è venuto accosto per rispondere alle domande che io gli rivolgo intorno alle migliorie agrarie da lui introdotte, e a’ buoni effetti ottenuti, grazie alle assidue cure; del contadino lavellese don Ernesto è letteralmente entusiasta, assai felice di essere, nelle prime ore d’ogni giorno, il suo consigliere e soccorritore.

Giriamo intanto lungo le fosse, gli antichi mirabili serbatoi del grano, che egli ha voluto tornassero in onore, e passando davanti alla chiesetta, semplice e bella, entriamo nella luminosità azzurra della palazzina, poi che tutte le finestre del pianterreno hanno le reti metalliche, quantunque a Gaudiano, dove stagni non esistono e le stalle son tenute pulitissime, gli anofeli non abbondino.

Affronto, come m’ero proposto, don Giustino, e: - Voi dunque, - gli chiedo, siete proprio deciso a non volervi più ripresentar deputato?

- Irremovibilmente deciso. Attendo, con rassegnata ansia, la fine, più o meno naturale, della presente legislatura, per congedarmi dagli elettori. Avversario d’una politica sbandata e contraddittoria, voluta da governi e governati, io sono stanco d’una vita parlamentare ormai così grigia e mediocre; ma, a dir il vero, anche più stanco di tutto un insieme di sistemi e di intendimenti elettorali, che, d’anno in anno, mi si è fatto sempre più gravoso. Poi, un trentennio di deputazione, dice mio fratello, è già troppo, ed è dovere, secondo lui, far posto agli altri. Un trentennio! Con che frutto, pel nostro Collegio? Un sol Comune io lascio in condizioni migliori di quelle nelle quali lo trovai: Lavello; il solo che abbia saputo creare, e serbare, la classe de’ coloni, in cui è tutta la speranza de’ poveri nostri paesi. E sempre buono con me, da un decennio esso è amministrato da’ popolani; e con tanta correttezza, - mi piace attestarlo, - quanta ne usarono almeno le precedenti amministrazioni borghesi: sempre buono con me, al pari, se non più, d’ogni altro Comune del Collegio…

Messo in carreggiata, l’on. Fortunato si lasciò lungamente andare a discorrere, con sicuro animo, di quello ch’io volevo, e che qui è inutile io ripeta: solo gli occhi, alle volte tradivano la interna sua commozione.

- Oh sì, - io finii per esclamare, - voi ben potrete ritirarvi con serena tranquilla coscienza…

Interviene il fratello, che, col più schietto suo accento, soggiunge:

- Ma se l’assenza da Montecitorio sarà per te di incalcolabile beneficio! Tu riavrai la salute de’ nervi e dello spirito. O già non ti avvedi che qui è il tuo risorgere, che Gaudiano vale la più bella città?

E io li rimiro, i due fratelli, con grande trasporto del cuore: due antitesi, che si integrano perfettamente. Uno, lo studioso e il politico, che tutti conoscono, ognora idealista e dubitativo. L’altro, un filosofo ultrapragmatico, calmo, forte, sorridente: un iperattivo, rifuggente dalle verbose opere del mondo, un innamorato della terra, risparmiatore ed economo pur senza famiglia e senza bisogni, un solitario, insomma, che vive e lavora, - come poco innanzi egli mi aveva scritto a Roma, - «per giustificare prima a sé, poi agli altri, un possesso, che se ha diritti, ha pure gravi doveri»…

Compare il giovane fattore, Fabrizio, che ha qualcosa da dire a Ernesto Fortunato, e don Giustino subito mi invita a salir su, nel suo studio luminosissimo, dov’egli spera, uscito dalla Camera, dar fuori i due ultimi volumi delle Notizie Storiche della valle di Vitalba , dopo, ben inteso, aver rifatto i sei già pubblicati. Di quali e quante cose non tentammo, lassù, di riparlare? Ed ecco un raggio di sole, battendo su la parete di fronte, illuminare una grande bellissima fotografia di Leone Tolstoi…O non ne avevo già viste parecchie altre, una con la firma autografa, così nella casa di Rionero come in quella di Napoli? O non è, in don Giustino, molto del vago misticismo tolstoiano?

Poco mi costò quindi lanciargli una innocua frecciata: - vi confesso, mio ottimo amico, che Tolstoi non suscita in me l’entusiasmo che è in voi: egli è troppo semplice quando scrive, troppo anemico quando…non opera. Altri tipi d’uomini ci occorrono: Victor Hugo, Zola, Carducci, d’Annunzio anche…

- Che cosa risponderti? Tolstoi è la terra vergine, e, per intenderlo, è forza abituarci alla singolare sua semplicità di stile, che pure racchiude tanta bellezza e tanta filosofia!

- Dite anche tanta desolazione e tanto pessimismo…

- Il pessimismo è la realtà, che è quanto dire la verità. E perché pessimista, tu sai, io non partecipo della giovanile tua fede socialista, io che non consento in qualsisia concezione della vita, e l’ho già detto altra volta, con chi della vita voglia, ad ogni costo, cercare una soluzione logica…

- Ottimismo, pessimismo, non più che due stati d’animo, determinati dal proprio fondo organico. Ho forse torto?, - io soggiungo, nel volgermi a don Ernesto, che, in quel momento, ci ricompare innanzi col perenne suo sorriso, questa volta un po’ più ironico del solito, finendo per avvisarmi che, a detta del cocchiere, io dovevo decidermi a restare, com’egli e il fratello desideravano, lor commensale, ovvero a ripartir subito, se volevo essere, poco dopo mezzogiorno, a Lavello.

Usciti dalla palazzina, tutt’e tre rifacemmo, con passo più sollecito, la via fino alla casetta cantoniera. Dardeggiava in alto il sole, accendendo l’enorme riposo delle stoppie. Lontano, ne’ maggesi, a file simmetriche, i buoi dissodavano la terra, mentre che gli aratori, a intervalli, cantavano in coro una nenia, dalle lunghe tonalità basse.

Ivi ci lasciammo, con molti augurii negli occhi e nel cuore.

NICOLA CILENTI

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