Levisi è fermato ad Eboli (a L. Sinisgalli)
Caro Leonardo è strano: il tempo tante volte ha ragione di noi, ci sconfigge allettandoci come bambini. È di oggi infatti la mia commozione nel veder avanzare (a passi di gallo, dici tu) di pari passo la primavera sui giardini romani e l’interesse per la Lucania, paese dove noi due siamo nati e verso il quale da anni portiamo un indicibile amore. È un po’ come se scoprissero le nostre intime cose, l’immagine che resta da secoli nel fondo del cassettone, l’erba sana e l’erba malata nel verde degli orti, il colore dei capelli e i gesti di mia madre e delle tue sorelle. Di questo non dovremmo vergognarci, il rossore è il passaporto dell’ingratitudine, e l’uomo è per natura legato alle vanità e nello stesso tempo al timore di scoprirsi; ma sembra che io sia lontano da tali vanità e timori.
Sentir parlare Levi nel suo libro viene voglia di restar muti a soppesar le parole del libro fitto di episodi e di giudizi. Un torinese ha scoperto Grassano nello stesso modo in cui io scoprii Roma, qualche anno fa, sedendomi sui gradini alla fine di via dell’Orso, dinanzi all’Hostaria, o mangiando cocomero a Piazza di Spagna, sotto la finestra di Keats e di Shelley. Io non sono mai stato a Recanati, non vorrò mai andarci (tu sai che ultimamente ho messo il piede nella vasca fredda del giornalismo, e ho saputo che i migliori degli «inviati speciali» partirono, chi prima chi dopo, per il paese di Monaldo: la rotativa spense le illusioni di molti italiani; la luce, le notti di ansia, il riso di Nerina, l’orizzonte, si rinchiusero nelle ristrettezze del «sei tondo o corsivo»; la Publifoto distrusse la biblioteca in cui donna Adelaide Antici serrava suo figlio «dalla statura di gigante» secondo il Giordani). Io dico che i paesi, le contrade, i fiumi dei poeti dovrebbero essere inghiottiti dalla terra, non appartenere più agli occhi degli altri, di noi, di quelli che vengono dopo.