Napoli, 20 agosto 1910
Carissimo Ciccio,
[…] di ben altro e a lungo vorrei parlarti, se fossimo insieme. Vorrei soprattutto parlarti del vegognoso spettacolo di Potenza, dove all’ultima ora è comparso, reboante…, il Guarracino! Hai letto il numero unico del «Lucano»? Quante menzogne, quante falsità, quanta rettorica cafonesca e volgare! Decio Albini che dà come «giustiziati politici» del 1822 ben 41! E la bugiarda enfatica iscrizione lapidaria del 18 agosto, affissa alla Camera Municipale? Ma, per Iddio, le maggiori concessioni possibili io feci nelle lapidi del Consiglio Provinciale; e più oltre non è possibile, senza tradire ogni più elementare pudore. Invano! Spero e credo sia stato più discreto il Guarini. Quando, quando impareremo ad essere onesti?
A proposito dell’Albini, padre. Tu mi hai scritto che egli era «uno sciocco e un ladro». Lo conobbi, e mi fu antipaticissimo. Sentii anche mormorar male di lui. Poi lo splendido elogio del Racioppi me ne impose. Le tue parole mi ridanno il dubbio. Che sai di vero? Il figlio, imbecille, vorrebbe non so che cosa, da tutti, per sé – erede del nome!
L’ultima volta che fosti qui, mi dicesti che io, «per reazione a’ miei», ho «esagerato ed esagero» sul conto de’ Borboni. No, caro Ciccio. Nessuna reazione di fronte a’ miei, perché ho creduto e credo che essi, al ’60 e ’61, a petto de’ rioneresi, avevano mille e una ragione: furon vittime della più sozza brutalità di gente iniqua. Di tutti i 124 comuni della provincia, solo Rionero non ebbe, nel decennio della reazione, «attendibili», non perché Rionero, come scrisse Basilide Del Zio
, fu meno liberale (!) degli altri, ma solo perché i miei, i quali non vollero firmare la petizione per il ritiro della costituzione, assolutamente non permisero che Rionero avesse attendibili. Procurati la requisitoria, a stampa, dell’Ecaniz, su’ processi politici di Basilicata: il povero Rocco Brienza fu condannato a 30 anni di galera per le disposizioni di quegli urbani di Rionero, che, improvvisati liberali al ’60, e manutengoli del Crocco
, furono accusatori de’ miei. (A proposito della petizione per il ritiro della costituzione. Di essa, di nanzi alla storia, il responsabile è mio prozio omonimo. Ma ciò non bastava a R. de Cesare, mio nemico per causa di L. Franchetti, e a Beltrani, mio nemicissimo, perché io mi opposi alla sua nomina, condannato com’era per bancarotta fraudolenta, a direttore dell’Archivio di Napoli. Or bene, nella prima edizione della Fine di un Regno, in nota, è detto che Giovanni Beltrani assicurò il De Cesare che il ministro Fortunato avesse «di proprio pugno» scritta la petizione, poi che ciò gli aveva detto il padre, capo-urbano di Trani prima, appaltatore borbonico dopo. Nella seconda edizione, cotesta preziosa notizia, con la suindicata fonte, passò nel testo dell’opera. Nella terza ultima edizione, non più la fonte, e la notizia, tout bonnement, restò acquisita, come fatto non dubbio, alla storia!!) Dunque, nessuna reazione di fronte a’ miei, che nulla chiesero allo zio presidente del Consiglio, - l’unico borghese, che durante il secolo della monarchia assoluta giunse ad essere presidente del Consiglio: un volterriano, un giacobino, nemico di costituzionali e di clericali, privatamente onestissimo, politicamente angustissimo; un valoroso giurista (per oltre 40 anni procurator generale della Corte de’ Conti) che a 70 anni, di botto, fu sbalzato a capo del governo. Il Mancini voleva pubblicare le sue requisitorie alla Corte de’ Conti, che io non ho, perché nulla ereditammo da lui: una di esse, famosa per la causa del Sarno, ha or ora pubblicata l’Abignente, come il Musco pubblicò uno studio su le sue Decisioni, poco meno che socialiste, sul Tavoliere di Puglia. Niente ereditammo da lui, neppure la croce di Cavaliere. Ma se mio nonno fu carbonaro, mio padre fu borbonico, perché non credeva, non immaginava neppure l’unità. Borbonico, ma al pari de’ fratelli intemerato e leale. Ciò che Gennaro Araneo scrisse circa la censuazione di Gaudianello (bada, Gaudianello, non Gaudiano comprato da Spagnoletti) è una solenne falsità: primo tra’ consenzienti fu l’Araneo stesso; Ernesto voleva pubblicar tutti i documenti, ma F. Severini, nipote dell’Araneo, lo supplicò di desistere. E, credimi, io vado altero de’ miei maggiori. Quando, dopo il decennio francese, creatore della borghesia territoriale, tutti i maggiorenti del Melfese risalivano il Vulture, maledicendo di essere discesi nella malarica landa dell’Ofanto, mio nonno, cavaliere di re Gioacchino e capo de’ veliti del Circondario del 1820, discese a Lavello, non intimorito del malo esempio; ed egli ed i figli e i nipoti vi seppero animosamente restare. La mia famiglia era stata, per 60 anni, fittuaria del Doria a Lagopesole: giù a Lavello fu, prima fittuaria della Mensa Vescovile di Melfi dal 1810 al 1840, poi censuaria di questa fino ad oggi (e poteva, come ancora potrebbe, riscattarsi a buon prezzo!) e sub-censuaria del Tavoliere dal 1807 al 1865, sempre conduttrice diretta, non mai gabellota, non mai oziosa, non mai a capo del Comune d’origine, come tante altre, come tutte le altre…Abbiamo i conti dell’azienda dal 1720 ad oggi. Invano ho pregato Ernesto di pubblicarli, come storia economica di una famiglia borghese dal 1720 al 1865. E lo studio, certo, sarebbe interessantissimo. L’industria suina ci dette di utile fino al 40 per cento!
Piglio fiato…Nessuna reazione, - e nessun proposito – tuttaltro!, di «esagerare» sul giudizio intorno a’ Borboni. La nota de’ giustiziati del 1799, che è certo il più terribile documento storico contro di essi, e che io solo giunsi a compilarla esattamente, mi trovai per caso a farla, perché pensammo a Rionero di mettere ricordo al Granata, - una delle vittime, e tra le più gloriose. Oh non io, no, esagero, contro i Borboni! Tutt’altro. Credo, anzi, che se c’è storia da rifare ab imis, e che, rifatta, molti errori di giudizio riparerà, è quella del monarcato de’ Borboni a Napoli. I quali non essi corruppero il paese. Se mai, il paese corruppe loro. E penso con te, che non mai le due Sicilie ebbero un trentennio più felice, economicamente, di quello che corse dal 1820 al 1856. Ma da questo a ripetere, come il Misasi, che il regno era l’Eden, ci corre. Benediciamo all’Unità, carissimo Ciccio, e dimentichiamo il passato; o studiamolo, per rendere giustizia alla Verità, compresi i Borboni e i poveri onesti calunniati borbonici del ’60. Viva l’Unità, - e faccia Iddio che, un giorno, tu, equo giudice, possa essere capo del Governo Unitario!
Alessandro Guarracino, deputato di Torre Annunziata nella XII e XIII Legislatura. (ndr)
Basilide Del Zio, Melfi, le agitazioni nel Melfese
, Il bigantaggio. Documenti e notizie, Melfi, 1905. (ndr)
Carmine Crocco (1830-1905), brigante rionerese, agì a capo di bande borboniche dopo il 1860, in Basilicata, e Puglia. (ndr)
Raffele De Cesare (1845-1918), storico, deputato nella XX e XXI Legislatura, senatore dal 1910. Fra le sue opere: La fine di un Regno (1895).
G.Fortunato, Nella causa tra il comune di Sarno e il Principe Piccolomini, Roma 1907. Giovanni Abignente (1854-1916), deputato dalla XXI alla XXIV Legislatura, era libero docente di Storia del diritto italiano nell’Università di Napoli.
A. Musco, Di un economista basilicatese, in Strenna di Melfi, 1900.
G. Araneo, Notizie storiche della città di Melfi e dell’antico reame di Napoli, Napoli 1866.
Michele Granata (1748-1799), rionerese, professore nell’Accademia militare, fu uno dei martiri della repressione borbonica nel 1799.
Si riferice forse a Nicola Misasi (1855-1923), romanziere calabrese.