Spiritus loci

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Lenormant, François

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Miseria in Lucania: F. Lenormant

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  • A. Mozzillo, Viaggiatori stranieri nel Sud, Milano, Edizioni di Comunità, 1982

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Miseria in Lucania

La strada che seguiamo sale continuamente. Il paese comincia a prendere l’aspetto comune a quasi tutta la Basilicata. È una regione dal clima freddo e rigido coperta dalla neve durante l’inverno; una catena di montagne interrotte da valli profonde, che, nel punto in cui l’Appennino piega direttamente verso sud, forma la linea di spartiacque tra i bacini dell’Adriatico, del mare Ionio e del Tirreno. L’aspetto di questi monti è severo, triste e selvaggio. Essi non offrono allo sguardo pittoresche rocce a strapiombo, salvo ai margini di qualche valle, ma altipiani sulle cime e, sui loro fianchi, pendii più o meno ripidi dove boschi di faggi e di castagni si alternano a campi grigiastri, gli uni lavorati, gli altri a maggese, con dappertutto grandi querce che si innalzano isolate o a gruppi di due o di tre. Si tratta della quercia rovere delle nostre foreste, l’albero più comune in Basilicata, quello che conferisce il suo volto particolare a questa regione (benché vi si incontri, come nelle sierras di Spagna, anche la quercia dalle ghiande commestibili); essa è di magnifico aspetto, dritta e vigorosa di tronco, alta e fronzuta. Mai ho visto tante di queste piante disseminate nei campi allo stesso modo che i meli in Normandia. Le sue ghiande servono a nutrire i porci, che sono il principale oggetto d’allevamento della zona e la cui carne si sporta sotto forma di salumi. Mezzo selvatici, neri, ricoperti di setole spesse e ispide, i maiali della Basilicata hanno quasi l’aspetto di cinghiali. Ma se questa razza indigena non raggiunge mai un ingrassamento perfetto a paragone di quella dei casertini dalla pelle grigia e senza setole, che certi proprietari cercano di sostituire come più proficua per l’allevatore, la sua carne ha fama, in tutto il Napoletano, di gusto eccezionale, di impareggiabile sapore. L’odore di selvatico si avvicina a quello del cinghiale, senza essere così accentuato. Per mantenere quest’odore, pregio della razza, senza che l’allevamento riesca a cancellarlo col tempo, si cerca di rinnovarlo il più spesso possibile attraverso frequenti commistioni di sangue selvatico. I cinghiali sono molto numerosi nei boschi della Basilicata. Quando un contadino riesce a catturare un cinghiale di latte lo alleva in modo che l’animale, una volta cresciuto, serva da riproduttore: gli si portano tutte le scrofe del vicinato.

All’avvicinarsi del Natale ogni famiglia contadina scanna un porco per il proprio consumo e, secondo il numero dei suoi componenti, lo sala tutto o metà, e lo conserva per mangiarlo nei giorni di festa. È tutto quanto mangiano di carne in un anno, a parte la carne guasta di qualche bestia morta di malattia, che si vende nel villaggio invece che sotterrarla, come vorrebbe l’igiene. Diversamente, il cibo del contadino lucano consiste esclusivamente in formaggio ordinario, fresco o stagionato, castagne, che qui, come nel Limosino costituiscono la parte essenziale dell’alimentazione, ghiande dolci, legumi secchi, piselli e fave, e pochi ortaggi, come cavoli e pomodori. È una dieta non troppo sostanziosa; ma la mancanza di carne è in un certo qual modo compensata dal fatto che il contadino beve vino abbastanza abbondantemente. La vigna infatti alligna bene sui pendii molto esposti e dà prodotti di buona qualità. I vini della Basilicata contengono meno alcool di quelli prodotti in altre regioni dell’Italia meridionale; ben trattati (qui la vinificazione è ancora primitiva) si avvicinerebbero abbastanza a quelli di certe province della Francia. In compenso in tutta la zona alta non cresce l’ulivo, l’olio che vi si consuma si ricava dalle faggine raccolte nei boschi. Si distingue per il suo sapore acre e forte.

La giacca, il panciotto e i calzoni al ginocchio, insieme con il grande mantello, talvolta sostituito da una pelle di capra, sono l’abito del contadino della Basilicata. Confezionati con grossa stoffa di lana di fabbricazione locale, questi abiti sono indossati finché non cadono a brandelli, e perciò il contadino li porta per gran parte della sua vita. Le stoffe del costume femminile: la gonna di lana azzurro scuro, il corpetto nero, il grembiule pieghettato, il velo rosso che si pone sul capo ad angolo retto, le donne le confezionano nei villaggi, con la lana ed il lino da loro stesse filati. Per il velo e le camicie sia dell’uomo che della donna, la grossa tela di lino, pianta molto coltivata nel paese, sembra spesso troppo di lusso e troppo cara per gente così povera. Ne fanno una molto più rozza (un vero cilicio per la pelle, e al cui confronto la tela solitamente usata per il velo può dirsi una specie di batista) con le fibre dello sparto, che vanno a cogliere nei boschi, dove questa pianta cresce allo stato selvatico. Non so se in altre parti d’Europa si faccia ancora uso di biancheria di sparto; so soltanto che – come hanno mostrato certe indagini – era proprio questa fibra che usavano gli uomini all’inizio dell’età del bronzo in Spagna e in Italia, e gli antichi guanci nelle isole Canarie.

Ho parlato altrove della miseria agricola nell’antico regno di Napoli, segnalata nello stesso tempo dalle voci autorevoli di E. de Laveleye e del signor Adert, di Ginevra. Ho trattato delle sofferenze e della condizione del contadino in quelle province che la natura ha fatto così feconde e che dovrebbero essere un vero eden, delineando un quadro che qualcuno ha ritenuto eccessivo. In Italia hanno giudicato diversamente; nessuno ha contestato i fatti da me raccolti. I giornali hanno riprodotto quello che avevo scritto; ne hanno fatto un opuscolo ed è stata tale la sua risonanza che in certi posti, nell’ultimo viaggio che ho fatto laggiù, delegazioni delle Società popolari venivano a ringraziarmi d’aver messo a nudo la piaga con tanta freschezza.

E se le cause della miseria contadina esercitano la loro azione in Basilicata più che altrove, l’asprezza del clima rende questa miseria ancor più penosa. È vero che l’aria è sana, grazie alla generale altitudine, e che, a parte qualche valle o le zone basse lungo il mare, non vi regna la malaria. Ma le privazioni e la povertà sono più facili a sopportarsi sotto un clima caldo che sotto uno freddo; il lavoratore non ha bisogno di un’alimentazione molto sostanziosa, non soffre per la mancanza di abiti sotto una temperatura ardente, né importa di avere per alloggio una tana a chi può dormire tutto l’anno all’aperto sotto un cielo sempre clemente. Non è la stessa cosa, invece, per chi è obbligato dal freddo e dalla neve a rinchiudersi in casa per parecchi mesi. Molti si sono stupiti della forza di resistenza dimostrata dai soldati napoletani al seguito di Murat durante la ritirata in Russia: e questo perché si è abituati a rappresentarsi l’antico regno in base alle coste e alle snervanti delizie del golfo di Napoli. Si dimentica che gli antichi paesi dei sanniti, dei lucani e dei bruzî hanno da sempre nutrito popolazioni temperate dalle asperità del clima sempre eccessivo, e rudi come le loro montagne. I soldati reclutati in Abruzzo, nella Basilicata, nella Sila e nell’Aspromonte, erano abituati fin dalla loro infanzia a camminare senza scarpe nella neve ghiacciata e a sfidare, vestiti di cenci, i rigori dell’inverno.

Da quanto ho detto, nessuno sarà sorpreso se aggiungo che l’antica Lucania, di tutte le regioni d’Italia, è quella in cui l’emigrazione verso l’America si sviluppa su più vasta scala. Essa tende ogni giorno di più ad assumere proporzioni paurose. In nessun posto la necessità di una legge agraria ben concepita salta agli occhi in maniera più evidente, in nessun posto è più necessario lanciare all’indirizzo del governo italiano il grido Caveant consules! Qui il pericolo pubblico è manifesto. Nonostante i lodevoli sforzi già fatti per dotarlo di una migliore viabilità che faciliti lo smercio dei suoi prodotti agricoli, il paese continua a spopolarsi perché la miseria delle sue masse rurali è insopportabile. Nella valle di Teggiano incontriamo borgate che hanno visto in dieci anni un terzo della loro popolazione maschile partire per La Plata. Certo non è facile porre rimedio a una simile sofferenza del contadino, causata da cattive condizioni sociali, senza scuotere alle basi il principio della proprietà; ma il male è così grande che bisogna risolutamente mettersi all’opera per cercare i mezzi di guarirlo, se un giorno non ci si vuole trovare di fronte a una rivoluzione agraria o non si vogliono vedere certe province trasformarsi in deserti. Già da molto tempo tutti gli uomini politici italiani avrebbero dovuto sentire l’urgenza del problema. Bisogna d’altra parte riconoscere che se il governo ha tardato tanto ad occuparsi della questione delle campagne, forse intimorito per tutte le complicazioni che essa comporta non ha esitato a toccare nel vivo un’altra questione, peculiare alla Basilicata, a proposito di abusi rivoltanti, anch’essi effetto della miseria dei suoi abitanti. È da questa provincia, infatti, dove la popolazione si fa notare per i suoi naturali doni musicali e si incontrano ad ogni passo pastori che, senza conoscere le note, eseguono un rozzo flauto fabbricato da loro stessi motivi di un fascino strano e malinconico, è da questa provincia che usciva quel nugolo di piccoli italiani che si incontravano in tutta l’Europa, che giravano di città in città a mendicare, suonando strumenti e cantando. Una vera tratta dei bianchi era stata organizzata in Basilicata con la tolleranza dei funzionari dell’antico governo. Odiosi mercanti correvano le campagne per raccogliere i ragazzi, comprandoli per un pezzo di pane alla miseria dei genitori, oppure, spesso, prelevandoli a loro insaputa, quando capitava l’occasione. Li conducevano poi all’estero e li sfruttavano vergognosamente, intascando il denaro che quei poveretti ricevevano ogni giorno dal pubblico, li bastonavano e li facevano morire di fame; spesso perfino li addestravano al furto. Molti di quegli infelici fanciulli, trascinati così lontano dalle loro case, morivano di stenti per la miserabile vita che erano costretti a menare. Quelli che resistevano tornavano a casa in capo a qualche anno, ormai incapaci di adattarsi ad un lavoro regolare, corrotti sino al midollo dall’abitudine alla mendicità vagabonda e, per di più, poveri com’erano partiti, senza riportare un centesimo di ciò che avevano guadagnato, giacché tutto era finito nelle tasche del loro sfruttatore. Alcuni di questi infami trafficanti di carne umana giungevano sino al delitto, quando incontravano un fanciullo la cui voce annunciava qualità eccezionali; ne facevano un soprano, prodotto artificiale ancora molto ricercato da certi maestri di cappella. Senza dubbio le leggi del regno di Napoli (come quelle di tutti gli altri paesi cristiani) condannavano come atto criminale l’abominevole operazione che toglie ad un individuo la sua qualità di uomo per assicurargli un timbro particolare di voce. Ma si era trovata una formula ingegnosa, per cui la polizia, corrotta da una grossa mancia, finiva per chiudere un occhio: le si faceva infatti constatare che mentre dormiva nei campi, il fanciullo era stato mutilato dal morso di un maiale. Oggi i procuratori del re non si appagano più di simili scuse. D’altronde il parlamento italiano ha votato in questi ultimi anni una legge severa, finora rigorosamente applicata, per impedire quanto è possibile la tratta dei fanciulli in Basilicata. Le pratiche fraudolente e i sistemi criminali messi in atto da coloro che si abbandonavano a tale traffico sono colpiti da dure sanzioni. Negata ogni validità ai contratti mediante cui i genitori delegavano la pienezza della patria potestà agli impresari ai quali vedevano i loro figli, lo stato assume la tutela di questi piccoli infelici; i suoi magistrati li seguono attentamente nel regno e all’estero, li proteggono contro i maltrattamenti e l’avidità dei loro padroni, all’occorrenza li rimpatriano e assicurano loro un asilo in istituti di carità fin quando non abbiano raggiunto l’età di guadagnarsi la vita con l’esercizio di un mestiere.

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