LO SPETTATORE ITALIANO
LETTERE DALLA PROVINCIA
MARE di Lucania
Nessuno di noi ha mai visto il mare della Lucania; potremmo forse indicarlo punto per punto, dove nasce e dove ha termine, sapremmo benissimo trovare il cespuglio, la pietra e magari il granellino di sabbia che segna il limite, un limite beato oltre il quale ci sentiremmo stranamente turbati come i ragazzi che per la prima volta accusano, fuori l’uscio della propria dimora, il miracolo e il timore del luogo estraneo. E questo mare sconosciuto, giorno per giorno, diviene il santuario, nel quale, dopo lunghe e sofferte esperienze, troveremo la ragione giustificata nella nostra vita. Nei paesi, nelle contrade, pensiamo da anni a questa ragione, e da anni riceviamo il male di simili pensieri; molti secoli fa, sul limite del confine, al mare, venne da Samo il filosofo quarantenne e affondò un dito nella rena. Un Numero centro dell’Armonia. E vide nel lento incedere di una formica rossa chissà quali dati, poi in una pianta, in un sasso, nella scorza di un ulivo. Noi oggi non abbiamo fede in simili cose, non abbiamo tempo disponibile; al povero manca il tempo per stendere la mano. Levi invece è riuscito a conoscere la storia del drago di S. Arcangelo, ha saputo di streghe, di staffilatori, di malarici, di megere; Eugenio Colorni, sotto il castello di Federico II, a Melfi, cercava la Provvidenza Teodiceana di Leibniz, seduto sui trattati critici di Russel, su quelli espositivi di Nourrisson e di Raspe, sulle ricerche logiche di Coutourat (il cigno s’addormentava piangendo.) L’uno e l’altro scoprivano qualcosa, come da secoli sta succedendo in questa regione: i vasi orfici di Armento hanno lo stesso candore di un sonetto dell’infelice Isabella Morra, la poetessa del Sinni, caro ricordo del Cinquecento. Ed è curioso come i fiumi, ormai appartengano a qualcuno (non mi fraintenda l’amico Carlo Levi, nessuno di questi personaggi richiede o ha richiesto il pedaggio a chicchessia, come il suo nobile Colonna, sfruttatore dei santarcangelesi): il Sinni a Isabella, il Basento a Valéry Larbaud, l’Agri a Leonardo Sinisgalli. “O Sinni mio” “Alberi, rovine, terrapieni del Basento” “Di là dalla dolce provincia dell’Agri”. Qui realmente si è tramutata l’Armonia di Pitagora, in questa appartenenza che rende lo straniero nostro, e le nostre cose vicine a Dio. È sempre silenzio in questi luoghi, nelle campagne le capre s’addormentano, il cielo tersissimo entra dagli alberi, silenzioso. Nelle borgate, nelle contrade la vita è semplice, legata a sussurri, a zittiii, i forni spalancano le bocche, gli uccelli notturni covano nel fondo della terra, prima di levarsi sulle case grigie, tiepide di sole scomparso. Il Sinni perde il caldo che l’amante nobile spagnolo offriva alla poetessa, il Basento leggero di canne porta a Larbaud, il letterato dell’acqua minerale, il sigillo per un affetto eterno, l’Agri apre la luce dei Campi Elisi. Oggi questi nomi valgono qualcosa; l’interesse della nazione ha una sua giustificazione. Allora Colorni, Larbaud, i domenicani, Giustino Fortunato, i gesuiti, i vecchi professori internati, non erano che nomi, oggi a Tricarico qualcuno parla di Björnson, ad Avigliano un pittore conosce Chagall, a Matera un giovane testardo professore afferma che dopo Carducci e Pirandello la letteratura italiana è scura come il Sasso. A Potenza molta gente è sveglia: l’avvocato De Pilato ha comprato il numero 26 di Letteratura, i fratelli Tantalo soffiano soddisfatti sulla brace ardente, con gli ultimi lirici spagnoli sotto l’ascella, e i “Rencontres et prétextes” gidiani sul tavolo di via Viggiano, palazzo Incis; e mentre nella libreria Marchesiello il provveditore, dalla medaglia dantesca sul panciotto, rumina Tibullo e Orazio, il Circolo Universitario ha bandito un concorso per un racconto di ambiente regionale, riservato agli scrittori “delle provincie di Potenza e di Matera che non abbiano superato il 35° anno di età e che non abbiano mai pubblicato scritti su periodici a diffusione nazionale”. I giovani studenti di belle lettere, che trascorrono dieci mesi all’anno nella stanza dove sono nati e due come premio nelle aule e nei cortili delle vecchie Università di Bari e di Napoli, non hanno migliore occasione per tirare fuori dal cassetto i racconti interminabili che vanno scrivendo da qualche anno, nei giorni di autunno, privandosi volontariamente della passeggiata alle argille di Macchia Marcone. Macchia Marcone per qualcuno ha meno interesse di Antonio Banfi, Aretiedde scompare dall’ambito delle azioni di qualche antico rapinatore di fave, di tavole al Laboratorio, dei sognatori sui parapetti del Muraglione. Il rapinatore legge “Le considerazionii sulla storia del mondo” di Jacob Burckhardt, il sognatore i “Fiori” sinisgalliani, “libro Werther” per i giovani di questo paese. Oggi questo avviene in Lucania, e dell’altro ancora: i litigi dei bambini sugli spiazzi, le processioni poverissime, i canti negli orti immensi nella luce tenera del crepuscolo. Io e nessuno forse sapremo perché Larbaud spese molti anni, al principio del secolo, in questi orti, nei canneti di Centomani. Il francese aveva certo scavato nella terra e trovato un segno, non dico un imbuto, un panno, un foglio, un segno che per Colorni, anzi per Leibniz, fu la monade, per Giustino Fortunato il fondamento geologico-economico. Che fosse l’Atellana? O il silenzio di questa regione che rende lo straniero nostro, e le nostre cose vicine a Dio? Anche gli internati, o confinati come si vuole, fino a qualche anno fa trascorrevano ore lunghissime in silenzio, e lasciavano i loro ragazzi fuori l’uscio, sulle scalinate delle chiese, a giocare a ossi di pesche con noi, con i nostri fratelli scalzi e sani.