Spiritus loci

date

1848

author

Sole, Nicola

title

Al mare Jonio: Nicola Sole

summary

bibliography

  • L'arpa lucana. Canti di Nicola Sole, Lucania, Stabilimento tipografico di V. Santanello, 1848, pp. [27-60]

teibody

AL MARE JONIO

Oh come, oh come gli ebbri miei sguardi all'incantevol vista si raccendon di speme!-In questa dolce amica solitudine vorrei solo restarmi, e parteggiar l'omaggio di queste limpid'onde col sereno spirto del loco!

Byron

1.

È bello il ciel, che ti fa tenda, o antico Jonio sublime: del più fosco azzurro antelucano ei pinga i tuoi profondi seni vocali; di rubini ardenti o di pallide rose ei ti cosparga, o che risorga o che tramonti il sole, è bello il ciel, che ti fa tenda, o antico Joniosublime. E in te si specchia, e tutto di sua divina leggiadria t'informa l'itala Donna, che sull'Alpe aderge la coronata fronte, e il piè ne' tuoi tepenti flutti, antico Jonio,asconde; l'itala Donna, a cui nel cor virile arde l'incendio de' Vulcani, e a cui de l'Alpe il gelo la ragion matura, e ne' proposti la rafferma. Iddio di tre mari l'ha cinta: e tu, sublime Jonio,quell'acque irrequïete accogli fra le cerule braccia, e le componi; onta, gran tempo, o italiani, a noi dissociati e sparsi! Ove più cupo rompe il grido di Scilla,ove solenne di Leuca il Capo la quïeta avvalla solitaria penombra, ivi tu lieto l'onde Adriache ragguaglie e le Tirrene. Ivi trassi ramingo, a quella bruna perpetua vece di correnti, a quello palpito eterno di gementi flutti pacificati in un amplesso, e dissi: quale amor vi affatica, o tre fratelli Itali mari? Qual dolor, qual forte necessità di rivedervi scuote i vostri fianchi immensi, e le intentate viscere? Arcana, come Dio, vi muove quell'indomabil simpatia, che pure arde nell'uom perennemente, e il preme perennemente nel desio d'un bene, cui disperato anela, e mai trova? O lamentate le catene e il nostro lutto, o mari fratelli?

2.

Eccomi: io solco, Jonio, le tue pianure. Alta ne' cieli la notte assorge. Nel tuo curvo lido splendono i fuochi de' casali, e lunge di stelle falsan la sembianza. Spira il più caro levante, e a me gli affetti, al mio bruno naviglio apre le vele.

3.

Quando suonò la voce onnipossente, che pose leggi all'acque, e sovra i mari, aura tremenda, vïaggiò Jehòva, Jonio, covrivi questo letto, o bello de' tuoi giovani frutti, altri velavi interminati abissi, altre scuotevi disabitate sponde? Immensa, arcana è la notte de' tempi. Unica luce, e dubbia forse, che la rompa, è il grido de le passate genti a le novelle genti trasmesso, o de' pensanti il guardo vïolator de la profonda terra. Altri, o Jonio, tu forse, altri tenevi ceruli regni allora. Ov'oggi immensi si stendono i deserti, ove solinga ride l'Oäsi ed il Sahara avventa verso un ciel senza sponde un mar d'arene, ivi tu forse il palpito primiero, Jonio, sentisti in grembo a le sonanti acque novelle; e qui, dove or tu posi, eran campi, pasture, alberi, monti, uomini, colpe... e tirannia fors'anche. Onde la provocata ira celeste ruppe gli argini al mare, e l'empia Terra fra le procelle avvolse. E allor tu stesso, or sì limpido e piano, allor tu stesso il tempestoso padiglion de' l'acque, ruggendo, alzasti a le colline, ai monti, agli altissimi monti, al cielo. E quando su la vïaggiatrice arca sorrise l'iride giovinetta, il riversato mar seminando d'amorosa luce; e l'errante colomba iva radendo le decrescenti acque composte, e gaie vennero a l'aria le montagne, e Dio benedisse a la Terra, allor tu forse solennemente trasmigrasti ai curvi lidi, ch'or bagni. Meraviglia al sole, fiorîr di boschi i disertati abissi, e suonâr di città.

4.

Salve! Tu prima (se ne le prische età non erra il carme) tu prima, da la fosca onda degli anni spinta, ponevi le tue tende in queste rive odorate, o generosa e forte tirrenia prole. Vergini boschetti d'aranci e di mortelle ivan siepando questi flutti lucenti: e, mentre al sole le cavalle pascean su le pianure, tu, riposata a l'ombra, inni campestri, l'ora estiva ingannando, alto cantavi. Io vidi spesso la novella luce sorger da l'acque; colorar gli estremi lembi del mar di porpora fiammante; de' monti avversi redemir le creste di vivissimo foco: indi, fugate le vaporose ombre notturne, in cielo crescer sovrana e folgorante, e tutta in aureo rnanto avviluppar la Terra così la prisca civiltà per voi, o vaganti Tirreni, in queste piagge diffuse i rai de l'immortal suo disco, ch'indi schiarò l'Europa: e a queste arene, tipo miglior de la progenie umana, così venne il Pelasgo, e qui la sacra dei nostri Padri sapienza arcana trapiantò, che fu poscia immenso stame de la gemmata tunica civile, Che i fianchi avvolse al barbaro occidente; fu vivo sol, che per mutar di etadi ancor non manca di splendor, ma pari al Titon de le favole gentili, giovine sempre ed indomato, informa de' primi veri ogni novella idea, ogni ardimento degli umani.

5.

O Magna Grecia, qui fosti! Questo mar fu specchio a le tue scuole cittadine, ai tuoi interrogati oracoli supremi, ai tuoi contesi portici. Qui fosti, classica Terra, Magna-Grecia! Ah dite, stelle dei ciel, che de la stessa luce le sue notti allegraste, evvi mai cuore, italo cuor, che di possenti affetti su quest'onde non arda, e di quei colli pei soävi contorni alto sull'ale del sovvenir non erri? Oh quante ville, quante città per quel ricurvo lido! Quanta gagliarda gioventù, qual prode popol vi stette, libero, gigante immaginoso! Eran per lui le stelle popolate di spirti: alberi, fonti, fiumi, boschi, dirupi, eran d'arcane intelligenze alberghi. Incantatrici Nereidi per quest'onda ivan cantando: da le profonde scive uscian le Ninfe composte a danza de le stelle al raggio. Fatidiche cortine ondavan lente sul limitar de' delubri: perenni ardean le fiamme sul riposto altare. Ridea l'olimpo sui tuoi flutti aperto, o fantastico Jonio; e tu parevi anfiteatro d'acque, a cui ghirlanda fean umili colline, alte montagne Greche, Japigie, Sicule, Lucane e di Morea le balze: anfitëatro, su cui fraganti d'immortal profumo scendean gli Eterni a visitar la terra. Lucenti cocchi ivan per l'aria, arcane melodie da quest'onde uscian portate dei zefiri sull'ale e de' favonî. Liberi amori ardëano nel colmo petto di balde vergini, a guerrieri cocenti amplessi abbandonate. Oh i tempi de la forza, del senno e de la vita! Compaginata di più forti nervi, men dal tedio evirata, emunta meno da ridolenti ozî nefandi, un'alta stirpe tenea queste campagne, e queste verdeggianti pianure! Irrequïete scendeano i Genii de la patria intorno agl'inaccessi lari, a le vegliate civiche porte! De la Guerra al grido confederata gioventù pugnava sanguinose battaglie. Odi nel vallo suonar le trombe: sterminato piano d'auree messi coperto è l'ampio circo dei volanti guerrieri: ecco da lunge di sfrenati cavalli onda crescente venir col suon de la tempesta incontro ad un'altr'onda di cavalli: avanti! Avanti, o prodi! Dei poëti il grido le pianure discorra e l'aria e l'onda: freme il vento ne' grani, e l'auree spiche stridon lambendo i lacerati fianchi dei fumanti destrieri: ecco, le colme messi mature un mar di sangue incesta: nel tripudio dell'ira ecco caduti mille gagliardi giovinetti: anch'essi i feroci cavalli, al cor feriti, fra le compresse sanguinose cinghie spirando esultan resupini al sole. Bello é morir sul campo: avanti, avanti! Sul niveo carro la Vittoria appressa le vincenti città; scende la morte coi mille estinti all'Erabo. Beäti per la patria i caduti! Eterna ad essi la cittadina lode, il voto ardente de le gementi vergini deserte, e la luce del canto. O voi del Brada storiche sponde! fragorose ripe dell'Aciri e del Sinno! o sacri pioppi del Crati! io vi saluto, io vi saluto colla novella e colla età mancita! O famosa Cotrone! o Tarantino golfo, speranza, asilo ultimo e tomba ai tornati dell'Ida eterni Achei! O mura di Petilia! o Locri! o verdi campi del Nieto! io vi saluto e canto. Noverator di divinate glebe su voi non langue il pensier mio, ma caldo d'itala carità trascorre e passa colla foga dei lampi; e in un concento d'immensa età le ricordanze accoglie.

6.

Stretta di muri e di colonne al cinto, coronata di cupole e di torri, la ionica Cibele il pié tuffava entro a l'acque del Bradano; l'antica Metapontofamosa, alta Metàbo. Per dovizie possente e per gagliarda patria virtude, prezîosi doni ed aurei busti ai deprecati offerse tempii di Delfo; onde feconda rise a lei la messe ne' suoi campi e il pingue provvido olivo e la sanguigna vite. A la parete del suo tempio appese pendean l'ascia e la pialla, onde d'Epéo si armò la man, quando commesso i fianchi al gran cavallo espugnator di Troia. Col Sinno a ritta e l'Aciri a mancina sovra un facile colle alta Eracléa conversa al riso orïental sedeva. Benché dal tempo distruttor sovverse, ne la memoria de l'età lontane città famose entrambe, eterni altari, su cui la vampa dei saver pelasgo, pari al fuoco di Vesta, arse rompendo de l’occidente le tenebre antiche!

7.

Or la spica e il lentisco occupa i seggi di quell’auree città. Silenzioso volge il Bradano al mar l’onda romita. Spesso il lucan agricoltor, spezzando quelle glebe deserte, in elmi antichi e in mozzi brandi coll’aratro offende; e spesso il solco riconduce al sole lapidi eterne, in cui la man degli avi scrisse leggi immortali. Ove Eraclea stette, ombreggiano i boschi; e il cinghial scava fra le macerie e i lividi pantani frantumate colonne. Entro quei boschi suonò lunghi anni dei Cenobî il salmo: ed or biancheggia su le folte macchie turrito albergo, a l’arti amico, ai cari studî campestri, ai splendidi ritrovi, ed ai riposi de la caccia ansante. Talor, quando la notte alto cammina, per quest’onde deserte ascolti il grido del barcaiuol, che, trafficando in mare, da Taranto a Crotone apre le vele. Ed or ch’io passo e canto una segreta fra l’acque ascolto melodia divina, che aleggia intorno al mio naviglio. Or forse sei tu, Calipso solitaria, errante su questo mar, che ti fu caro? O questa, o questa è forse l’elegia fatale, cui da l’area rupe ultima sciolse Saffo infelice, allor che volta ai cieli, data le braccia ed i capelli ai venti, gridando amor precipitò ne’ flutti? O tu sei, che ritorni a l’aure a l’onde di Zacinto materna, o sventurato Foscolo mio? Tuo lungo amor, tuo lungo disperato disio questi sereni spazii di ciel furono un dì fra i nembi d’Albione! – T’allegra, o spirto ardente, t’allegra, e canta! Da le Bruzie selve surse un grido di guerra; e i generosi figli di Dafne si levâr sull’Etna. Italia tua libera è tutta, come libera Ellenia de le sue catene s’alzò tremenda. Oh, che ne l’urna almeno, Ugo, sentisti in libertà ridutte la patria de la culla e de l’amore! Su pei colli di Zante arde fremente de’ carmi il fuoco: e di tua mente un raggio di Solomos nel petto inni guerrieri spira. Chi mai, chi non saria poeta su queste piagge, ov’abitò colui, che l’armonia de’ firmamenti intese?

8.

Qui Pitagora immenso, allor che l'empio pugnal Crotonïate incontro al santo cuor la sua stessa carità gli mosse, qui ramingò molti anni, e qui, potente di divino coraggio, il tempio aperse dei rinnovati studî. Un infinito popol d'alunni lo seguia ne l'alte scuole di Metaponto; indomit'alme, a l'esiglio, a la fame, a le catene, a la morte parate anzi, che vili negar la fede de la sua parola, i suoi dommi tradir. Le donne, anch'esse, le molli disertando opre gentili, venian severe a disputar sui marmi del suo Liceo. Pittagora! qual mente, quale altissima mente a tanto volo, come a la tua levossi, o sì dappresso, guardò ne' cieli? Qual fu mai fra i nati al disperante fiuttuär perenne per la notte del dubbio e del mistero, qual fu mai, che, a te pari, un tanto sguardo gittasse in grembo de l'età venture, e di tant'ombra disvestisse il mondo? Ultimo lampo d'un'età caduta, lampo primier d'una novella etade, di qui sovrano ad annodarle alzavi rigenerante universal parola. Questo mar, questi colli e questo cielo furono il tempio e la fatal cortina, onde parlavi ad erudir le genti, e mille età concelebrâr devote questo ciel, questi colli e questo mare. Tu riflettevi l'universo; e nulla stranier ti parve, o creätor de l'alto Italo-greco socïal Liceo. Tu guerrier, tu possente unico Sofo, tu generoso cittadin, tu voce conciliatrice di due mondi, ardente martire del pensiero e dell'amore, tu presentivi, meditando, l'alta necessità d'una parola arcana rivelata ai mortali. Astro sublime del ciel pagano! Di solinga luce per molte età ripercuotesti il mondo, finché rïarso nel gran sol di Giuda sull'orizzonte cristïan t'alzasti quasi gigante a correre la via. Nel tuo splendor santificato, oh quanto, quale altissimo volo aprïr sovrani l'Angiol di Bova e l'Angiolo d'Aquino!

9.

Sparso i lunghi capelli a l'aura errante, negli ampi seni del suo manto accolto, per queste sponde solitario errava quando più muta era la notte, il Grande. Immensa lira era il Creäto allora a la sua mente armonizzata, immenso ocëan di splendori e d'armonia. Misterïoso Angiol rimasto in terra in un linguaggio a federar gli umani, la Musica, dappria gemea ne l'onde, ne le boscaglie armonizzate a' venti, o nel gorgheggio de' pennuti. Spesso, o da l'amore o dal dolor percosso, armoniosi e disperati gridi il mortale traëa: soventi ancora svegliò per caso ne le canne argute modulati sospir, gemiti e suoni, e meditovvi; e di voluttuosi, pur dubbî ritmi indi vestì cogli anni quanto il caso crëò. Ma sempre arcano, incomprensibil sempre Angiol canoro, la Musica versava intorno all'uomo inebbrïante rapimento. Ei primo, Pittagora, vagando ad alta notte, potentemente ei ragionò con questo Angiol misterïoso: il vel gli tolse, e catenato in numeri soävi il dié nudo al mortal. L'Angiol si piacque dell'ardimento, e sua perenne elesse, non prigione, ma reggia Italia intera; e a lui, che il vinse, il gran volume aperse d'un'armonia più vasta, onde composti son tanti mondi ad una danza; e i cieli di mille soli scintillâr sul capo del rapito pensante; ed egli, assorto arcanamente in quel profondo azzurro, bevea la melodia misterïosa, ch'eternamente si riversa e spande fra le correnti de l'eterea luce. E in quelle notti misurò la via, cui dopo il giro di cotanta etade segnar dovea Copernico - Straniero! S'io canto il lauro de' miei padri, oltraggio al tuo lauro non sia: con quanta gioia con quanto amor te nomerei fratello, il Cielo il sa. Ma la mia patria assorge a nuova vita. Ne le ausonie feste porta in pace, stranier, s'io non ascondo de' padri miei la rinomanza antica. E tu mi addita una tua gloria, un solo lauro sovran, che ti ghirlandi il crine, e i figli di Pitagora verranno a cantar generosi i lauri tuoi. Pur finché il Sol saetterà quest'onde del suo riso sovran, finché l'aprile decorrerà queste campagne e un cuore su questo suol palpiterà, quest'una Itala sponda resterà regina conservatrice e crîatrice eterna dell'armonia de l'arti e del pensiero. Voce è questa di Dio: voce di Dio, che su quest'onde seminò dal cielo squadre, seste, compassi, arpe e colori; onde la vita palpitò nei marmi di Prassitele al cenno; onde la vita di Zeusi a' tocchi arcanamente emerse da la magìa de le dipinte tele.

10.

Tutto, tutto vi arrise, Italo-Greci Sovrani Artisti. Una beltà divina su le fanciulle Sibarite ardea: robuste forme v'offerria la terra, ove lottò Milone, ove del Sagra pugnâr sui campi vigorosi atleti. Giocondi soli, ricrïanti climi, nitidezza di cieli, e monti, e mari e diffuse pianure... oh ben l’albergo degli artisti fu questo, e ben provvide quando di Genî il popolò l'Eterno. Qui fra i riposti altar, su per le svelte salïenti colonne un portentoso ordin di marmi effigïati alzossi. Ricche di vita e di memorie, eterni monumenti de l'arte e del pensiero, mille dorate tavole pendeano fra le Joniche sale. Ah! l'arti allora confortatrici del civil coraggio, non lascivia d'ingegno, eran pei forti! Del patrio amor Sacerdotessa ardente, la poesia di Nosside, cantava a' combattenti patrïotti. I numi, o la memoria degli antichi eroi a lo studio del canto eran subbietto, e all'armonia de' marmi e de' colori. Or chi ti svelse dal marmoreo stallo, accigliato Tonante? Or chi ti tolse la noderosa clava, Ercole altero, che su la combattuta Idra spirante con lëonina maestà sedevi? Ove il tuo cinto, i tuoi colombi e il tuo di lucenti conchiglie etereo cocchio, Diva madre del riso e degli amori? E tu più bianca de l'intatta neve, che fiocchi in vetta a l'inaccesso Olimpo, giovinetta immortale, Ebe celeste, ove sei? Su qual'aura erran tue bionde trecce diffuse? Come te, raggiante di profumata giovinezza eterna, per questi lidi sorvolò, crëando, la fantasia dei sommi Italo-Greci! Non anche offesa da codardi affanni, pura come la prima alba del mondo, fuor di quest'acque emerse in sua gentile semplicità. Deh! perché mai nel cielo, quasi aborrendo da le colpe umane, spaventata risalse? Anche il dolore, anche il dolore ella vestia d'un vago melanconico velo; e non vedevi in quei marmi sublimi un disperato e di membra scompiglio e di sembianze; ma un pensieroso reclinar di fronti, una grazia di teste, ed un soäve languor di sguardi, che parea svelasse al pellegrino del dolor le gioie, la voluttà d'un rassegnato affanno. Deh perché mai, deh perchè mai nel cielo, quasi abborrendo dalle colpe umane, spaventata risalse? Ah perchè mai de' suoi portenti i prezïosi avanzi colla gelida man disperse il Tempo!

11.

Chi può dir mai quanti tesauri accogli sotto quest'acque, o mar? Se potess'io le tue immense voragini profonde d'un cenno aprir novellamente al sole, qui troverei le tavole immortali, su cui Caronda suggellò col sangue le sue leggi tremende, ed i civili codici intemerati, onde d'Archita la carità parlava e la virtute. Oh quanto senno troveriavi accolto questa età di perigli e di trïonfi! Né senza frutto gl'itali veggenti leggerian da la libera tribuna del Gran Concilio Eracleënse i dommi; i sacri dommi, onde, o mia patria, un giorno trarran consiglio i figli tuoi poggiando d'una più vasta libertà sul monte. E voi, forti Lucani, a cui natura Maschio petto concesse e cuor gagliardo, voi che per troppo tralignar d’etadi non ismetteste l’ospital sorriso e la virtù de' vostri padri, voi qui, superbendo, i dissepolti avanzi de le vostre città contemplereste; de le vostre città, che la possente ala del tempo, ribellando i fiumi, tutte sovverse e traportò nel mare. Sotto quest'acque trovereste gli elmi dei vostri antichi e le corazze e i gravi scudi di rame e i sandali guerrieri!

12.

Sepolcro eterno, o mia Lucania, è questo ampio mar, che veleggio, a le tue prische marittime città. Lucano anch'io, da questo mare ti contemplo e canto, Terra Lucana! Ecco: distende il cielo un manto azzurro su le tue montagne, e nel suo riso verginal la luna le tue selve inargenta. Ancor sei bella, sei bella ancor, Terra Lucana! Sacra emmi ogn'itala zolla, eppur le tue aure bevvi nascendo, e nel tuo seno dormono i padri miei. Tutto a te diede, Lucania, il cielo: le montagne e i mari, i vulcani e le nevi, il negro abete e l'aureo pomo orïental, franati brulli dirupi e facili pianure biondeggianti di grani e d'oliveti, e pampinosi poggi e lauri e tutto. Indi i tuoi figli, armonizzati al suolo, ne la battaglia eroi, dolci nel canto, ed atti al grave meditar profondo. Indi Ocello Lucano, indi l'immensa fantasia di colui, che d'aureo strale feria scherzando il cesaréo Lïone entro le reggie banchettate, e tutti del bello i dommi in un concento accolse, e incarnò ne' suoi carmi: e a la supreme regïoni del Genio aprendo il volo, a Pindaro mostrò con ala ardente che solo in tanto spazio ei più non era. Or l'Angiol del passato erra solingo fra le tue selve e parla ai nembi: siede sovra le sponde de' tuoi fiumi, e muto novera l'onde discorrenti al mare. Or com'aquila bruna il vol raccoglie su le cime del Vulture; si posa su quell'eterno stallo; e mentre il vento le lunghe chiome le scompiglia intorno a la fronte severa, i monti e l'acque ei misura d'un guardo: indi librato su le penne sonanti, a larghe ruote rade d'Acri e di Sinni i vasti piani, e con voce di tuono i forti evoca, che perîr su quei campi.

13.

Armi e cavalli e carri e picche ed alte aquile d'oro guidò là spesso la virtù latina. E allor che in mezzo ai sanguinosi brandi terribilmente soverchiâr le schiere d'improvvvisi elefanti, onde paüra torse in fuga i Romani innanzi a Pirro, quell'ampie chiane di cotanti uccisi morte coprì, che il vincitor piangendo a la vittoria maledisse. I fiumi portâr sangue. A la notte in mezzo al campo del Molosso lo spettro alto vagava, chiuso in armi corrusche; e, sogghignando su tanto fior di gagliardia mietuto, la propria morte ricordò, quando egli del fatale Acheronte in mezzo a l’acque. Imprecando quel dì che piantar volle in paese non suo l’asta guerriera, sotto al brando Lucan cadde trafitto, e da le sanguinate onde rapito appo le porte d'Eraclea percosse lutulento cadavere. Fatale sia quest'Itala Terra a lo straniero sempre così! sempre col sangue ei sconti i suoi brevi trïonfi in questa terra! Ché non per morte ei si spaventa; e, quasi spinto da fato irresistibil, corre (e tu, Tedesco, in Lombardia tel sai) a morir qui, dov'ei sognò corone. E questi campi depredò crudele lo scapigliato Saraceno, ed irti minacciosi castelli in questa vaga classica sponda fabbricò lo Svevo, ed il Normanno abbeverò nel Brada i suoi bai cavalli. Indi la fame, i tremuoti, la peste il tempo in muta deserta landa tramutâr quest'alma popolosa contrada, unica al mondo.

14.

Ahi! ben per lunga schiavitù la terra isterilisce! E non un arbor vedi, che di ombra amica le pianure allegri, ove tu, Metaponto, un dì sedevi de le tue ville suburbane al rezzo! Despota il sole e illimitato incende quelle vaste campagne allor che sale sovra la giubba del lëon. Non odi aura, che spiri fra le secche ariste, e gli spazî del mar, che fuman lenti, con la punta dell'ala increspi. Immoto, pestifero, affannoso aër s'addensa sotto quel cielo solitario. I fiumi la morte esalan del villan, che pallido, arso, rilasso ne le membra, indarno i venticelli de l'april, le molli rugiade del mattin, morendo, invoca! Eppur quei campi torneran soave feconda sede di città fiorenti popolate e felici. Or più non pesa sui nostri petti la vergogna e il tedio di noi stessi e del suolo. Ad alta fronte, liberi, e degni di color che un giorno per quei campi abitâr, su per quei campi innalzerem le cittadine mura. Su per quei campi spunteran boscaglie e di cedri e d'ulivi: entro le chete ombre novelle il rossignuoi le care sue melodie ripeterà. Le melme non veleran le tue correnti, o sacro Bradano antico; ma deterso e puro, per solerte lavoro, in grembo al mare, ville e campagne fecondando, andrai. Salve, tornata a queste piagge, o santa aura di libertà! dove tu spiri anche i deserti allieti. Al tuo sorriso canta il villan su le feconde zolle, corone intreccian le fanciulle, al cielo s'alzan le torri e le città, la terra di fior s'ammanta e di navigli il mare!

15.

Senza vergogna la novella prole e senza pianto guarderà le tue sponde, o Jonio sublime: a questi lochi verrà sovente ad ispirarsi. E voi, Ligure navi, e voi Venete, amiche approderete fra quest'acque; e gaie fraterne voci da la ricca sponda saluteranvi. L'anime sublimi e di Doria e di Gioia, alte pei mari, v'enfieranno le vele, e nuovi lidi v'additeranno, o federate navi! Ché no, per Dio! non dormirem profondi sonni più mai. Liberi, ardenti e veri Itali noi, non per età cadremo sul limitar de la novella via. Ricorderem che da quest'acque emerse quanto di grande coronò l'Europa: che da quest'acque l'italo pensiero sulle genti regnò: ch'indi de l'arti la divina armonia; ch'indi il gran volo, che misurò le sfere…!

16.

Or salve, o sole, su queste vôte abbandonate rive! Tu vi riedevi in altra età, posando sovra mille città l'aureo tuo cocchio, stanco de' nembi e de' deserti immensi, onde or ne insulta lo straniero, ed ove inorridito illuminavi, o Sole, per selvagge boscaglie umane belve, ed empî riti e scellerati altari!

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