Spiritus loci

date

1949

author

Alvaro, Corrado

title

Insopportabile vita nel paese natale: C. Alavaro

summary

bibliography

  • «La Nuova Stampa», 1949, p. 3.

teibody

Insopportabile vita nel paese natale

(Dal nostro inviato speciale)

Reggio Calabria, novembre.

La profonda impressione suscitata nel Paese dai fatti di Crotone che hanno svelato una condizione umana delle più drammatiche, ha spinto il Governo a un primo provvedimento, primo frutto d'un largo e consolante moto di solidarietà nazionale. La Calabria è così al principio del suo riscatto da mali secolari, e apre forse la strada a tutte le province meridionali. Ma la strada sarà ancora difficile e lunga. La riforma agraria è il nucleo fondamentale della rinascita calabrese. Bisogna vedere in quale ambiente e attraverso quali pericoli e fortune essa dovrà essere attuata.

Leggo, riportato da Giustino Fortunato, uomo politico, scrittore, proprietario in Puglia e riformatore meridionalista, il seguente pensiero di Giuseppe Mazzini: «L'Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà». È una delle intuizioni dell'agitatore genovese, il quale aveva un'esperienza diretta dei fatti meridionali. I fratelli Bandiera, Pisacane, furono vittime della plebe meridionale e calabrese, la quale ruppe sulla loro bocca il grido di unità, indipendenza, libertà. Ed era stata la stessa vicenda delle truppe napoleoniche alla conquista della Calabria, che, tra gli orrori d'una guerra partigiana, incendi di villaggi, impiccagioni in serie, banditismo, saccheggi, brigantaggio, malaria, prepararono l'avvento del decreto con cui Giuseppe Bonaparte aboliva nel 1806 la Costituzione feudale delle Calabrie.

Fu per poco. Un regno di dieci anni non bastò neppure a completare quella legislazione. La plebe calabrese seguitò a tenersi il suo carico feudale per esplodere poi di quando in quando in episodi più o meno feroci di rivolta, dando a questo e a quello la colpa dei suoi mali e della sua miseria; ai medici come avvelenatori dell'acqua potabile come a Verbicaro, ai soldati stessi che combattevano il colera e il brigantaggio, ai funzionari che distribuivano il chinino contro la malaria. Ma non si arrivò a esprimere da tanti travagli una convivenza civile, nè quella borghesia e piccola borghesia di intellettuali, quella classe media industriosa e affaristica che in tutto il resto d'Italia si era rafforzata attraverso le libertà comunali e le libere iniziative del lavoro. La Calabria aveva conosciuto soltanto feudatari piovuti sulle sue terre a dominare per compenso di servizi resi a tutti i suoi padroni in pace e in guerra, esattori di decime e di riscatti con cui i Comuni tentavano di comprare la loro libertà, per poi pagarla una seconda e una terza volta a un secondo e a un terzo padrone.

Poi, quando la popolazione aumentò, e le frontiere del Regno si spostarono, e i grandi Stati ricchi e nuovi e bisognosi di lavoro aprirono le loro porte, chi potè fuggì la regione privandola anche di quel fermento intellettuale che pure aveva dato buona prova nella lotta per l'Indipendenza. Fu prima l’emigrazione, poi le professioni liberali e gl'impieghi, che rappresentarono soprattutto per la plebe calabrese il mezzo di evasione, se non dei padri ormai condannati, almeno dei figli. Fu il primo strumento della lotta di classe: la cultura, gl'impieghi, le professioni, il sacerdozio.

Dare un diploma e un impiego ai figli fu riderle della plebe più misera, contadini, piccoli artigiani e impiegati, piccoli bottegai, i quali, a volte con l'usura, mandarono i figli a studiare attraverso privazioni più gravi di quelle che la loro stessa vita imponeva. Molti di quei ragazzi, nelle città degli studi, si sostentavano col sacchetto settimanale dei salami, formaggi, fichi secchi, pane, che arrivava da casa, ed era il boccone cui rinunziavano quelli che a casa aspettavano. L'incitamento continuo era di fuggire, «abbandonare questo paese maledetto»; tutti quelli che siamo raggiri ce lo siamo sentito dire dal padre e dalla madre. Chi rimaneva a esercitare il suo impiego o la sua professione nella regione, preti, avvocati, medici, quasi sempre finivano alleati della classe dominante, proprietari terrieri i quali avevano interesse a dare le figlie a gente che esercitava una professione munita d'un prestigio e d’un'influenza.

Finiva così quel movimento per cui la Calabria, nella lotta per il Risorgimento, aveva avuto sì una plebe cieca e inconscia della sua stessa salvezza, sobillata dagli stranieri, dai feudatari, dai Borboni; ma aveva anche avuto una borghesia intellettuale e una maggioranza di preti tra i più liberali dell'Italia meridionale. Chi andò fuori cercando le sue fortune, dallo scavo di Suez alle strade ferrate americane, seminò di vittime il mondo nuovo che si apriva. «Là è sepolto mio padre» dice ancora qualcuno in America davanti al terrapieno e al ponte della ferrovia e delle grandi strade. Chi tornava con qualche risparmio, si accorgeva di non poter più sopportare la vita nel paese natale; aveva appreso il rispetto dell'uomo e il salario del lavoro; ed emigrava nuovamente con quella nostalgia che rode di continuo i calabresi, fatta d'un amore disperato e mai ricambiato.

Quelli che con gli altri meridionali si sparsero nella nostra penisola, furono il nerbo della burocrazia, della polizia, delle professioni liberali, ancora poco adatti ai commerci e alle industrie, o considerandoli, per un testo di grandigia feudale anche se poveri, mestieri poco nobili, o sprovvisti di denaro per tentarli. Vale a dire, penetrarono nel circolo della nazione, e in quello che ha di più delicato lo Stato. E qui torna la frase di Mazzini, che «l'Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà».

C'è di più. Chiuse le porte dell'emigrazione, da trent’anni e con moto veloce nei nostri anni, non è più il meridionale qualificato che tenta la sorte nelle città grandi d'Italia, ma quello che fugge il suo paese dietro ai nomi, magici per qualunque meridionale, delle città del Nord. Esso arriva entrando nelle grandi città industriali e commerciali, si adatta ad abitare comunque e dovunque, si contenta delle forme di vita più misere ben sapendo che, a parte il clima, saranno sempre meno misere che al suo paese. Chi non riesce neppure a sfamarsi in qualche modo, torna al suo paese ridotto all'estremo. La Calabria vede oggi tornare dal Nord molti nello stato più pietoso: hanno resistito fino all'impossibile. Tornano al pugno dei fichi secchi, alla siepe di fichidindia d'estate che è il cibo più consueto e buono per tutti i passanti, e quando c'è il pane, al pezzo di pane col limone per companatico. Il resto della penisola assorbe nel suo circolo vitale quelli che resistono a tutto, energie disordinate e disancorate. Alcuni arrivano a tenere onorevolmente posti preminenti nella cultura, nelle professioni, negli affari...

Naturalmente, col peggio, cioè col più istintivo e ferino della popolazione meridionale, fugge anche il più vigoroso, il più intraprendente, se non il migliore e il più intelligente. È il fenomeno più grave della società calabrese: la mancanza di convivenza civile. Evade l'elemento sociale più inquieto e più audace, evade l'elemento intellettuale, quando può evade l'elemento direttivo. Resta la plebe, tra i fornitori di merci e l'usura, fornitori di medicine, di consigli, di processi; insomma, fornitori di dolori e di lacrime. E il popolo detesta i mercanti, i commercianti, i professionisti, la burocrazia. Ogni più povera famiglia, fin dalla sua costituzione, fa economie atroci per due eventi della sua vita: quando verrà la malattia e quando verrà l'arresto, il processo, il carcere. È questa una prospettiva mai esclusa da nessuna mente di calabrese, abituato a considerare irrazionale la sorte come la giustizia.

Fra le classi estreme, poveri e ricchi, non esiste nessun potere mediatore, nè il clero nè i professionisti che rimangono nella regione e che a loro volta temono l'avvenire, sanno di trovarsi in un paese senza solidarietà in cui l’usura aspetta l'occasione per assalirli e depredarli; col denaro accumulato comprano terre che poi non hanno la possibilità di mettere a frutto. Così, anche quando la proprietà cambia, non migliora. È là, e quello che dà, dà. Proprio come i feudatari di ventitremila e di diciassettemila ettari. L'ignoranza, lo sbigottimento, la diffidenza del calabrese in ogni atto della sua vita pubblica e nei contatti coi pubblici uffici, è beffeggiato, vilipeso, deriso; «tamarro!» cioè cafone rozzo ignorante villano, è un appellativo usuale per le povere donne ignare e i poveri cristiani; così all'ignoranza si mescola l'amara coscienza d'una rozzezza irrimediabile, d'un complesso di inferiorità che si rassegnò sempre agli abusi, ai soprusi, agli ordini dei grandi e piccoli incettatori di voti per le elezioni amministrative e politiche, e agli incettatori di malati per i medici, di rei e di delitti per gli avvocati.

Sembra di raccontare cose di un tempo antico, e sono di oggi. Il fatto è che noi calabresi fuori della Calabria, fuggiti in un giorno pieno di speranza e di lacrime, parliamo del nostro paese come esuli di un regime insopportabile. E bisognerà che diciamo tutto, giacché l'occasione dei fatti di Crotone, che ammoniscono per l'avvenire, ce ne dà il dovere.

Corrado Alvaro

notes alpha

    notes int