Formulario di petitioni, responsioni e repplicationi per Astorre II Manfredi, signore di Faenza

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1918

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Riccardo da Venosa e il suo tempo [estratto n.2]

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  • Riccardo da Venosa e il suo tempo, Vecchi, 1918, pp. 29-36.

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Federico vide per la prima volta il paese di Puglia, che tanta seduzione dové poi esercitare su di lui, nel 1221; di lì a quattro anni, forse, salì a Melfi, che tanto ebbe in seguito a prediligere, sedente fra il piano e la montagna, e dove certamente si fermò la estate del ’27, assai occupato e preoccupato de’ molti suoi crocesegnati di Germania, che scesi in Puglia per la spedizione di Terrasanta, ivi, tra’ malumori e le sedizioni de’ contadini, furono poco meno che decimati dalla malaria; ed è appunto, io credo, ob culpae meritum di una di quelle, che egli, nel maggio del seguente anno, condannò al fuoco il popoloso borgo di Gaudiano (interamente distrutto, nella primavera del 1348, dagli ungheri di re Luigi, venuto a vendicar la morte del fratello Andrea). Solo nel ’30, quando ospitò in Melfi il re di Tessalonica, che vi morì e fu sepolto all’ombra del massiccio campanile (fatto costruire nel 1153 da re Ruggero in memoria della fortunosa culla di sua Casa), soltanto allora Federico tornò sul Monte Vulture col deliberato proposito di farne la propria villeggiatura: vi fu di nuovo nell’anno successivo, terribile per una «innumerevole peste» di bruchi, che disertò i campi di intere provincie, promulgandovi le famose Costituzioni; ed anche più lungamente che prima e dopo di allora vi rimase il ’32 – l’anno della nascita di suo figlio Manfredi.

Era sbarcato quell’anno, venendo per mare da Aquileia, a’ primi di giugno, et se contulit, per Spirnaciolam, ad Melfiam , ordinando, com’è facile arguire dall’itinerario seguito, il trasferimento da San Gervasio a Venosa, tanto più prossima a Melfi, di Bianca Lancia, incinta di più mesi. Contava trentotto anni, tuttora vedovo della seconda moglie Jolanda; ma era sempre un bell’uomo, pulcher homo et bene formatus et medie staturae, colore subrufus, facie laetus, - come dianzi lo avevano veduto, nell’apogeo della gloria, e descritto, i cronisti dell’Italia Centrale, suoi nemici, e come certo dové allora vederlo, per la prima volta, il causidico «giudice» Riccardo, già quindi trentenne. Memorabile, senza dubbio, per Venosa, l’anno 1232. Ivi la regia Camera, «in cui si contenevan tutte le ricchezze imperiali in oro, argento e pietre preziose» e, tra gli ori, i bellissimi augustali da soli pochi mesi coniati; ivi l’aurea sfera armillare, mirifica arte constructa, e valore viginti millium marcarum, avuta in dono dal sultano di Babilonia (Cairo d’Egitto), - i cui nunzii, insieme con quelli del «Vecchio della Montagna», ossia, del Libano, il divo cesare volle, nel castello di Melfi, a lauto convito il giorno di santa Maria Maddalena (22 luglio), multis Episcopis et multis Teutonicis assidentibus: ed ivi, per giunta, custode della Camera, il milite Giacomino Pugliese, figliuolo del gran giustiziere Enrico da Morra, signore i Sant’Angelo de’ Lombardi, - uno de’ primi nostri lirici dello «stil nuovo», che simile alla sua donna amata,

Donna, di voi mi lamento,

cui allora rivolgeva il rimprovero di volubilità, fu poi tra’ congiurati di Capaccio ed esule dal Regno: uno de’ primi presso la real Corte, in cui fu di moda poetare e dire in volgare, - e «lo imperadore donava molto volentieri e mostrava più belli sembianti a trovatori e sonatori d’ogni maniera genti, che a lui veniano di tutte parti». Quando, a volergli credere, sarà toccata anche a lui, il venosino Riccardo, la buona ventura di essere ammesso, forse invidiato, forse anche invidiando, nel corteggio imperiale, alla presenza dell’augusto sovrano? Proprio in quell’anno, a me pare; ché o non mai nella vita di Federico, o quelli furono i suoi giorni più giocondi, ne’ quali, pur così alto locato, poté accogliere domesticamente, in una delle sue gite a Venosa, lui stesso latinista, il più colto latinista della città, e dilettarsi del comico racconto di Paolino e Polla, che i poeta avrà poi il torto di diluire in troppi distici: comico per que’ tempi, se non per i nostri, - se è vero che niente più del senso della comicità, ed anche del ridicolo, è mutevole a questo mondo…

Del resto, tutto il ’33 Federico è in Sicilia, l’anno successivo in giro per le provincie di qua dal Faro, sempre più innamorato di esse, così da esclamare una volta, e ne fa fede il SALIMBENE, che «il Signore Iddio non avrebbe menato tanto vanto della sua Terra Promessa, se avesse conosciuto, insieme con la Sicilia, le Calabrie, la Campania e le Puglie». Riappare fuggevolmente sul Vulture nel ’35, prima di muovere per la Germania: donde manda prigioniero sul Vulture, perché sia chiuso nella rocca di San Fele, il figlio primogenito Enrico, ventiquattrenne, a lui due volte ribelle; e dalla Germania non torna se non per assalire a Cortenuova i lombardi, disperdere i guelfi di tutta Italia, e, nuovamente scomunicato da papa Gregorio IX, giungere a Foggia nella primavera del ’40, dopo cinque anni di assenza dal Regno, sempre implacabile col figlio, ma non sordo alle sue preghiere per un trattamento meno disumano. Allorché, nel ’41, inviava nelle segrete di Melfi i prelati catturati da’ pisani alla Meloria, che il figlio Enzio gli aveva spediti come ostaggi di guerra, e uno de’ quali, Nicolaus Episcopus Reginus (Reggio Emilia), sarebbe colà morto l’anno dopo; allorché, insomma, l’immane duello tra Roma e Casa Sveva era ricominciato per non chiudersi mai più fino al 1268, egli, Federico, aveva già fatto di Lagopesole, - ove poc’anzi era stato in custodia il milanese Giacomo della Torre, - una domus imperialis, arricchita delle terre di Agromonte e di Montemarcone, e già pensato di costruirvi uno de’ maggiori più forti suoi castelli, dominante, con la porta di ferro e le grandi finestre bifore volte a ponente, tutta la Valle di Vitalba. O non era quello il posto, dove, nel luglio del 1137, Corrado di Svevia, fratello di Federico Barbarossa, sostò per più giorni, primo di sua casa, al seguito dell’imperatore Lotario e di papa Innocenzo II? Non era quella la più sana delle residenze estive, in un paese d’ognintorno malarico, - il maggiore degli appannaggi che unitamente col principato di Taranto avrebbe assegnato a Manfredi, divenuto, mortagli Bianca Lancia, «la pupilla de’ suoi occhi»? Ma egli non volle, no, assistere all’inizio de’ lavori della nuova fabbrica, prima di essersi liberato della incresciosa vicinanza del figlio Enrico, disponendo fosse menato di San Fele a Nicastro di Calabria, - donde, l’anno dopo, corse inaspettata e sinistra la voce d’essere colà morto suicida: a Nicastro, dov’era vescovo un frate di Matera, devoto famigliare di Federico: tra’ regnicoli di Basilicata parve egli contasse non pochi uomini di provata fiducia, - dacché egli aveva mandato via per l’Italia l’altro carissimo suo figlio Enzo, creato re di Sardegna, in compagnia di un nativo di San Gervasio, e nominato potestà imperiale a Trento (la chiave di quel Tirolo, scrive il BALBO, che rimarrebbe selciato, se non le avessero portate via, di ossa tedesche) un signore, o borghese che fosse, di Tito . Si era congedato da Corrado, l’erede legittimo al trono, inviandolo vicario in Germania, con l’ammonirlo severamente di non seguire il tristo esempio del fratello Enrico; e solo il noioso cicaleccio di Corte potrà indurlo, poco dopo, a nuove nozze legali con Isabella d’Inghilterra. Che cosa gl’importava della scomunica, se non mai come allora si sentiva libero di sé, né mai aveva avuto così piena coscienza del suo potere? Il 31 agosto del ’42 eccolo finalmente in campis prope Lacum Pensilem , donde non ridiscende a Melfi, nel settembre, se non per ricevervi il conte Raimondo di Tolosa, e a Foggia, cadute le prime nevi, per svernarvi. Coevo, dunque, di quel singolare gioiello d’arte, che fu e rimane Castel del Monte presso Andria, è la gran mole quadrangolare, più fortezza che Castello, di Lagopesole, - l’uno e l’altra costosissime in momenti ne’ quali l’erario era proprio alle strette: ma delle urgenze finanziarie, si sa, Federico non si diede mai troppo carico; e, del resto, quattro anni prima, dall’alta Italia, aveva scritto perché anche il Vulture fosse dotato, nella città capoluogo, d’una Schola Ratiocini, ossia, a scanso d’equivoci, di agenti delle imposte, alla dipendenza della Rationum Curia, residente in Napoli. Nella estate del ’43 è nuovamente in campis prope Gualdium Melfiae , Lagopesole, ormai il bosco per antonomasia; così pure, assai probabilmente, nel tardo autunno del seguente anno, - ché il rinnovato suo palazzo di Foggia, dall’elegante arco portale a tutto sesto, contrassegnato dall’aquila imperiale, egli abita dall’ottobre del ’44 a tutto il febbraio del ’45. – Ed è appunto durante quel biennio di così eccezionale romita quiete campestre, che il giudice Riccardo avrà potuto ancora una volta incontrarsi con l’imperatore e parlargli, dacché, a parer mio, già nella estate del ’32 eragli toccato, come ho detto, l’onore di offrirgli il suo lavoro poetico, scritto a svago del suo animo (v. 13-14),

Cuius ad intuitum….. …..tale peregit opus.

O allora, o non mai più dopo, - ché la fulgida stella di Federico impallidisce non appena, nell’aprile, egli ripassa il Liri, e rioccupa le terre della Chiesa, avviandosi, cum magno exercitu, et magna multitudine mulorum camelorum dromedarium atque equorum, su per la valle del Po, dove la lega de’ liberi Comuni lombardi, rinata vent’anni prima, s’era fatta baldanzosa e gagliarda. Deposto dal nuovo papa Innocenzo IV nel concilio ecumenico di Lione, invano nel maggio accorre contro Parma, invano tenta Milano, invano scorazza da Verona a Torino, sospettando di tradimento lo stesso Pier della Vigna, che fa imprigionare, forse anche abbacinare: gli è forza, nel dicembre, ridiscendere fin giù a Grosseto, dove, ai primi del ’46, un corriere del Conte di Caserta, suo genero, gli porta la sbalorditoia notizia che quelli de’ suoi cortigiani e ministri del Regno, i quali più aveva amati e sollevati da umili gradi, educandoli come figliuoli, e affidando loro la custodia della sua persona, essi, congiurando col papa per via de’ nuovi frati di San Francesco e di san Domenico, avevano tramato, con i Sanseverino alla testa, la più turbolenta e insana di quante famiglie feudali, per nostra disgrazia, ebbe il reame, di ucciderlo. L’uomo perdé il lume degli occhi; e corso incontro a’ ribelli, avutone un gran numero nelle mani, li condannò senza misericordia a’ più crudeli supplizi, ordinando in pari tempo che i frati minori e i frati predicatori, i quali, «sotto il velo della religione, mentivano la vera loro indole di scorpioni», fossero puniti, non più col carcere, ma «come si costumava con le volpi», legati a due a due e sottoposti a tormenti di fuoco, senza remissione della vita per alcuno…Che tumulto di odi e che sete di vendette dovevano albergarli nell’animo, quando, nuovamente, nell’autunno posò a Melfi, nell’inverno a Foggia! Ritorna, nel ’47, contro Parma, fondando lì presso una sua città ghibellina che chiama Vittoria; ma, a schermo di fortuna, è vinto nell’anno successivo, e la città incipiente distrutta: non tanto però da riordinare prontamente i suoi, e, nel dicembre, fatta una punta a Torino, ivi conchiudere il matrimonio del sedicenne Manfredi con Beatrice del conte Amedeo IV di Savoia. Non bastava la felicità del figlio prediletto a ridargli la calma? Non lasciava suo rappresentante, ripartendo dall’alta Italia, l’altro suo nato, anch’egli «bello e biondo e di gentile aspetto», il carissimo Enzo? Non aveva ancora amici e fautori in Toscana, e i ghibellini non s’eran forse insignoriti della stessa Firenze? Così riviene, precocemente invecchiato, in compagnia della gentile coppia, a Napoli nel maggio, a Melfi nell’agosto del ’49, - là dove il Giustiziere di Basilicata, fedele interprete, più che degli ordini, della sua volontà, ha compiuto, tutto intorno al Vulture, durante la sua assenza, l’opera di rinnovamento, da lui incominciata.

T. F. BÖHMER,Regesta Imperii, vol. V, Innsbruck, 1881 F. TORRACA, Studi ec., pp. 117-22. É. JORDAN, Les origines de la Domination Angevine en Italie, Paris, 1909, p. 99. (...ed a pubblica confessione del granchio a secco da me preso in n.3 a p. 52 del Castello di Lagopesole ).

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