Spiritus loci

date

1954

author

Parrella, Michele

title

Il diavolo si è fermato a Eboli: Michele Parrella

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  • «Civiltà delle Macchine», a. II, n. 4, pp. 11-12.

teibody

Il diavolo si è fermato a Eboli

Al principio dell’estate arrivava la macchina al paese e dal balcone della scuola la vedevamo avanzare scoppiettando per la salita. Era la macchina della breccia, la macina delle pietre e quando era già ferma sul ciglio della strada andavamo a toccarla come fanno i ragazzi quando toccano un mulo.

Ogni anno immancabilmente le frane si trascinavano grosse fette di rotabile, la terra si gonfiava e straripava, e la macchina veniva a frantumare le pietre per aggiustare la strada. Passato l’inverno bisognava aspettare almeno una stagione, dar tempo alla terra di sfogarsi e poi arrivava la macchina, la macina e il rullo.

In verità la prima volta che vedemmo l’uomo al volante sobbalzare continuamente sul seggiolino di ferro col vestito lucido di olio, Vincenzo Cavuoti disse che quello era l’uomo del trappeto, che l’aveva già visto lavorare al frantoio con l’abito impregnato di olio peggio di un fusto.

Ma a ciascuno di noi passò di mente il trappeto quando si venne a sapere che quell’uomo era il meccanico. Ora in paese c’erano i sarti, i falegnami, l’elettricista, il fornaio, l’orologiaio, i mulattieri, i cafoni, ma non si era mai sentito parlare di meccanici. Che cosa era un meccanico? Chi gli aveva messo questo nome? Avremmo potuto diventare anche noi dei meccanici?

Per interi giorni non si pensò ad altro e all’uscita della scuola correvamo a guardare la macchina che divorava grossi macigni. Le pietre scomparivano nel rumore e a quella scena ciascuno a suo modo pensava a chissà quali sciagure.

Era come un lupo la macchina che si mangiava le pietre al posto degli agnelli? E avrebbe potuto divorare anche gli uomini, magari con meno fracasso? E se la macchina fosse entrata di notte nel paese, chi l’avrebbe fermata?

L’infanzia è poi passata con le sue cose. il giuoco dei pennini, il cerchio della botte col manico di sambuco, la voce del banditore, le cataste di legna alla stazione, la curva del fiume, la baracca dell’ortolano.

Intanto ci erano filtrati nel sangue il nome della regione e i nomi dei paesi, i diversi cieli, gli uliveti e le vigne, la sagoma delle montagne, la qualità della terra e le cifre del raccolto.

È venuto dopo l’accanimento di conoscere un territorio pezzo per pezzo, la dura lezione di essere totalmente nella propria regione, scoprirne la faccia, gli angoli morti, assecondarne ogni spinta col moto del cuore.

Si vuole forse con ciò accennare ad una storia dei nostri assilli, tentare un elogio delle nostre scoperte?

Diventare adulti nella propria regione, fare l’ingresso nella sua società ha significato imbattersi in paure più pungenti di quelle conosciute nell’infanzia. Abbiamo cioè trovato una società come una infanzia e dentro di essa la paura della contaminazione.

Ci può essere peggior destino, più forte remora per una società che non sia capace di contaminarsi?

Abbiamo in tal modo appreso a provocare, la contaminazione.

Viaggiando per il Sud, dentro una sua regione, da un paese all’altro della Basilicata viene spesso di pensare al titolo del poema di Eliot: La terra deserta, la terra dei morti. L’espressione assume il suo completo significato letterale fuori di ogni metafisica suggestione ed aiuta a penetrare la società contadina, a misurare passo passo la struttura della campagna, a riconoscere i primitivi strumenti, la faticosa lentezza del lavoro agricolo.

Occorre parlare ancora dell’immobilità del mondo contadino o del movimento dentro di esso nella differenziazione delle vicende individuali?

È proprio necessario prendere ancora pezzi di realtà per esaminarli comodamente in vitro e tenersi paghi delle riuscite analisi, delle lunghe teorizzazioni, andando per di più a rimuovere le sofferte carte dei nostri parenti, le grandi e sensibili e rare anime del Sud che penosamente si ripiegarono sui nostri paesi, tramandandoci i germi del più amaro ed accorato pessimismo mischiati a quelli della paziente e intransigente rivolta?

Fino a che punto i Grandi Parenti custodiranno il sonno dei nostri paesi, sorvegliando i nostri passi, continueranno a tenere la parte di involontari penati di un mondo malato e chiuso?

E che significato o utilità può avere per noi il legarci come serpi all’immagine dell’antica e definitiva miseria, con la pretesa non confessata di vedere le cose sempre al medesimo posto nel timore di turbare l’impressione del primo incontro, l’emozione letteraria e patetica della prima scoperta che si vorrebbe acquisita per sempre. Abbiamo parlato, di contaminazione. Contaminazione può essere il moto delle classi, un mulino a cilindro, un pesante trattore AF 8. Contaminazione poteva essere il primo emporio al paese o l’edificio nuovo della fabbrica Laraia di liquori.

Mio nonno andava a Napoli dietro il Rettifilo a comperare il solfato di rame, la pompa per la vigna, le pinze, le tenaglie, i rotoli di ferro filato, i chiodi, le viti, le falci.

Era un grosso viaggio andare a Napoli dopo l’Unità e già non era Milano.

Bisognava cucirsi i soldi da qualche parte con la speranza di non incontrare briganti troppo solerti.

E tenendo d’occhio quelle date si potrebbe arrischiare un confronto tra i primi padri dell’industria che si facevano fotografare col piede sulla ruota e i nostri nonni che nel migliore dei casi avviavano i figli verso le effimere gioie delle professioni liberali; tra il contadino piemontese che diventava operaio e il contadino della Basilicata che dopo esser rimasto per dieci mesi nella piazza e per due mesi a mietere, vendeva cinque piante d’ulivo, faceva le carte e se ne andava in America.

E cosa potremmo raccontare oggi, noi che non siamo né contadini né avvocati, e che abbiamo evitato altre compromissioni rifiutando la dolorosa e avvilente via del piccolo impiego, come solo pochi anni fa un illustre meridionalista paventava per la generazione che stava uscendo da quel faticoso travaglio?

La generazione che avrebbe dovuto rinnovare il tessuto civile dei nostri paesi, scuotere l’antica immobilità, sciogliere i vecchi nodi, i pesanti fardelli della vita regionale.

E senza ricorrere al cinismo potremo noi stessi sfuggire alla qualifica di spostati per il fatto di non essere dentro ad un ingranaggio, per non aver bussato alle vecchie porte umbertine della burocrazia periferica? Ecco un tipo di macchina, un complicato congegno. Una macchina arcaica e farraginosa, mastodontica e immobile, con qualche sussulto, come un orologio al quale si è spezzato improvvisamente la molla.

Fino a quando ne potranno sopportare i capricci il capoluogo e la campagna, il capoluogo e i paesi che restano tuttora divisi e incomunicabili, termini antitetici, motivo di continuo scontro?

A questo punto entra di nuovo la contaminazione, entra la macchina arcaica con un labirinto al posto degli organi del moto a tenere il campo di questa paura.

Qualcuno recentemente ha scritto delle ore del Sud che batteranno sulle torrette dei municipi, la campana della comunità emersa dalla polvere e dal silenzio, dai pesanti giorni e dalle lunghe notti, della rivoluzione dei sindaci, della faticosa strada del Sud per uscire con le proprie forze dal suo destino di immobilità, dal suo limbo forzato, da un’infanzia assurda per una popolazione fin troppo adulta.

Si potrebbe tirare in causa il viaggio di Enrico Emanuelli, che si aggiunge alle inchieste e ai numerosi viaggi o spedizioni di altri giornalisti e studiosi, ciascuno peri il suo verso tentato dal Sud, deciso a sbrogliare questa vecchia matassa.

Il barone senza baciamano è il titolo di un articolo di Emanuelli apparso ultimamente su «La Stampa». È uno dei tasti da noi preferiti. Ci piace battere continuamente su questi segni che possono annunciare qualche speranza.

Un altro tasto, un’altra fissazione è la fabbrica, o meglio l’idea della fabbrica. Spesso corre la voce tra pochi amici. Se ne pala come di un sortilegio, di uno spirito, di una misteriosa presenza che cambierebbe le carte in tavola. Ciascuno se lo cova dentro questa specie di diavolo, con la sembianza di un tornio, di un altoforno di un semplice e fluido nastro di montaggio.

E si pensa al luogo dove potrebbe sorgere la fabbrica. Vicino al fiume magari: là c’è posto sufficiente e adatto e poi ognuno potrebbe averla sott’occhio da qualsiasi parte. Ci sarebbe però da risolvere il problema dei trasporti, dei servizi tra la città e la fabbrica.

Altrove bisogna fare realmente i conti di tutto ciò. I tempi di lavoro, i salari, il ritmo di produzione, i mercati. Bisogna comunque toccare un esito e convincersi inoltre se la macchina sia un organo aggiunto dell’uomo o il suo tiranno.

Noi invece abbiamo solo dei forti presentimenti, ne invochiamo semplicemente la presenza. I nostri zii, i compari del paese che tornavano dall’America e appendevano al muro la pinza cromata per la vite e la siepe, il lucido apparecchio di vetro e metallo per tostare il caffè, rievocavano la medesima presenza.

Negli afosi pomeriggi sulle scale ci spiegavano l’America, le giornate di lavoro, loro che laggiù si erano mischiati al carbone e ai rottami di ferro.

In qualche tiretto al paese ci sono ancora i passaporti di questi parenti e compari che passavano l’Oceano, spesso col solo cuscino della roba sotto il braccio.

A noi stessi è bastato un viaggio più breve per risentire la suggestione di quelle partenze. È bastato trovarci per alcuni giorni in una zona del Piemonte, in un paese ai margini della Dora, a stretto contatto con una delle più moderne fabbriche dell’industria meccanica, una fabbrica modello, per sentirci come in America, per scrivere agli amici con lo spirito dei nostri emigrati.

Ci era parso di aver intravisto il perno che può spostare i nostri paesi, l’asse della nostra vita. Per un tale compito certo non poteva bastare la ruota del mulino, la macina del grano, la pesante pietra circolare mossa da una puleggia, il sussulto della trebbiatrice. Intorno a queste macchine si può soltanto sudare e bestemmiare. Non poteva bastare la stizza degli uomini a giornata che schiacciano nella tinozza l’uva con i piedi, la pazienza del magliaio che carda la lana con la macchina venuta da Treviso, o più semplicemente non poteva bastare il mulo che per secoli è stato l’unica vettura del paese. Potremmo anche armarci di furore archeologico e cercare nel vuoto delle campagne e dei valloni i ruderi di una minuscola industria, i muri diroccati di una segheria che bruciò poi con la sperduta cappella della Filomena. Certamente le capre sono tornate ad aggrapparsi ai cespugli cresciuti tra le pietre.

La prima macchina da noleggio che arrivò al paese ha aperto una dinastia di noleggiatori, come già prima le carrozze erano passate di padre in figlio, i cui nomi erano sulla bocca di tutti.

Ricordo bene lo specchio nell’automobile di Agostino. Cogli anni erano sbucate le molle dai sedili e lo specchio annerito e spaccato sembrava un frutto marcito. Con tutto ciò Agostino raccomandava attenzione e delicatezza prima di sedere nella macchina, e si metteva a sbraitare se per avventura qualcuno si fosse presentato all’ora della partenza con una lattina di olio da poggiare dietro il sedile. Il segretario comunale che faceva spesso viaggi al capoluogo, immancabilmente diceva: «Lascia stare, Agostino. Se cade l’olio si ungono le balestre».

La corriera è venuta dopo e con la corriera la preoccupazione per quelli che partono di trovare un posto accanto al finestrino. Perché nel viaggio, insieme ai servizi da sbrigare in Pretura o all’Istituto Infortuni, bisogna preventivare il mal di stomaco, lo spettacolo del vomito collettivo.

Ci siamo in questi giorni decisi a prendere la corriera per visitare il Centro di Cultura Popolare di un piccolo paese della Basilicata. La scuola è sorta per iniziativa di un maestro apostolo e si avvia a diventare una operosa comunità in uno sperduto borgo di pastori e piccoli contadini che insieme superano di poco le mille anime.

Il nome del paese potrebbe ricordare l’avvenuta unificazione del territorio nazionale, la conquista regia.

Il Consiglio comunale decise di cambiare il nome da Salvia in Savoia di Lucania dopo l’attentato ad Umberto I per un tale Passannante, nato a Salvia. Che idea della società ci può essere in un simile paese, o in ogni altro paese della Basilicata circondato da mille piccolissimi appezzamenti di terreno, uno scialle di terra per ciascuno di quei fortunati che possono dire di possedere, con due ore di cammino alla sera e due ore al mattino per raggiungere queste oasi che procacceranno il pane per l’inverno?

La società, rispose un contadino durante una lezione nel Centro di Savoia, è la Società elettrica. E quale risposta possiamo dare noi ai numerosi quesiti che i contadini pongono nelle aule della scuola?

- È possibile emigrare in Australia?

- Come fare per avere un veterinario sul posto?

- Perché abbiamo la sfortuna di lavorare ancora con la zappa?

- Avremo mai la possibilità di acquistare arnesi moderni?

Ho conosciuto un giovane che per diventare sarto ha dovuto andare in un altro paese perché tutti i sarti di Savoia erano espatriati. Si chiama Pucciarelli Pasquale, ha 29 anni, suo padre gli portava le provviste ogni settimana.

Savoia dista 50 km dal capoluogo, il barbiere del paese riscuote due stoppelli all’anno, cioè dodici chili di grano a testa, per una barba ala sabato. Dal monte La Serra si vedono gli Alburni.

Passerà per questo valico la macchina della contaminazione?

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