Spiritus loci

date

1935

author

Panzini, Alfredo

title

Una visita al paesello di Orazio: A. Panzini

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  • «Corriere della Sera», XIII, 9 giugno 1935, p. 3.

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Una visita al paesello di Orazio

O caro Orazio, io credo che ti farà piacere una visita al paesello dove sei nato.

Così dicevo andando in cerca di Venosa. È in Puglia o in Basilicata? Tu stesso dici che non sai se sei pugliese oppure basilisco, àpulus an lucanus.

Ma a domandare agli impiegati della stazione di Foggia dove si trova Venosa, avevo riguardo. Mi pareva dovessero dire: «Venosa? Mai inteso nominare!». E invece si trova negli orari ferroviari e ci si va con la littorina che parte alle sette del mattino.

- Sarà una cittadina elegantissima, - dissi al capo-stazione.

- Ecco, cittadina, sì, - mi rispose, - ma quanto a elegantissima, lei sa bene come sono queste borgate dove la popolazione è costituita in gran parte da un accentramento di contadini e pastori.

Che stranezza! È in grazia tua, o Orazio, che il nome di Venosa, venosino, risuona per il mondo come suprema eleganza. E cosa anche più sana! Il padre tuo, Orazio, era una specie di piccolo possidente contadino, e tu, dopo duemila anni, sei celebrato in tutto il mondo insieme con l’imperatore Augusto! E cosa anche più strana! In questi tempi così veloci e anche climaterici, l’umanità si sofferma per onorarti, o Orazio.

Dopo avere ammesso queste cose, quando la littorina si staccò come saetta dalla stazione di Foggia e il giorno schiarì, non potei a meno di protestare contro la pioggia che non cessava, pur essendo il primo di maggio; e l’aria nubilosa dava un aspetto di immensità desolata al paesaggio. Ondulazioni strane di terreno senza case! Non deve essere stata facile la guerriglia contro il brigantaggio borbonico, Ninco Nanco, Cipriano la Gala, Crocco di Rionero in Vùlture, che fu masnadiero non comune:

Così Crocco, già umile pastore, Dai briganti promosso generale.

- Quel monte lassù lontano? – domandai.

- Il Vùlture, - mi risposero.

Il monte dove Orazio, da ragazzo, fece l’ascensione. Però, o Orazio, tu non salisti mai su le torri della ambizione, anche se poi diventasti amico di Mecenate, che era ministro dell’imperatore: lui, Mecenate, aveva una gran paura di morire e tu, Orazio, gli dicevi: «Caro Mecenate, fatti coraggio, moriremo insieme, ed io trascinerò il tuo riverito nome dietro il mio per molti secoli. Tu mi hai regalato una bella villa, e io te la pago con moneta che non sarà deprezzata».

La littorina dopo due ore di velocità si fermò a Venosa.

Non c’era che una stazioncina sperduta.

Venosa sta più in su.

A Venosa, - pensavo mentre l’autobus si arrampicava per le giravolte, - non troveremo probabilmente né gendi alberghi, né menù, né halls; ma troveremo Orazio: la statua di Orazio con cui scambiare due parole.

Ecco Venosa. Prima appare su di un pianoro una solenne linea di tempio bizantino, o non compiuto o abbandonato. Poi ci si addentra in un luogo labirinto di case, casette con pittoreschi angiporti finchè si arriva all’altra estremità: e lì sorgono quattro torri tonde massicce di un grande castello, che doveva essere in buono stato al tempo dei re di Angiò e di Aragona. Vicino a quel castello mi attrasse una chiesa, perché sul portale era dipinta una cosa nera e melanconica: due clèpsidre con il motto: Pulvis et Umbra. Orazio le sapeva troppo bene anche lui queste cose: che noi siamo polvere e ombra, però non le avrebbe dipinte come stemma della sua villa.

Entrai in quella chiesa seicentesca.

In neri scialli donne vecchie, prosternate o sedute, sembrerebbero statuarie se le labbra non si muovessero, se le mani non facessero scorrere la corona. Sguardi miti e buoni.

Ma dove sei tu, rustica Fìllide, che giovinetta snella levavi al cielo le palme delle mani quando sorge la luna? E voi, Lidia, Làlage, Glicera, bellissime creature d’amore, ridenti nelle tue odi, o Orazio, dove siete?

Noi siamo moralissimi, o Orazio, ma se manca la bellezza e l’amore, il mondo è grigio come questo tenebroso mattino. Non sei della mia opinione, Orazio?

Orazio sorgeva in altro in forma di statua di bronzo in mezzo alla piazza. La scritta sul piedistallo dice: Quinto Horatio Flacco, Venusia 1889.

Mi rendo conto che non era facile per uno statuario ricostruire Orazio. Se fosse stato filosofo, gli avrebbero messo la barba, essendo poeta, è sbarbato. Però lo si poteva rappresentare meno togato, meno incoronato, e senza quel rotolo in mano delle sue poesie. In quella veste così solenne, egli non era in grado di rispondere alle mie delicate domande. Non si poteva fare un Orazio un po’ sorridente?

Davanti alla statua di Orazio si apre un albergo dove, dopo una scala, trovai scritto su la porta: «Sia lodato Gesù Cristo». Certamente, ma ogni scritta a suo luogo! Le donne che mi vennero incontro in quell’albergo non erano giovani, però molto ospitali: mi dissero che c’era tutto quello che avessi voluto. Avevano anche minestra di fave. Questo mi fece molto piacere. Sì, amabile Orazio, all’ombra del tuo monumento, mangiamo minestra di fave. Tu odiavi, Orazio, i superbi apparati della mensa. I tuoi gusti erano sani e semplici, e così anche noi mangiammo fave dolcissime del tuo paese e al tuo cospetto, e condite con olio finissimo.

E, mangiando fave, mi ricordai che tu eri un galantuomo, pieno di rettitudine. Sono eredità, eredità di papà tuo. E le fave infatti mi ricordarono quello che tu dici: «Se da mille sacchi di fave, - tu dici, - ne rubi uno solo, rimani sempre ladro»: de mille fabae cum surripis ununm, damnum est: non facinus mila pacto lenus isto.

Sarà un’ingenuità da poeti, ma essere onesti è pure una savia politica.

Quando fu verso mezzogiorno, un po’ di sole ruppe le nuvole, brillò un po’ di sereno e così sono disceso in piazza, e abbiamo fatto conversazione con Orazio. Si parlò di vari argomenti, anche molto delicati che non è il caso di specificare. Possiamo però dire che si parlò anche di politica, per la ragione che Orazio era stato in Roma in certa dimestichezza con i più ragguardevoli personaggi politici e poi era vissuto fra due grandi regimi: gli ultimi sussulti della repubblica e le prime affermazioni imperiali con Augusto.

Si parlò di democrazia e aristocrazia, specialmente a cagione di quella sua affermazione un po’ insolente per un figlio di contadini: «Odi profanum vulgus et àrceo».

«Bisognerebbe intenderci su la parola vulgus, - mi rispose, - e non è cosa facile», e mentre lui mi spiegava questa faccenda, mi parve di capire che sua anima era rimasta sempre un po’ timida e paesana. Anzi fu la sua timidezza che lo fece poeta di satire, ma senza rancori né odio. Quello che lui non poteva soffrire erano le astrazioni filosofiche.

Io gli avrei stretto la mano se lui non fosse stato così in alto.

Alcuni ragazzetti intanto, ai piedi del monumento, giocavano un ingegnoso giochetto con la trottola.

Fuori del più piccino che disse: «Non saccio», quando domandai chi era Orazio, tutti gli altri sapevano benissimo, e scusarono il loro compagno perché era «piccirillo» e non era ancora andato a scuola.

Mi dissero che il babbo di Orazio era un bravo contadino che si trasferì poi a Roma, dove senza riguardo a spese fece educare bene il figliolo. Questi, poi, da prima si adottò a fare lo scrivanello e poi andò all’Università di Atene.

Un altro ragazzo mi disse che Orazio in tre mesi inventò il latino.

E un altro ragazzo giurò che Orazio è il più grande poeta del mondo.

- Non esageriamo, figliuoli, - dissi a quei piccoli venosini. – Certo una dose di verità esiste in quello che voi dite.

Gli antichi poeti, dato quell’agitante nume che essi dicevano di avere nel petto (est Deus in nobis, ecc.), mi sembra ci tenessero ad essere persone quilibrate, a differenza di molti poeti moderni che, se anche non hanno il Dio nel petto, ci tengono ad essere quilibrati: tanto che se uno mi domandasse a che cosa giova lo studio degli autori classici così lontani da noi, risponderei: «nell’equilibrio: come fornitori di equilibrio mentale».

Ora il nostro amabile Orazio, - a parte certe sonore ampollosità che si distinguono a occhio nudo, - fu esemplare per equilibrio, ed è per questo che gli vogliono bene anche quelle persone che hanno poca simpatia per i voli dei poeti.

Intanto arrivò l’automobile che conduce alla stazione, e allora domandai a quei ragazzi chi era più antico e chi era più moderno: se Orazio oppure l’automobile.

Tutto mi risposero che era più moderno l’automobile.

- Qui sarei molto incerto, ragazzi miei, perché può darsi che domani si scopra un’altra cosa più potente del motore, mentre un altro Orazio non sarà facile di trovare.

- Badi, signore, che si parte, - mi dissero.

- Ad ogni modo, - dissi ai piccoli venosini, - tenete a mente che Orazio volle molto bene a suo babbo e al suo paese, e sempre si ricordò di loro. Fate così anche voi.

Così lasciai Venusia e Orazio. Àpulus an lucanus? Pugliese o basilisco?

Di tutto il mondo dove ancora fiorisce il sorriso e il pensiero.

Alfredo Panzini

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