Che Orazio amasse Venosa e i dintorni, da lui così affettuosamente descritti, nessun dubbio. Dal lato di ponente, le «venosine selve», - che contennero forse il podere che Cicerone possedé e visitò, - ascendenti su su fino alle sette cime del Monte Vulture, lungo le quali, otto secoli dopo, aleggerà pure la leggenda del cavallo d’Orlando; a mezzogiorno, i fertili campi dell’allora «pianeggiante» Forenza, vigilati dall’ «eccelso nido» di Forenza, che rimarrà pagana con Giuliano l’Apostata, e sarà ultima rocca de’ longobardi di Salerno; ad oriente, l’ampio saliscendi del bosco di Banzi, con l’omonima fontana «più tersa del cristallo», che una delle più brevi odi del poeta eternerà; e in ultimo, a tramontana, l’Ofanto, «che lungi risuona» , e il Gargano, tutto un querceto «battuto dall’adriatico aquilone»: o non ci tornano dinnanzi, sempre più amabili e familiari, negli armoniosi suoi versi?
Ma, a farlo apposta, ecco qui un caso di stupefacenti arzigogoli, in virtù di non meno stupefacenti chiosatori, - che il compianto nostro RACIOPPI, ognora vivo nel devoto cuor mio, bollò come meritavano, - circa la ubicazione della misteriosa vena d’acqua de’ bantini balzi…
Occorsero nientemeno che diciassette secoli perché un bizzarro abate francese, preso da irrequieta simpatia per Orazio, e letto in una pergamena medievale il nome di Bandusia, sita tra Palazzo san Gervasio e Venosa, si partisse da Roma, e recatosi Dio sa per quali vie e in che modi nell’estremo angolo nord-est della Basilicata, tornato sicurissimo di avere rinvenuta la ignota fonte, si affrettasse ad annunziarle, l’anno 1796, con apposita stampa, la scoperta. Ma la sua parola, ahimè, fu seme di nuovi e maggiori dubbi! Orazio, se aveva serbato pio ricordo della tremula e garrula sorgente natia, non aveva mai più riveduta Venosa, - poi che dopo la rotta di Filippi, il tenue asse paterno gli era stato inesorabilmente confiscato, - e, per ciò, non a quella fonte egli avrebbe potuto la dimane, secondo la sua espressione, andare per il sacrificio. Né basta: che già non pochi eruditi locali si accapigliavano per accertare se l’abate avesse colpito bene nell’ubicar quella, e non altra, delle molte fontane del bosco, venute nel frattempo a luce… Bisognò aspettare altri novant’anni perché un secondo e più autorevole francese, Gastone Boissier, in un delizioso libro di sue passeggiate archeologiche, rompendo, come suol dirsi, le uova nel paniere, mostrasse che la celebre ode il poeta aveva intitolata, non alla fonte lucana (Banzi fu sempre della Lucania) ma ad un’altra, pochi passi distante dalla redditizia sua villa sabina, e alla quale piacegli imporre il beneaugurante nome medesimo.
Dunque, prima che Augusto, nella ripartizione delle regioni, assegnasse Venosa all’Apulia, Orazio fu incerto se dirsi, dalla patria, appulo o lucano: ma che egli preferisse la prima denominazione, è sicuro. Che è mai per lui la Lucania? Forte il popolo (vìolens, da vis), e donde Spartaco trasse già il nerbo delle sue orde; ma povero e selvaggio il paese. Durante l’inverno, ne’ suoi boschi coperti di neve il cacciatore, che dorme «senza pur levarsi le gambiere», insegue o il cignale, lucans aper, «per le opulente cene dell’Urbe», o l’orso, come afferma Marziale, «per il sollazzo nel circo de’ nipoti di Romolo»: vastissimi, i suoi boschi di elci e di roveri, dove cresce ed alberga, pressoché indigeno, il maiale dalla nera e lunga setola, forse l’incrocio col cignale, la cui carne, ridotta in salsiccia e portata da’ soldati a Roma, vi ebbe il nome, ancora vivo nell’Alta Italia, dal Piemonte al Friuli, di luganiga. Nella Estate, sugli alti abbondanti pascoli salgon quante mandre e quanti branchi di pecore posseggono i ricchi proprietari della Calabria, cioè, - a scanso di equivoci, - la odierna terra d’Otranto, «circoscritta torno torno, nella sua riva tutta a seni ed a golfi, dal furioso adriatico…»
L’Apulia, invece, col suo «fiero», «impetuoso», «tauriforme» Ofanto, ancorché travagliata da’ venti, scarseggiante di piogge e poverissima di sorgenti, sticulosa, oh quanto «fattiva» e «ordinata», quanto il suo popolo «perseverante» e «infaticabile», pernix et ìmpiger, due qualificativi, che i maggiori e più lusinghieri nessun paese sperò mai di meritare! Se l’alloro spinoso, l’ilex aquifolium de’ botanici, dalle bacche rosse, vegeta mirabilmente solo sul Gargano in un gran bosco che latinamente è detto ancora «umbro», l’ischio, - l’oraziana aesculus, la querce bianca, - cresce rigogliosa lungo i margini de’ fiumi, dando loro il nome, rimasto immutato, di «ischie»: queste le folte macchie ofantine, dentro le quali si rintana il lupo mostruoso, portentosus, come latinamente lo chiamano i contadini di Rionero…
Non una sola parola, dunque, ma l’atteggiamento dell’animo, in quanto esso ha di più celato e profondo, potrebbe – se mai – far credere alla qualità di lucano del poeta venosino; l’accorata tristezza, pur nell’apparente sorriso delle labbra, la sottile e fredda afflizione del vero umorista, che è nelle sue parole: queste le due caratteristiche più vere della sua indole, che lo sollevano, come or ora ha mostrato un giovane – il Galli – alla veramente leopardiana visione della morte universale. Bisogna aver vissuto lungamente in Basilicata per conoscere il senso di nostalgia della povertà di colore e del silenzio pesante di sue terre, e intendere come posson seguir mesi ed anni senza mai imbattersi in un viso aperto e giocondo. Assai più che altrove la malinconia del paesaggio si riflette colà dell’ordinario nella mestizia degli abitanti, e se frequente vi è il costume della vita solitaria, tutt’altro che raro è anche l’abito di appartarsi del tutto: quante volte, tornato ne’ miei paesi l’autunno, e chiesto d’un conoscente che più non vedevo, mi sentii dire, testualmente; «s’è chiuso!».
Tutto sommato, una conclusione precisa e decisa è quella cui è venuto, due anni fa, un comprovinciale della Università romana, il professor Nicola Festa, - tanto men conosciuto dal maggior numero di noi quanto più giustamente potremmo della dottrina e della fama sua menar vanto, - in un suo scritto di ricordi locali oraziani, pubblicato tre anni addietro a Torino in una miscellanea di studi storici. Egli non esita menomamente a scrivere, che Orazio considerò come sua patria, in senso stretto, quel tratto settentrionale della Puglia, cui fu dato il nome speciale di Daunia, contrassegnato dall’Ofanto, - «che scorre lungo il regno Dauno appulo»,
Qui regna Dauni praefluit Apuli, -
Il «suo» fiume, poi che ad esso rimarrà per sempre legata la memoria di lui: la «guerriera» Daunia, l’onore della cui Musa, personificata in lui, egli sa di potere affidare ad Apollo, patrono di un paese che Strabone esalterà per le messi e i cavalli e gli armenti, e delle cui città Plinio ricorderà Luceria e Arpi e
Venusia
e Canusium; orazianamente, nobilis la prima, bilingue l’ultimo: sì, anche Canusium, fiorente del commercio delle lane, e il cui territorio si estende, a mezzogiorno, fin presso Lavello(l’antica ceramica lavellese è canosina), lungo i campi di Gaudiano, cari a’ maggiorenti della città, come quel Servio Oppidio, - forse una reminescenza della sua fanciullezza, - che vietò per testamento a’ figli, pena la maledizione, di accettar mai nomine elettive…
In senso stretto, a scando d’equivoci, perché come uomo e come poeta, - avverte l’amico De Lorenzo, - nessuno ebbe mai più di lui sicura ed alta la coscienza di potere estendere, ben oltre l’angusta cerchia di sua terra, la designazione della patria. Il De Lorenzo coglie nel segno allorché afferma che Orazio sarebbe scoppiato dal ridere, qualora gli avessero chiesto della qualità sua di lucano o di pugliese, egli che, per grazia di Giove, si credeva puramente e semplicemente romano, nonché di elezione, di origine; egli, dell’antica gens Horatia, e, quindi, di pretta romanità, poi che assai probabilmente i suoi eran venuti duecento cinquant’anni prima con la colonia militare, colà messa a guardia delle nuove conquiste verso la punta orientale della penisola. La condizione servile de’ suoi antenati, - nota lo stesso Festa, - non obbligava allora, e non obbliga oggi, a ritenere che essi fossero precisamente nativi dell’Apulia o della Lucania, e che, per ciò, nelle vene di lui non potesse realmente scorrer goccia di sangue romano. Nel fatto, c’è altri forse che più virilmente di lui abbia mai sentito il religioso orgoglio di sua cittadinanza adottiva, l’intima compiacenza e la consapevolezza del valore di essa, poi che Roma si era degnata di considerarlo suo proprio, ponendolo tra’ cori amabili de’ patri poeti, inter choros amabiles vatum?
Cittadino dell’Urbe, di pieno suo diritto, e, in conseguenza, vero sabino, com’egli non dubitò chiamarsi, quando, possessore della villa che gli dava agio di vita, ebbe a contestare, bonariamente, con uno degli otto suoi schiavi a quella destinati… Ubi res, ibi patria, diceva un volgare proverbio del tempo.
E il vero è che torna affatto utile attribuire al passato le idee, in particolar modo alcune idee, dell’oggi. Chi rammenta, come me, l’ultimo decennio del Reame di Napoli, ha in serbo tale cumulo di impressioni, che assai difficile gli riuscirebbe, nonché esprimerle, farle altrui comprendere: e non si tratta se non di sessant’anni addietro!