Vento in Lucania
Salimmo dalla costa campana d’arabia e di gesso, paesi abbandonati nel sole. Il treno corre nella Stretta degli Alburni, fischia nelle gallerie; dalle finestre di roccia, a intermittenze, scatta la luce, e il Basento, sotto, fra torrioni lunari, d’acque limpidissime.
Su, la Lucania, Potenza, nuovissima, ci viene incontro dal monte, a passi di gigante. Le case- dieci, quindici piani – scendono a valle, fette scaglionate di un enorme frutto come una città tibetana. «Potenza e la vita. – La scala ci affatica. – Ci riposiamo sulla piazza». Sono versi di Vito Riviello, poeta e libraio, organizzatore dei trebbi lucani, giovani d’estri e d’intelligenza, e di osca ironia: «San Luca e Portasalza si facevano la lotta. – La piazza li ha conciliati». Sono bozzetti crepuscolari, di una Potenza scomparsa, o invisibile. Ma Riviello e i «suoi» (c’è un’aria fresca e pensosa di «Ragazzi della Via Pal» sono attivi, moderni: poeti, pittori, scultori: Giulio Stolfi, Rocco Falciano (nome fiero e allegro da Robin Hood della Basilicata) e altri; attendono ai problemi della loro terra, alla sua rapida trasformazione. La Lucania è alta – Potenza è a più di ottocento metri: ci soffia un vento rapido, secco, quasi freddo – e siamo di luglio!
Ci portano a Pignola, sull’altro versante della valle, dove i disoccupati maturano al sole sui gradini del municipio, e la chiesa taglia le raffiche come una nave incagliata. Per le strade spazzate dal vento, allato ai portoni secreti e tombali, gli anelli di pietra aspettano la cavezza dei muli. Lo Stato costruisce la scuola. «E i bambini invece che sui banchi vecchi – dice Riviello – si addormenteranno sui banchi nuovi». I bambini rachitici, denutriti: relitti di una altissima mortalità infantile. La Lucania è una regione di tetti nuovi, di tegole rosse. Ma come sempre le opere pubbliche hanno un sapore paternalistico, di dono provvisorio. Se il cordone ombellicale si rompe si torna nella miseria. Bisogna, a queste popolazioni, dare una fiducia più fonda, più motivata, più «in loco»: modernizzare l’agricoltura, che la ricchezza venga a questa gente dalle loro mani, non soltanto dai benefici dell’alto. Le montagne lunghe e calve sono pezzate di verde e d’ocra, intarsi di un quadro astratto; poi l’ombra delle nubi infosca i colori. L’Appennino precipita al mare come un drago gigante e dorsuto.
Facciamo trebbo a Tricarico, per Rocco Scotellaro. Il banditore con la trombetta d’ottone e il berretto di pezza va per le strade ridendo. Canta con voce fessa: «Stasera – tutta la populazione – int’alla chiazza – alle sette – ca ‘ncè u cumezie! – Avet’a sent – cose maie sentute». La cantilena si perde; arriva la processione dei bambini che dalla chiesa (piccoli: cinque, dieci anni) portano le sedie. Il trebbo si fa sotto la tettoia del mercato nuovo, lungo la strada che guarda la valle, in piedi sulla banca di cemento per la vendita del pesce.
Ai braccianti di Tricarico, come ai pescatori d’anguille di Comacchio, non formiamo merce deteriorata, abiti smessi per elemosina. Sappiamo che il nostro prodotto è criticamente qualificato. Trecento, cinquecento contadini intorno, un anello di facce cotte e dure. Spicca biondo il sindaco, Umberto Lauria, giovanissimo di chiari occhi fermi, con fuoco freddo, intellettuale. Le donne sono chiuse negli scialli di lana come mandorle nere.
Dante: Inferno, canto I. albare, da primordi. L’uscita dalla selva, dalla matrice di buio, nel non-essere. Piove la luce sui primi contorni: la baluginante coscienza. E la lotta coi mostri, i lupi violenti, le bestie dell’ignoranza e del male. E il grido d’aiuto dell'uomo. E l’arrivo di chi sa, di chi può e vuole, di colui che ha gli strumenti per condurre a salvezza. E la soluzione – storicamente cristiana - di Dante. Così il commento e l’interpretazione. La lotta è in atto, visibile. Gli occhi sono invetrati di lacrime.
Poi Manzoni, Levi. La prima pagina del «Cristo si è fermato a Eboli» soffia un vento di tempesta. «Aggia scè a Roma, questa sera vado a RomaRoma». Un uomo grosso e felice grida e ride: vuol far valere i propri diritti di invalido mal rispettato. Una guardia interviene a calmarlo. Dopo i versi di Rocco Scotellaro le donne vengono a guardarmi, gli uomini si girano il berretto fra le mani.
La madre di Rocco ci aspetta in cima alla scala, commossa e cauta.
Facciamo trebbo a Potenza. (Alcuni sono venuti da Tricarico per riascoltarci).
Nell’ombra respirano ragazze ferigne dagli occhi di ciliegie.
(Con Riviello abbiamo macchinato una «Francesca» un po’ frivola, falsamente ingenua, un po’ stupidella. E un Paolo, ormai senza parola: per chi sono andato all’inferno! Recito – appena una sfumatura d’ironia, lontana ogni ombra di caricatura – e, recitando, avverto l’imbarazzo, della sala, almeno dei più preparati.
«Ti avrei tirato gli orecchi» - mi dice più tardi, dopo una mia «confessione», Lillina Di Gilio, studentessa in filosofia).
Il trebbo è dedicato a Leonardo Sinisgalli: si disegna nell’aula, netta di contorni – poltrone di gommapiuma e lucide impellicciature – il profilo chirurgico e prelatizio del poeta matematico.
Andiamo per le strade, di notte. Potenza sulla montagna è una nave con tutte le luci. Passiamo il ponte, verso la cima di Montereale. Dalla balaustra della villa, fra i pini, il paesaggio spalancato di monti e di luna. La luna è alta e fredda: sotto, il Basento come una lama d’argento.
Torneremo a Potenza, e in Lucania, in forze. Con «mezzi» che cercheremo a Roma, a Milano: una «campagnola», microfono, registratore, macchina fotografica: andremo di paese in paese al suono delle trombette e dei rotocalchi, a recitare e a raccogliere materiale. A sviluppare questo nostro tentativo di meditazione fra cultura maturata, e vergine provincia. Ad aprire piaghe, emozionalmente, e a spargervi sopra il sale di intelligenza e di idee, di libri e di indirizzi.
Guardiamo con gli amici (Tani Chiappini, il giovane pratese che mi ha accompagnato in Lucania al posto di Della Monica, impegnato alla organizzazione, agita braccia e collo come una marionetta felice) il fumo che viene su dalla terra, le luci lontane: stiamo col nostro orgoglio tranquillo, con la nostra consapevolezza smagata e malinconica.
Presto saremo a Roma, la gran testa «incredibile».
TONI COMELLO