Spiritus loci

date

1949

author

Giagni, Gian Domenico

title

Ritratti di poeti contemporanei. Leonardo Sinisgalli: G. D. Giagni

summary

bibliography

  • «Ulisse», III, 9, 1949, pp. 480-482.

teibody

Ritratti di poeti contemporanei. Leonardo Sinisgalli

A noi è toccato incontrare Leonardo Sinisgalli appena qualche anno fa, e nessun incontro fu più semplice e misurato. Esso era stato preannunziato dall’altro e più naturale incontro: sulle pagine che ci giunsero nella lontana nostra città del Sud, quelle pagine, i versi, le fantasie metafisiche che trattavano della nostra infanzia, delle nostre prime inibizioni, della terra che ancora ci accoglieva benevola, della lingua che usavano gli uomini, i parenti, gli amici al nostro fianco. Pagine familiari, dunque. Da allora, dopo il secondo incontro, cercammo di scoprire, di leggere l’uomo; per noi fu facile divenire il marmocchio di Baudelaire de La morale del Balocco («... Non ho il coraggio di biasimare questa mania infantile: è una prima tendenza metafisica. Quando questo desiderio è profondamente penetrato nel midollo cerebrale del bambino, questi trasmette alle sue dita e alle sue unghie un’agilità e una forza singolari. Il bambino gira e rigira il balocco, lo gratta, lo scuote, lo sbatte contro le pareti, lo getta a terra. Di tanto in tanto, gli fa rifare i suoi movimenti meccanici, talvolta in senso inverso. La vita meravigliosa si ferma. Il bambino come la folla che assedia le Tuileries, fa uno sforzo supremo; finalmente riesce ad aprirlo a metà, è il più forte. Ma dov’è l’anima?...»). L’anima di Sinisgalli è legata al suo istinto; scoprirlo non è difficile, non è difficile leggere nel cuore di un poeta. Nato a Montemurro, uno dei paesi lucani più a Sud, nel marzo del 1908, ebbe nel giro, a orizzonte colline, vigneti, orti e campi di fave e su tutto il lieve biancore del sale greco che attraverso il mar Ioniomar Ionio ha battezzato la Lucania terra antica e saggia. Da ragazzo Leonardo Sinisgalli intese questa bellezza e la riportò lentamente nella sua natura istintiva; lasciò quell’orizzonte e trascorse gli anni dell’adolescenza nelle camerate di un convitto beneventano («L’infanzia bisogna scontarla con lunghi anni di solitudine…»). E nella solitudine di quegli anni avvenne il patto con la matematica (“les mathématiques sévères”), alla quale seppe donarsi amabilmente senza però rinunziare al fiore profumato che portava con orgoglio sull’orecchio all’orlo dei suoi capelli corvini, da tartaro. Gli anni che seguirono furono intensi: Roma, Via Baccina, gli amici (Scipione, Beccaria, De Libero, Mafai), gli studi matematici, di meccanica, di metallografia, l’adorazione contenuta per i suoi professori Levi-Civita, Fermi, Severi, Castelnuovo, Fantappiè, i lunghi e solitari colloqui con l’ombra di Lautréamont sulle panchine dei giardini, la guardinga e sommessa amicizia per il foglio bianco sul quale scrivere i primi versi. Laureato in ingegneria si spinse a Milano; questa fu la sua città d’adozione, questa gli dette il primo libretto di versi (18 Poesie) che gli valsero la benevolenza e la stima di Ungaretti, di Cecchi, di De Robertis. Milano gli lucidò la pelle, gli affinò le mani, gli illuminò gli occhi; lo convinse che c’era un posto sul quale giuocare con tutte e dieci le dita e con il lume dell’intelligenza. E così avvenne il connubio più stretto tra poesia e matematica, poesia e graficismo, poesia e architettura. Lo si vide vagante nei paesi lombardi e perfino al porto di Genova con una borsa sotto il braccio a tenere conferenze. La borsa conteneva esemplari di linoleum, le conferenze trattavano questo prodotto industriale. Nella città di adozione le ombre familiari non gli vennero meno, né l’orizzonte che portava intatto l’occhio vivo e nero di fanciullo meridionale. Nacque intensa la sua poesia più nota; il diario poetico della sua giovinezza, della sua età felice fino ai giorni di San Babila e di Porta Nuova. Poi i versi romani e quelli militari (fu nel contempo ufficiale d’artiglieria sulle Alpi, a Castellanza, a Civitavecchia e in Sardegna). E questo diario poetico fu pubblicato nel 1943 – Vidi le Muse – e niente gli fu più caro che specchiarsi in quei versi che lo definivano quale era: attento, elegante, istintivo, familiare, intelligente. L’intelligenza (sempre così viva in lui sin dalle primissime prove) fu il suo punto irremovibile nel centro della sua sensibilità. Passò la guerra. A noi rimase l’eco di quelle liriche di una giovinezza felice; ma Leonardo Sinisgalli seppe riportarcele più tardi. Il suo diario apparve in prosa (Fiori pari fiori dispari) e fin dalla prima pagina c’era la consapevolezza d’una disperata lettura in se stesso. “Forse io ho troppo premuto sulla mia vita col peso del mio cuore”. L’uomo si rassegnava, noi lo incontrammo in questa fase “superba” della sua vita, nei giorni tiepidi di un inverno romano. Ma in quei 28 capitoli di prosa autobiografica la giovinezza non sfuggiva, era presente, la intelligenza assuefatta a certi motivi di “cuore”, la parabola letteraria non si chiuse ma si allargò. Fiori pari fiori dispari fu il libro della giovinezza, della nostra giovinezza, felice e grave, spensierata e umile, saggia e perduta. Ma un altro pungolo lo stimolava: noi che gli fummo vicini lo sentivamo insofferente; les mathématiques sévères, l’esprit de technique lo spingevano ad altre considerazioni, la metafisica lo richiamava. Uscì un libretto di annotazione, dove ci si accorgeva di tale insofferenza, (Horror vacui), e un secondo sottile, bianco, nitidissimo (L’indovino), dialoghi fra un Re e un Indovino sulla terrazza di una casupola nella campagna del Sud sulla quale bivaccavano i soldati (lanzichenecchi? napoleonici? borbonici? Normanni? arabi? neozelandesi? americani? brasiliani?). E venne il secondo libro di poesia, il libro più rassegnato della sua vita I nuovi Campi Elisi 1947. Quasi tutti quei versi li vedemmo nascere, si sapeva sotto quale stella essi vennero, quali umori trattennero la mano del poeta nostro amico. Una sera d’agosto inviammo ad una giovane amica una lunga lettera accompagnata con tre di queste poesie; dicevamo in quella lettera: «… Il mio amico ormai è grigio alle tempie e rassegnato (quante volte questa parola ci cade dal pennino); e questo è il frutto della sua maturità e rassegnazione. Ogni uomo, cara G., ad una certa età stringe nel proprio pugno il frutto di anni di esperienza, di amori, di insoddisfazioni. È l’età che va dai trenta ai quarant’anni, e Leonardo gioca tra queste due date. Il suo ultimo libro dice tutto; è la storia di una seconda giovinezza; una storia di centotrenta pagine e millenovantadue versi, se non erro, nata tra il millenovecentoquarantadue ed il millenovecentoquarantasei… Ora il mio amico poeta è in attesa, la sua felicità è in questo restare immobile e ascoltare i sonagli sulla strada carraia. Nessuna malinconia è più bella dell’attendere la fine di tutti i giorni con un fascio di versi sotto l’ascella e l’amore per una formica, per una mosca, per una chiocciola. Buona notte, mia cara G., questo è tutto. Una farfalletta è caduta stamane nel mio calamaio. Non è ancora morta, non so come tirarla fuori; ogni volta che intingo il pennino è una pena. Chissà se vivrà fino a quando ti giungeranno queste mie poche parole sul mio più caro amico. Sarà una notte impossibile per lei e per me…». Credevamo allora come il marmocchio di Baudelaire di aver scoperto l’anima; troppo complessa quella di Sinisgalli, troppe le vie da seguire al suo fianco, passo per passo, moltissimi gli entusiasmi. Forse egli cerca nei balzi continui della sua esperienza, [ultimamente gli interessi si sono svolti alla radio, al cinema e quindi tornato al lavoro di necessità – dopo cinque anni di sola letteratura – presso la grande casa Pirelli], forse egli cerca la felicità che sia sostenuta come il suo carattere. Ma è poi certo questo? Nella prima Domenica di Quaresima del 1824 Leopardi annotò «Gli uomini sarebbero felici se non avessero cercato e non cercassero di esserlo». Dov’è dunque la colpa, se mai esiste? I suoi versi non l’incolpano, scoprono il poeta; le sue prose offrono i giorni facili e difficili della sua vita. Gli entusiasmi nella pagina si chetano; l’uomo è dimesso, amico, le sue storie (Belliboschi, 1948) pacate, coerenti, umane, le storie che Sinisgalli ha raccolto negli ultimi anni nelle stanzette mobiliate alla periferia di Roma, nell’appartamento alato di Monte Parioli o nelle brevi e rapide fughe nella sua Lucania. C’è dunque necessità di conoscere un’anima al di là di queste pagine e di quella antiche? Qui, la storia del mio amico poeta Leonardo Sinisgalli può anche finire: l’ho narrata sottovoce, come mi è generosamente consentito. Mancherà più di un filo, ne son certo, ma ho lasciato intatto con doverosa consapevolezza quello che regge due uomini anche oltre la semplice amicizia: l’amore per le parole, la fiducia nella poesia. Mancherà il seguito. Non a tutti è dovuto scrivere tutta l’avventura di un uomo. Basta iniziarla col gesto della mano ampio sulla scura parete dei nostri giorni.

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