Più volte, fanciullo, ero stato a Venosa con mia madre nell’ampia sua casa paterna, nota ne’ dintorni per una grande cova di canarini, il cui color grigio chiaro e il dolce gorgheggiare mi facevano andare in visibilio: la nonna, vedova da più tempo. E cui dovutamente obbedivano i quattro figli maschi, molto amava l’unica figliuola lontana, e i non pochi suoi nati. V’ero tornato un quarto di secolo dopo, nell’80, candidato per la prima volta alla camera elettiva, ma non più ospite di quella casa, perché il superstite degli zii, papista e legittimista arrabbiato, fé in tempo sapere al neo-liberale nipote di non gradirlo gran fatto… Tardi, per ciò, - non contando una fugace visita per lo scoprimento d’una lapide in memoria di Luigi La Vista, - io potei godere a mio agio della solatia cittadina, nel felice maggio del ’95, alla vigilia delle elezioni generali per la XIX Legislatura: quando, a furia di vicendevoli compatimenti, ed anche per il discorso che vi tenni, - sotto i lieti auspici del bene accetto saluto a Venosa, «conosciuta ed amata da quanti sono uomini colti su la terra nel nome immortale del suo poeta», - io riuscii a ingrazionirmi sia co’ non pochi, che devoti al mito della Sinistra Storica, non avevan già voluto saperne di me, sia con la stessa maggioranza, che mi teneva il broncio perché io non avevo consentito ad andare Segretario alla Istruzione, prima, a’ Lavori Pubblici, poi, richiesto una volta dal Coppino, l’altra dal Genala. Ed io – oh quanto ingenuo! – credevo che fosse bastato a rendermela propizia essermi fatto iniziatore di un monumento, per l’appunto, al poeta, subito mettendomi all’opera, e con animosa assiduità sollecitandone il compimento… Quali contrasti invece mi erano serbati, e quanto maggiore fu l’indugio, è bene io accenni, pure dilungandomi col discorso dall’argomento principale. Ammirata in Roma la bellissima statua di Ovidio, scolpita da Ettore Ferrari per commissione della città, - Constanz di Rumenia, - che ospitò esule il poeta abruzzese, non aveva durato gran che, nell’ottobre dell’86, a far riconfermare dal Consiglio comunale di Venosa un vecchio suo deliberato, per un eguale attestato di onore e di riconoscenza al grande concittadino. Ma dal dire al fare, o chi non sa che c’è di mezzo il mare? La città usciva appena da così grave minaccia di fallimento, che la memoria non ne è ancora perduta: assai ricca di debiti prediali, ma esente da ogni contributo di imposte locali, le amministrazioni succedutesi dopo il ’60 s’eran date a tale pazza gioia di spendere e spandere, che il comune fu ultimo alle prese co’ creditori usuraj. Era da un pezzo prefetto della provincia un rigido valentuomo bergamasco, Evandro Caravaggio, fatto apposta per tener gli occhi a’ funzionari suoi dipendenti, solito, ogni volta gli riuscisse coglierne qualcuno in fallo, nel ripetere nel rude suo dialetto, stropicciandosi le mani: «l’ó tróàt, l’ó tróàt»! Or nell’anno, per l’appunto, della mia prima elezione egli, sciolto il Consiglio, aveva già fatto dono a Venosa, quale regio Commissario, d’un arcigno consigliere di prefettura dal nome eteroclito, e insistentemente si raccomandava al Depretis perché, con apposita legge, quegli fosse mantenuto in carica a tempo indeterminato, tanto irreducibile gli pareva la città a vita normale: l’anno appresso, venuto re Umberto a Potenza, egli non temé di invocarne l’assentimento, presenti, con tutti gli altri della provincia, i delegati venosini. Non importa qui soggiungere in che modo, e dopo ansiosa attesa, fu possibile cavarne, il men peggio, le mani.
La dura lezione, - della cui facoltà, in seguito, per tutto il Mezzogiorno, più i governi si dissero democratici e più abusarono, - non andò perduta, poi ché realmente le cose mutarono alquanto; e rinnovato il Consiglio, e via via assestati in parte i conti, nel dicembre dell’89, la maggioranza si piegò ad iscrivere in bilancio LIRE diecimila, il terzo, cioè, della somma che lo scultore Achille D’Orsi presumeva occorresse al monumento. Che non pochi fossero stati, nel voto, di dubbio animo, io seppi: perdurava in molti un vago timore, né i più si eran lasciati persuadere, men che dall’aulico manifesto in latino d’una Commissione incaricata di ricevere obolum tam ab indigenis quam ab exteris, dalla insistente apostrofe del sindaco, mite uomo, ma immaginoso e passionato: «tollereremo noi che solo Ovidio e non pure Orazio abbia la statua?». Niente per ciò di più naturale che in un giorno dell’aprile ’90 io credessi poter rasserenare gl’incerti, facendo lor sapere che il Caso, fortunatamente, li liberava d’ogni rimorso: il senator Finali, ministro de’ Lavori Pubblici, avevami confidato qualmente tanto alla Camera quanto al Senato era sfuggito, nella ripartizione de’ contributi comunali alla costruzione delle ferrovie Ofantine, un errore di calcolo, a beneficio per l’appunto di Venosa, e per la cifra precisa di LIRE diecimila; che la Direzione Generale delle Strade ferrate, responsabile dell’abbaglio, se n’era bensì avvista, nel passaggio del disegno da Montecitorio a Palazzo Madama, ma che egli, il ministro, tardandogli che la legge venisse a luce aveva creduto non tenerne conto, e andar oltre… Potevo io mai sospettare, che, senza tanti complimenti, senza tenermene parola, la incauta lettera, nella quale io partecipava una tale notizia, sarebbe apparsa in un giornaletto locale, il Quinto Orazio Flacco, tenuto su da un tipografo milanese, ivi capitato alla ventura; ed una copia speditane – da mano ignota – al Gabinetto del ministro in piazza san Silvestro? Vivessi cento anni, non dimenticherei l’ambascia che mi assalì nel rincontrarmi col Finali, il cui viso aperto, muta la parola, io temei non mi accusasse d’indiscrezione e peggio! Prestò egli fede alle concitate mie scuse? Ho sempre creduto di sì, tanto egli, da quel giorno stesso, nulla detrasse alla benevolenza, di cui m’era stato sempre larghissimo.
Veramente, ad avvalorarmi nel proposito di tener fermo e toccar la meta, aveva non poco contribuito l’incitamento che, in Roma, un anno più dell’altro, m’era venuto da insigni uomini, firmatari della mia scheda di sottoscrizione: tra’ primi, due tedeschi di fama universale, diversi per età e costume, né fatti per dirsela molto tra loro.