AL
MARE
JONIO
Oh come, oh come
gli ebbri miei sguardi all'incantevol vista
si raccendon di speme!-In questa dolce
amica solitudine vorrei
solo restarmi, e parteggiar l'omaggio
di queste limpid'onde col sereno
spirto del loco!
Byron
1.
È bello il ciel, che ti fa tenda, o antico
Jonio sublime: del più fosco azzurro
antelucano ei pinga i tuoi profondi
seni vocali; di rubini ardenti
o di pallide rose ei ti cosparga,
o che risorga o che tramonti il sole,
è bello il ciel, che ti fa tenda, o antico
Joniosublime. E in te si specchia, e tutto
di sua divina leggiadria t'informa
l'itala Donna, che sull'Alpe aderge
la coronata fronte, e il piè ne' tuoi
tepenti flutti, antico Jonio,asconde;
l'itala Donna, a cui nel cor virile
arde l'incendio de' Vulcani, e a cui
de l'Alpe il gelo la ragion matura,
e ne' proposti la rafferma. Iddio
di tre mari l'ha cinta: e tu, sublime
Jonio,quell'acque irrequïete accogli
fra le cerule braccia, e le componi;
onta, gran tempo, o italiani, a noi
dissociati e sparsi! Ove più cupo
rompe il grido di Scilla,ove solenne
di Leuca il Capo la quïeta avvalla
solitaria penombra, ivi tu lieto
l'onde Adriache ragguaglie e le Tirrene.
Ivi trassi ramingo, a quella bruna
perpetua vece di correnti, a quello
palpito eterno di gementi flutti
pacificati in un amplesso, e dissi:
quale amor vi affatica, o tre fratelli
Itali mari? Qual dolor, qual forte
necessità di rivedervi scuote
i vostri fianchi immensi, e le intentate
viscere? Arcana, come Dio, vi muove
quell'indomabil simpatia, che pure
arde nell'uom perennemente, e il preme
perennemente nel desio d'un bene,
cui disperato anela, e mai trova?
O lamentate le catene e il nostro
lutto, o mari fratelli?
2.
Eccomi: io solco,
Jonio, le tue pianure. Alta ne' cieli
la notte assorge. Nel tuo curvo lido
splendono i fuochi de' casali, e lunge
di stelle falsan la sembianza. Spira
il più caro levante, e a me gli affetti,
al mio bruno naviglio apre le vele.
3.
Quando suonò la voce onnipossente,
che pose leggi all'acque, e sovra i mari,
aura tremenda, vïaggiò Jehòva,
Jonio, covrivi questo letto, o bello
de' tuoi giovani frutti, altri velavi
interminati abissi, altre scuotevi
disabitate sponde? Immensa, arcana
è la notte de' tempi. Unica luce,
e dubbia forse, che la rompa, è il grido
de le passate genti a le novelle
genti trasmesso, o de' pensanti il guardo
vïolator de la profonda terra.
Altri, o Jonio, tu forse, altri tenevi
ceruli regni allora. Ov'oggi immensi
si stendono i deserti, ove solinga
ride l'Oäsi ed il Sahara avventa
verso un ciel senza sponde un mar d'arene,
ivi tu forse il palpito primiero,
Jonio, sentisti in grembo a le sonanti
acque novelle; e qui, dove or tu posi,
eran campi, pasture, alberi, monti,
uomini, colpe... e tirannia fors'anche.
Onde la provocata ira celeste
ruppe gli argini al mare, e l'empia Terra
fra le procelle avvolse. E allor tu stesso,
or sì limpido e piano, allor tu stesso
il tempestoso padiglion de' l'acque,
ruggendo, alzasti a le colline, ai monti,
agli altissimi monti, al cielo. E quando
su la vïaggiatrice arca sorrise
l'iride giovinetta, il riversato
mar seminando d'amorosa luce;
e l'errante colomba iva radendo
le decrescenti acque composte, e gaie
vennero a l'aria le montagne, e Dio
benedisse a la Terra, allor tu forse
solennemente trasmigrasti ai curvi
lidi, ch'or bagni. Meraviglia al sole,
fiorîr di boschi i disertati abissi,
e suonâr di città.
4.
Salve! Tu prima
(se ne le prische età non erra il carme)
tu prima, da la fosca onda degli anni
spinta, ponevi le tue tende in queste
rive odorate, o generosa e forte
tirrenia prole. Vergini boschetti
d'aranci e di mortelle ivan siepando
questi flutti lucenti: e, mentre al sole
le cavalle pascean su le pianure,
tu, riposata a l'ombra, inni campestri,
l'ora estiva ingannando, alto cantavi.
Io vidi spesso la novella luce
sorger da l'acque; colorar gli estremi
lembi del mar di porpora fiammante;
de' monti avversi redemir le creste
di vivissimo foco: indi, fugate
le vaporose ombre notturne, in cielo
crescer sovrana e folgorante, e tutta
in aureo rnanto avviluppar la Terra
così la prisca civiltà per voi,
o vaganti Tirreni, in queste piagge
diffuse i rai de l'immortal suo disco,
ch'indi schiarò l'Europa: e a queste arene,
tipo miglior de la progenie umana,
così venne il Pelasgo, e qui la sacra
dei nostri Padri sapienza arcana
trapiantò, che fu poscia immenso stame
de la gemmata tunica civile,
Che i fianchi avvolse al barbaro occidente;
fu vivo sol, che per mutar di etadi
ancor non manca di splendor, ma pari
al Titon de le favole gentili,
giovine sempre ed indomato, informa
de' primi veri ogni novella idea,
ogni ardimento degli umani.
5.
O Magna
Grecia, qui fosti! Questo mar fu specchio
a le tue scuole cittadine, ai tuoi
interrogati oracoli supremi,
ai tuoi contesi portici. Qui fosti,
classica Terra, Magna-Grecia! Ah dite,
stelle dei ciel, che de la stessa luce
le sue notti allegraste, evvi mai cuore,
italo cuor, che di possenti affetti
su quest'onde non arda, e di quei colli
pei soävi contorni alto sull'ale
del sovvenir non erri? Oh quante ville,
quante città per quel ricurvo lido!
Quanta gagliarda gioventù, qual prode
popol vi stette, libero, gigante
immaginoso! Eran per lui le stelle
popolate di spirti: alberi, fonti,
fiumi, boschi, dirupi, eran d'arcane
intelligenze alberghi. Incantatrici
Nereidi per quest'onda ivan cantando:
da le profonde scive uscian le Ninfe
composte a danza de le stelle al raggio.
Fatidiche cortine ondavan lente
sul limitar de' delubri: perenni
ardean le fiamme sul riposto altare.
Ridea l'olimpo sui tuoi flutti aperto,
o fantastico Jonio; e tu parevi
anfiteatro d'acque, a cui ghirlanda
fean umili colline, alte montagne
Greche, Japigie, Sicule, Lucane
e di Morea le balze: anfitëatro,
su cui fraganti d'immortal profumo
scendean gli Eterni a visitar la terra.
Lucenti cocchi ivan per l'aria, arcane
melodie da quest'onde uscian portate
dei zefiri sull'ale e de' favonî.
Liberi amori ardëano nel colmo
petto di balde vergini, a guerrieri
cocenti amplessi abbandonate. Oh i tempi
de la forza, del senno e de la vita!
Compaginata di più forti nervi,
men dal tedio evirata, emunta meno
da ridolenti ozî nefandi, un'alta
stirpe tenea queste campagne, e queste
verdeggianti pianure! Irrequïete
scendeano i Genii de la patria intorno
agl'inaccessi lari, a le vegliate
civiche porte! De la Guerra al grido
confederata gioventù pugnava
sanguinose battaglie. Odi nel vallo
suonar le trombe: sterminato piano
d'auree messi coperto è l'ampio circo
dei volanti guerrieri: ecco da lunge
di sfrenati cavalli onda crescente
venir col suon de la tempesta incontro
ad un'altr'onda di cavalli: avanti!
Avanti, o prodi! Dei poëti il grido
le pianure discorra e l'aria e l'onda:
freme il vento ne' grani, e l'auree spiche
stridon lambendo i lacerati fianchi
dei fumanti destrieri: ecco, le colme
messi mature un mar di sangue incesta:
nel tripudio dell'ira ecco caduti
mille gagliardi giovinetti: anch'essi
i feroci cavalli, al cor feriti,
fra le compresse sanguinose cinghie
spirando esultan resupini al sole.
Bello é morir sul campo: avanti, avanti!
Sul niveo carro la Vittoria appressa
le vincenti città; scende la morte
coi mille estinti all'Erabo. Beäti
per la patria i caduti! Eterna ad essi
la cittadina lode, il voto ardente
de le gementi vergini deserte,
e la luce del canto. O voi del Brada
storiche sponde! fragorose ripe
dell'Aciri e del Sinno! o sacri pioppi
del Crati! io vi saluto, io vi saluto
colla novella e colla età mancita!
O famosa Cotrone! o Tarantino
golfo, speranza, asilo ultimo e tomba
ai tornati dell'Ida eterni Achei!
O mura di Petilia! o Locri! o verdi
campi del Nieto! io vi saluto e canto.
Noverator di divinate glebe
su voi non langue il pensier mio, ma caldo
d'itala carità trascorre e passa
colla foga dei lampi; e in un concento
d'immensa età le ricordanze accoglie.
6.
Stretta di muri e di colonne al cinto,
coronata di cupole e di torri,
la ionica Cibele il pié tuffava
entro a l'acque del Bradano; l'antica
Metapontofamosa, alta Metàbo.
Per dovizie possente e per gagliarda
patria virtude, prezîosi doni
ed aurei busti ai deprecati offerse
tempii di Delfo; onde feconda rise
a lei la messe ne' suoi campi e il pingue
provvido olivo e la sanguigna vite.
A la parete del suo tempio appese
pendean l'ascia e la pialla, onde d'Epéo
si armò la man, quando commesso i fianchi
al gran cavallo espugnator di Troia.
Col Sinno a ritta e l'Aciri a mancina
sovra un facile colle alta Eracléa
conversa al riso orïental sedeva.
Benché dal tempo distruttor sovverse,
ne la memoria de l'età lontane
città famose entrambe, eterni altari,
su cui la vampa dei saver pelasgo,
pari al fuoco di Vesta, arse rompendo
de l’occidente le tenebre antiche!
7.
Or la spica e il lentisco occupa i seggi
di quell’auree città. Silenzioso
volge il Bradano al mar l’onda romita.
Spesso il lucan agricoltor, spezzando
quelle glebe deserte, in elmi antichi
e in mozzi brandi coll’aratro offende;
e spesso il solco riconduce al sole
lapidi eterne, in cui la man degli avi
scrisse leggi immortali. Ove Eraclea
stette, ombreggiano i boschi; e il cinghial scava
fra le macerie e i lividi pantani
frantumate colonne. Entro quei boschi
suonò lunghi anni dei Cenobî il salmo:
ed or biancheggia su le folte macchie
turrito albergo, a l’arti amico, ai cari
studî campestri, ai splendidi ritrovi,
ed ai riposi de la caccia ansante.
Talor, quando la notte alto cammina,
per quest’onde deserte ascolti il grido
del barcaiuol, che, trafficando in mare,
da Taranto a Crotone apre le vele.
Ed or ch’io passo e canto una segreta
fra l’acque ascolto melodia divina,
che aleggia intorno al mio naviglio. Or forse
sei tu, Calipso solitaria, errante
su questo mar, che ti fu caro? O questa,
o questa è forse l’elegia fatale,
cui da l’area rupe ultima sciolse
Saffo infelice, allor che volta ai cieli,
data le braccia ed i capelli ai venti,
gridando amor precipitò ne’ flutti?
O tu sei, che ritorni a l’aure a l’onde
di Zacinto materna, o sventurato
Foscolo mio? Tuo lungo amor, tuo lungo
disperato disio questi sereni
spazii di ciel furono un dì fra i nembi
d’Albione! – T’allegra, o spirto ardente,
t’allegra, e canta! Da le Bruzie selve
surse un grido di guerra; e i generosi
figli di Dafne si levâr sull’Etna.
Italia tua libera è tutta, come
libera Ellenia de le sue catene
s’alzò tremenda. Oh, che ne l’urna almeno,
Ugo, sentisti in libertà ridutte
la patria de la culla e de l’amore!
Su pei colli di Zante arde fremente
de’ carmi il fuoco: e di tua mente un raggio
di Solomos nel petto inni guerrieri
spira. Chi mai, chi non saria poeta
su queste piagge, ov’abitò colui,
che l’armonia de’ firmamenti intese?
8.
Qui Pitagora immenso, allor che l'empio
pugnal Crotonïate incontro al santo
cuor la sua stessa carità gli mosse,
qui ramingò molti anni, e qui, potente
di divino coraggio, il tempio aperse
dei rinnovati studî. Un infinito
popol d'alunni lo seguia ne l'alte
scuole di Metaponto; indomit'alme,
a l'esiglio, a la fame, a le catene,
a la morte parate anzi, che vili
negar la fede de la sua parola,
i suoi dommi tradir. Le donne, anch'esse,
le molli disertando opre gentili,
venian severe a disputar sui marmi
del suo Liceo. Pittagora! qual mente,
quale altissima mente a tanto volo,
come a la tua levossi, o sì dappresso,
guardò ne' cieli? Qual fu mai fra i nati
al disperante fiuttuär perenne
per la notte del dubbio e del mistero,
qual fu mai, che, a te pari, un tanto sguardo
gittasse in grembo de l'età venture,
e di tant'ombra disvestisse il mondo?
Ultimo lampo d'un'età caduta,
lampo primier d'una novella etade,
di qui sovrano ad annodarle alzavi
rigenerante universal parola.
Questo mar, questi colli e questo cielo
furono il tempio e la fatal cortina,
onde parlavi ad erudir le genti,
e mille età concelebrâr devote
questo ciel, questi colli e questo mare.
Tu riflettevi l'universo; e nulla
stranier ti parve, o creätor de l'alto
Italo-greco socïal Liceo.
Tu guerrier, tu possente unico Sofo,
tu generoso cittadin, tu voce
conciliatrice di due mondi, ardente
martire del pensiero e dell'amore,
tu presentivi, meditando, l'alta
necessità d'una parola arcana
rivelata ai mortali. Astro sublime
del ciel pagano! Di solinga luce
per molte età ripercuotesti il mondo,
finché rïarso nel gran sol di Giuda
sull'orizzonte cristïan t'alzasti
quasi gigante a correre la via.
Nel tuo splendor santificato, oh quanto,
quale altissimo volo aprïr sovrani
l'Angiol di Bova e l'Angiolo d'Aquino!
9.
Sparso i lunghi capelli a l'aura errante,
negli ampi seni del suo manto accolto,
per queste sponde solitario errava
quando più muta era la notte, il Grande.
Immensa lira era il Creäto allora
a la sua mente armonizzata, immenso
ocëan di splendori e d'armonia.
Misterïoso Angiol rimasto in terra
in un linguaggio a federar gli umani,
la Musica, dappria gemea ne l'onde,
ne le boscaglie armonizzate a' venti,
o nel gorgheggio de' pennuti. Spesso,
o da l'amore o dal dolor percosso,
armoniosi e disperati gridi
il mortale traëa: soventi ancora
svegliò per caso ne le canne argute
modulati sospir, gemiti e suoni,
e meditovvi; e di voluttuosi,
pur dubbî ritmi indi vestì cogli anni
quanto il caso crëò. Ma sempre arcano,
incomprensibil sempre Angiol canoro,
la Musica versava intorno all'uomo
inebbrïante rapimento. Ei primo,
Pittagora, vagando ad alta notte,
potentemente ei ragionò con questo
Angiol misterïoso: il vel gli tolse,
e catenato in numeri soävi
il dié nudo al mortal. L'Angiol si piacque
dell'ardimento, e sua perenne elesse,
non prigione, ma reggia Italia intera;
e a lui, che il vinse, il gran volume aperse
d'un'armonia più vasta, onde composti
son tanti mondi ad una danza; e i cieli
di mille soli scintillâr sul capo
del rapito pensante; ed egli, assorto
arcanamente in quel profondo azzurro,
bevea la melodia misterïosa,
ch'eternamente si riversa e spande
fra le correnti de l'eterea luce.
E in quelle notti misurò la via,
cui dopo il giro di cotanta etade
segnar dovea Copernico - Straniero!
S'io canto il lauro de' miei padri, oltraggio
al tuo lauro non sia: con quanta gioia
con quanto amor te nomerei fratello,
il Cielo il sa. Ma la mia patria assorge
a nuova vita. Ne le ausonie feste
porta in pace, stranier, s'io non ascondo
de' padri miei la rinomanza antica.
E tu mi addita una tua gloria, un solo
lauro sovran, che ti ghirlandi il crine,
e i figli di Pitagora verranno
a cantar generosi i lauri tuoi.
Pur finché il Sol saetterà quest'onde
del suo riso sovran, finché l'aprile
decorrerà queste campagne e un cuore
su questo suol palpiterà, quest'una
Itala sponda resterà regina
conservatrice e crîatrice eterna
dell'armonia de l'arti e del pensiero.
Voce è questa di Dio: voce di Dio,
che su quest'onde seminò dal cielo
squadre, seste, compassi, arpe e colori;
onde la vita palpitò nei marmi
di Prassitele al cenno; onde la vita
di Zeusi a' tocchi arcanamente emerse
da la magìa de le dipinte tele.
10.
Tutto, tutto vi arrise, Italo-Greci
Sovrani Artisti. Una beltà divina
su le fanciulle Sibarite ardea:
robuste forme v'offerria la terra,
ove lottò Milone, ove del Sagra
pugnâr sui campi vigorosi atleti.
Giocondi soli, ricrïanti climi,
nitidezza di cieli, e monti, e mari
e diffuse pianure... oh ben l’albergo
degli artisti fu questo, e ben provvide
quando di Genî il popolò l'Eterno.
Qui fra i riposti altar, su per le svelte
salïenti colonne un portentoso
ordin di marmi effigïati alzossi.
Ricche di vita e di memorie, eterni
monumenti de l'arte e del pensiero,
mille dorate tavole pendeano
fra le Joniche sale. Ah! l'arti allora
confortatrici del civil coraggio,
non lascivia d'ingegno, eran pei forti!
Del patrio amor Sacerdotessa ardente,
la poesia di Nosside, cantava
a' combattenti patrïotti. I numi,
o la memoria degli antichi eroi
a lo studio del canto eran subbietto,
e all'armonia de' marmi e de' colori.
Or chi ti svelse dal marmoreo stallo,
accigliato Tonante? Or chi ti tolse
la noderosa clava, Ercole altero,
che su la combattuta Idra spirante
con lëonina maestà sedevi?
Ove il tuo cinto, i tuoi colombi e il tuo
di lucenti conchiglie etereo cocchio,
Diva madre del riso e degli amori?
E tu più bianca de l'intatta neve,
che fiocchi in vetta a l'inaccesso Olimpo,
giovinetta immortale, Ebe celeste,
ove sei? Su qual'aura erran tue bionde
trecce diffuse? Come te, raggiante
di profumata giovinezza eterna,
per questi lidi sorvolò, crëando,
la fantasia dei sommi Italo-Greci!
Non anche offesa da codardi affanni,
pura come la prima alba del mondo,
fuor di quest'acque emerse in sua gentile
semplicità. Deh! perché mai nel cielo,
quasi aborrendo da le colpe umane,
spaventata risalse? Anche il dolore,
anche il dolore ella vestia d'un vago
melanconico velo; e non vedevi
in quei marmi sublimi un disperato
e di membra scompiglio e di sembianze;
ma un pensieroso reclinar di fronti,
una grazia di teste, ed un soäve
languor di sguardi, che parea svelasse
al pellegrino del dolor le gioie,
la voluttà d'un rassegnato affanno.
Deh perché mai, deh perchè mai nel cielo,
quasi abborrendo dalle colpe umane,
spaventata risalse? Ah perchè mai
de' suoi portenti i prezïosi avanzi
colla gelida man disperse il Tempo!
11.
Chi può dir mai quanti tesauri accogli
sotto quest'acque, o mar? Se potess'io
le tue immense voragini profonde
d'un cenno aprir novellamente al sole,
qui troverei le tavole immortali,
su cui Caronda suggellò col sangue
le sue leggi tremende, ed i civili
codici intemerati, onde d'Archita
la carità parlava e la virtute.
Oh quanto senno troveriavi accolto
questa età di perigli e di trïonfi!
Né senza frutto gl'itali veggenti
leggerian da la libera tribuna
del Gran Concilio Eracleënse i dommi;
i sacri dommi, onde, o mia patria, un giorno
trarran consiglio i figli tuoi poggiando
d'una più vasta libertà sul monte.
E voi, forti Lucani, a cui natura
Maschio petto concesse e cuor gagliardo,
voi che per troppo tralignar d’etadi
non ismetteste l’ospital sorriso
e la virtù de' vostri padri, voi
qui, superbendo, i dissepolti avanzi
de le vostre città contemplereste;
de le vostre città, che la possente
ala del tempo, ribellando i fiumi,
tutte sovverse e traportò nel mare.
Sotto quest'acque trovereste gli elmi
dei vostri antichi e le corazze e i gravi
scudi di rame e i sandali guerrieri!
12.
Sepolcro eterno, o mia Lucania, è questo
ampio mar, che veleggio, a le tue prische
marittime città. Lucano anch'io,
da questo mare ti contemplo e canto,
Terra Lucana! Ecco: distende il cielo
un manto azzurro su le tue montagne,
e nel suo riso verginal la luna
le tue selve inargenta. Ancor sei bella,
sei bella ancor, Terra Lucana! Sacra
emmi ogn'itala zolla, eppur le tue
aure bevvi nascendo, e nel tuo seno
dormono i padri miei. Tutto a te diede,
Lucania, il cielo: le montagne e i mari,
i vulcani e le nevi, il negro abete
e l'aureo pomo orïental, franati
brulli dirupi e facili pianure
biondeggianti di grani e d'oliveti,
e pampinosi poggi e lauri e tutto.
Indi i tuoi figli, armonizzati al suolo,
ne la battaglia eroi, dolci nel canto,
ed atti al grave meditar profondo.
Indi Ocello Lucano, indi l'immensa
fantasia di colui, che d'aureo strale
feria scherzando il cesaréo Lïone
entro le reggie banchettate, e tutti
del bello i dommi in un concento accolse,
e incarnò ne' suoi carmi: e a la supreme
regïoni del Genio aprendo il volo,
a Pindaro mostrò con ala ardente
che solo in tanto spazio ei più non era.
Or l'Angiol del passato erra solingo
fra le tue selve e parla ai nembi: siede
sovra le sponde de' tuoi fiumi, e muto
novera l'onde discorrenti al mare.
Or com'aquila bruna il vol raccoglie
su le cime del Vulture; si posa
su quell'eterno stallo; e mentre il vento
le lunghe chiome le scompiglia intorno
a la fronte severa, i monti e l'acque
ei misura d'un guardo: indi librato
su le penne sonanti, a larghe ruote
rade d'Acri e di Sinni i vasti piani,
e con voce di tuono i forti evoca,
che perîr su quei campi.
13.
Armi e cavalli
e carri e picche ed alte aquile d'oro
guidò là spesso la virtù latina.
E allor che in mezzo ai sanguinosi brandi
terribilmente soverchiâr le schiere
d'improvvvisi elefanti, onde paüra
torse in fuga i Romani innanzi a Pirro,
quell'ampie chiane di cotanti uccisi
morte coprì, che il vincitor piangendo
a la vittoria maledisse. I fiumi
portâr sangue. A la notte in mezzo al campo
del Molosso lo spettro alto vagava,
chiuso in armi corrusche; e, sogghignando
su tanto fior di gagliardia mietuto,
la propria morte ricordò, quando egli
del fatale Acheronte in mezzo a l’acque.
Imprecando quel dì che piantar volle
in paese non suo l’asta guerriera,
sotto al brando Lucan cadde trafitto,
e da le sanguinate onde rapito
appo le porte d'Eraclea percosse
lutulento cadavere. Fatale
sia quest'Itala Terra a lo straniero
sempre così! sempre col sangue ei sconti
i suoi brevi trïonfi in questa terra!
Ché non per morte ei si spaventa; e, quasi
spinto da fato irresistibil, corre
(e tu, Tedesco, in Lombardia tel sai)
a morir qui, dov'ei sognò corone.
E questi campi depredò crudele
lo scapigliato Saraceno, ed irti
minacciosi castelli in questa vaga
classica sponda fabbricò lo Svevo,
ed il Normanno abbeverò nel Brada
i suoi bai cavalli. Indi la fame,
i tremuoti, la peste il tempo in muta
deserta landa tramutâr quest'alma
popolosa contrada, unica al mondo.
14.
Ahi! ben per lunga schiavitù la terra
isterilisce! E non un arbor vedi,
che di ombra amica le pianure allegri,
ove tu, Metaponto, un dì sedevi
de le tue ville suburbane al rezzo!
Despota il sole e illimitato incende
quelle vaste campagne allor che sale
sovra la giubba del lëon. Non odi
aura, che spiri fra le secche ariste,
e gli spazî del mar, che fuman lenti,
con la punta dell'ala increspi. Immoto,
pestifero, affannoso aër s'addensa
sotto quel cielo solitario. I fiumi
la morte esalan del villan, che pallido,
arso, rilasso ne le membra, indarno
i venticelli de l'april, le molli
rugiade del mattin, morendo, invoca!
Eppur quei campi torneran soave
feconda sede di città fiorenti
popolate e felici. Or più non pesa
sui nostri petti la vergogna e il tedio
di noi stessi e del suolo. Ad alta fronte,
liberi, e degni di color che un giorno
per quei campi abitâr, su per quei campi
innalzerem le cittadine mura.
Su per quei campi spunteran boscaglie
e di cedri e d'ulivi: entro le chete
ombre novelle il rossignuoi le care
sue melodie ripeterà. Le melme
non veleran le tue correnti, o sacro
Bradano antico; ma deterso e puro,
per solerte lavoro, in grembo al mare,
ville e campagne fecondando, andrai.
Salve, tornata a queste piagge, o santa
aura di libertà! dove tu spiri
anche i deserti allieti. Al tuo sorriso
canta il villan su le feconde zolle,
corone intreccian le fanciulle, al cielo
s'alzan le torri e le città, la terra
di fior s'ammanta e di navigli il mare!
15.
Senza vergogna la novella prole
e senza pianto guarderà le tue
sponde, o Jonio sublime: a questi lochi
verrà sovente ad ispirarsi. E voi,
Ligure navi, e voi Venete, amiche
approderete fra quest'acque; e gaie
fraterne voci da la ricca sponda
saluteranvi. L'anime sublimi
e di Doria e di Gioia, alte pei mari,
v'enfieranno le vele, e nuovi lidi
v'additeranno, o federate navi!
Ché no, per Dio! non dormirem profondi
sonni più mai. Liberi, ardenti e veri
Itali noi, non per età cadremo
sul limitar de la novella via.
Ricorderem che da quest'acque emerse
quanto di grande coronò l'Europa:
che da quest'acque l'italo pensiero
sulle genti regnò: ch'indi de l'arti
la divina armonia; ch'indi il gran volo,
che misurò le sfere…!
16.
Or salve, o sole,
su queste vôte abbandonate rive!
Tu vi riedevi in altra età, posando
sovra mille città l'aureo tuo cocchio,
stanco de' nembi e de' deserti immensi,
onde or ne insulta lo straniero, ed ove
inorridito illuminavi, o Sole,
per selvagge boscaglie umane belve,
ed empî riti e scellerati altari!