Spiritus loci

date

1949

author

Vergani, Orio

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Le querce dei poeti: Orio Vergani

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  • «Corriere della Sera», 14 sett. 1949, p. 3.

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Le querce dei poeti

Il poeta Leonardo Sinisgalli è tornato giorni or sono dal suo paese, dov’era sceso per ritrovare il profilo della sua casa natale. Sinisgalli è lucano, ogni anno macina qualche giornata di treno per andare laggiù, dove è molto improbabile che qualche amico si decida ad accompagnarlo. Al suo paese, che è più giù dei confini letterari indicati, fra le terre di Eboli, da Carlo Levi, mi hanno raccontato che ogni tanto le colline si muovono, che vanno lentamente a spasso per conto loro, pattinando sui sottofondi di creta, e portandosi in spalla, con il risultato che si può immaginare, case, orticelli, binari ferroviari e persino cimiteri. È naturale che una terra simile sia patria di filosofi e di matematici che cercano di ordinare in cifre le conclusioni o le incertezze delle filosofie. Sinisgalli è, oltre che poeta, studioso di matematica e di discipline anche più complesse. I capelli ha precocemente grigi, la voce sommessa, l’occhio deciso e gentile dietro alle lenti. È, se non sbaglio, ingegnere: ama le macchine, le belle forme apparentemente astratte degli utensili industriali, dei loro accessori, dei loro prodotti. Parla dei valori della forma di una «carrozzeria» per macchina da scrivere con l’amore con cui un greco avrebbe parlato del torso di una Venere.

È stato al suo paese, e mi ha detto che l’unica ricchezza del suo paese è costituita dagli alberi. Gli Italiani amano poco gli alberi, e conoscono ancor meno l’amore per i boschi. Solo al suo paese l’albero è tutto, e mi parla delle querce che dànno ombra a quelle arse colline. Da quegli alberi si trae legna e carbone, secondo la misura di un’economia patriarcale. Solo da qualche tempo i colpi d’ascia si fanno più frequenti, e i boschi della Lucania conoscono le rapide mutilazioni di uno sfruttamento industriale. I treni che portano verso il nord si portano via, a vagoni, i boschi della Lucania. Solo chi sa quanta storia di uomini, di famiglie, di amori sia mescolata come la terra stessa alla radice di ogni pianta, può comprendere cosa significhi ogni colpo d’ascia che va lentamente trasformando non solo il paesaggio, ma, con il paesaggio, il sistema economico della vita paesana, con tutti i riflessi che ne derivano sugli uomini. Bisogna, mi dice il Sinisgalli, salvare le querce della Lucania, che sono le querce più belle d’Italia, per evitare che finiscano tutte in traversine di ferrovia. Per incominciare – conclude a bassa voce – ogni poeta e ogni scrittore italiano dovrebbero comprarsi «una» quercia, o un frassino, o un larice, con l’impegno di non abbatterli. Ai prezzi locali sembra che una quercia costi meno di un paio di pranzi in trattoria. I comuni ne hanno tante, di piante, che ora vengon tagliate per poter costruire una scuola o aprire un’ambulanza medica, o per curare la malaria. Piacerebbe, a Sinisgalli, che al suo paese si potesse costruire un paio di aule scolastiche con le querce degli scrittori italiani.

(Questo discorso veniva fatto in una libreria del centro di Milano, fra banchi affollati di libri di matematica, di ingegneria, di elettrotecnica, di tecnica del cinema, dei cementi armati, della produzione degli acciai. La sera era vicina: era una sera d’agosto, il cielo aveva una diffusa fosforescenza verde, le pietre della città erano torride, le gole erano state rinfrescate per un momento con bibite frizzanti, le labbra si erano subito di nuovo screpolate. Pensavo, è inutile dirlo, all’attenzione con cui sono stati distrutti e si vanno distruggendo i giardini di Milano, e al sogno di tutti gli Italiani che è di lastricare di marmi lucidi, lucidati a piombo, tutta la penisola).

Avremo la «quercia di Bacchelli», e il «larice di Cardarelli» e il «frassino di Montale» e «l’ontano» di Francesco Pastonchi? Sembra che questi alberi, a quanto dice Sinisgalli, si potrebbero comprare anche per corrispondenza, scrivendo al Sindaco. Non è obbligatorio andare fino in Lucania per scegliere la propria pianta: con la spesa del viaggio se ne comprano venti o trenta. Però Sinisgalli accarezza già l’idea che una volta comprata la quercia, lo scrittore che l’ha «fatta sua» venga preso dalla voglia, magari dopo qualche anno, di andare a vederla, e magari di andare a sedere un pomeriggio alla sua ombra amica. Essere proprietari di una quercia vuol dire anche essere usufruttuari dell’ombra che le va, durante il corso della giornata, lentamente girando attorno, e io mi figuro già Antonio Baldini che si sdraia per terra, in maniche di camicia, a leggere l’Ariosto, ed Emilio Cecchi che se ne sta supino, con le mani incrociate dietro la nuca, rimirando lassù fra i «suoi» rami il gioco del sole. Un giorno vedo scender dalla polverosa corriera, alto e potente nelle membra, Francesco Pastonchi, che Willy Farnese chiamerebbe il «vero signore» della poesia. Lo vedo, magari, con sotto al braccio un elegantissimo bastone con seggiolino pieghevole. Forse, all’ombra della sua quercia, ricorderebbe il primo verso di una sua poesia di vent’anni fa: «Sono un albero gramo… ». E dove la mettiamo, Sinisgalli, la quercia di Lipparini, e quelle di Quasimodo, di Libero de Libero, di Alfonso Gatto, e quella del daziere milanese Zanella, e quella – figurati se potrebbe mancare, magari isolata in cima ad un colle – di Curzio Malaparte?

Cominciano i guai, caro Sinisgalli. Se passi la voce e lasci liberi gli acquisti, non ti bastano le querce del tuo paese. Tu sai che esistono, in Italia, riviste, settimanali, editori che pubblicano esclusivamente versi di poeti che, con quelli che ho nominati più su, hanno poco da vedere. Sono i «poeti – che – pubblicano – le – poesie – a – spese - proprie»: numerosissima categoria che qualche biglietto da mille per avere un proprio larice lo risparmierebbe subito sulla spesa del mese. Puoi star certo che essi sarebbero anche i primi a muoversi per andare a vedere il loro faggio: gli stessi editori dei loro settimanali e quindicinali organizzerebbero viaggi in comitiva, torpedoni di poeti classici o ermetici, forse con sosta facoltativa a Roma per rendere omaggio alla quercia del Tasso sul Gianicolo. Vedo già il tuo paese diventare una specie di Lourdes arborea, e i pellegrini farsi guidare da qualche riconosciuto sacerdote delle Muse. I migliori del genere – Giovanni Bertacchi, Cosimo Giorgieri Contri, G. A. Cesareo, Francesco Gerace – sono morti da un pezzo. Immagino che i pellegrinaggi si onorerebbero di uno scopo nobile: donare, consacrare un albero alla proprietà spirituale di un poeta scomparso. Chi vuoi che non sia disposto a pagar la sua quota per l’olmo di Guido Gozzano o per il cedro deodara – ne crescono in Lucania? – di Ada Negri? Da Roma parte un piccolo pellegrinaggio per inaugurare il castagno di Sergio Corazzini; da Firenze quello per il frassino di Dino Campana; da Milano – se sono ammessi gli «alberi dialettali» - Fortunato Rosti spicca un assegno per un albero da intestare a Delio Tessa. Il solo Giovanni Scheuweller, affettuoso e disinteressato editore di poeti in edizioni minuscole, è pronto a offrire, sono sicuro, un mezzo boschetto, e Alberto Mondadori telegrafa: «pago io per Ungaretti, per Giorgio Vigolo, per Raffaele Carrieri. Stop. Alberto». Subito informato Bompiani ribatte: «assicuratevi querce per Brancati, Alvaro, Masino: confermatemi lampo. Stop. Valentino».

Cominciano i guai. È facile far andare d’accordo le querce che vivono di quel poco di terra e d’acqua che dà loro la Provvidenza e temono solo il fulmine, e parlan solo con l’ermetico mormorio delle foglie. Ma come faremo andar d’accordo i poeti, gli scrittori? Tutti eguali davanti alla solitudine dei tuoi colli lucani e davanti alla silenziosa maestà degli alberi; sei bravo e se glie lo fai capire: se fai comprendere che, davanti alla natura e davanti ad un albero non esistono categorie, scuole, stili differenti. So già che non vorresti assumere, per la distribuzione delle querce, poteri dittatoriali. La tua idea è bella, come quella della Confederazione Europea: mi piace il Benelux degli alberi, uno per ogni poeta, uno per ogni scrittore, tutti sulla stessa terra, tutti lo stesso sole e sotto alla stessa pioggia. Ma vedo già che, fatalmente, da tutta questa faccenda ci scappa fuori una commissione centrale, con sotto-commissioni regionali, comitati ordinatori e giurie dalle decisioni insindacabili. Te la sentiresti di far andare d’accordo, tu solo, i rami della quercia di Ungaretti con quelli della quercia di Diego Valeri? Ecco che già pensi di telefonare, per un consiglio, a Pietro Pancrazi: di scrivere una cartolina ad Enrico Falqui: di incontrarti con Francesco Flora.

Poeti soli, o, anche, romanzieri, novellieri, saggisti, elzeviristi, e, in ultimo drappello, noi giornalisti? Noi, forse, ci accontenteremmo di vederci assicurata qualche pianta da siepe: ci accontenteremmo anche, vecchi servitori della penna, dei pruni e dei rovi. Ma gli altri, chi li tiene? Chi riesce a convincerli di vivere, per esempio, in «duplice filar» come i cipressi carducciani di Bolgheri? A chi vuoi che permetta, Cardarelli, di pestar la sua ombra? Credi che la quercia di Ungaretti sopporti di vedere, anche da lontano, la macchia verde dell’olmo di Ugo Betti? Di uno solo ti garantisco che accetterà quel che gli danno: è Marino Moretti. Ma dei peti minori e dei «parolieri» che ne faremo? Lo vuoi proprio negare un albero a chi ha scritto «Signorella pallida…», o «Parlami d’amore Mariù…»?

Chi lo vuole con targa, il suo albero, e chi lo vuole senza, orgogliosamente, perché il «suo» albero parla da sé. Occorrono targhette, da trattenere con una catenella sul tronco. Altri, romantici, vorranno un piccolo marmo semi-affondato nel muschio. Qualcuno farà un viaggio apposta per incidere il proprio nome sul tronco, con un temperino; e ci sarà chi vorrà un intero gruppo di alberi, uno per ogni propria opera, e ci inciderà sopra il titolo, con l’indicazione: «Ottavo migliaio». Vedo, nei pomeriggi d’estate, i tuoi compaesani andar a riposare all’ombra degli Indifferenti, una coppia baciarsi dietro la Gazzetta nera, e all’alba qualcuno andar per funghi sotto Il vecchio con gli stivali. Dalla parte del Mulino del Po corre voce che ci siano dei tartufi. Rubè – ci telegrafano – ha resistito al fulmine. Un pastore suona la zampogna, abitualmente, sotto Ossi di seppia. E sulla mia siepe – dato che tu me la conceda – le donne del paese stendono i panni ad asciugare.

(Vorrei raccontarti che io ho già un albero: quello che, trentacinque anni fa, piantai, con i miei compagni di scuola, su quello che, nel paese dove vivevo allora in Toscana, chiamavano l’Alpe della Luna. Era il giorno della Festa degli Alberi, e tutti uscimmo da scuola con una pianticella in mano, che aveva la sua radice e un pugno di terra umida incartati in una dispensa di Nat Pinkerton. Andammo lassù, dove, ci raccontavano, andava, bambino, a sognar le sue prospettive Piero della Francesca. Ci parlarono di Virgilio. Dissero: «Questi alberelli che ora voi piantate cresceranno con voi, Auguratevi di crescere dritti come questi cipressetti…». Ma è tutta un’altra storia).

Orio Vergani

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