La linea ferroviaria Rocchetta Sant’Antonio - Gioia del Colle

date

1896

author

Nitti, Francesco Saverio

title

Lettera di Francesco S. Nitti a Fortunato

summary

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Napoli, 12 febbraio 1896

Mio caro Giustino,

perché volete che io scriva il mio giudizio?

Ho letto l’Alta Valle dell’Ofanto , anzi l’ho riletta e mi piace molto. Non è che un tentativo. Voi che credete alla fatalità geografica, che io ammetto solo in parte, avete voluto mostrare come essa agisca. Io ignoro molta parte dei luoghi che descrivete e alcuni conosco appena: ma la descrizione è sì ben fatta, che ho ricostruito senza difficoltà il passaggio e gli avvenimenti. E ciò a chi voglia fare della geografia storica è la sola cosa che sia essenziale di sostenere.

Ma tutto ciò che avete scritto non è che la negazione della tesi preconcetta, intorno a cui vi affaticate.

L’Ofanto era lungamente navigabile, la valle superiore avea popolazione sparsa e casali un po’ dovunque. Le stesse razze, che ora sembrano accasciarsi di fronte alla perfidia di una natura ingrata, furono da un solo uomo, per lungo volgere di anni, trascinate all’ascetismo.

Il risultato che logicamente si trae da quanto dite è questo: l’economia capitalista, facendo prevalere gli interessi individuali e temporanei e, distruggendo l’opera collettiva dei secoli, ha sterminata una regione, che un tempo albergò popolazione superiore all’attuale in condizioni migliori.

E chiamate tutto ciò fatalità?

Noi che non crediamo alla vita futura, e che sappiamo che la vita e la morte non sono termini assoluti, ma fenomeni di natura identica, un avvicendarsi e un sostituirsi scambievole, noi non dobbiamo, mio caro Giustino, credere alla fatalità. Se io avessi creduto ad essa non avrei lottato e non lotterei contro difficoltà quotidiane, in ambiente ove nessuno sforzo di bontà e di amore porta i frutti che dovrebbe. Tante volte io pure son preso dallo scoraggiamento. Ma una voce interiore mi dice sempre: lotta e credi. Non ridete di ciò che io vi dico. Ma, ogni giorno che passa, io mi convinco che non vi è nulla che sia compiuto con amore, che non dia risultato.

Quale ambiente è più fatalmente, come voi direste, disadatto alle mie idee di quello in cui vivo? Da principio ho avuto quasi lo sconforto: e lo scetticismo esteriore è servito a mascherare tante volte lo sgomento dell’anima.

Dio è in noi. O almeno l’idea divina non è che una parte dell’esser nostro migliore. Non bisogna sperare nell’al di là: ma tener quaggiù gli occhi intenti all’amore e al bene.

Nulla si perde.

Se Vi accasciate sotto la fatalità, che cosa altro Vi resta che uno sterile rimpianto? Voi non fate che rimpiangere ciò cui non potete più credere: rimpiangete la fede religiosa, cioè la illusione; rimpiangete il misticismo scemante, cioè la illusione che si dilegua. Voi non concepite la realità. Avete troppo nel Vostro cuore e nella Vostra anima il difetto della educazione antica. Non abbandonate la illusione cattolica che tutto si possa fare, se non per l’illusione pessimista, che nulla si possa fare.

Non vi sono fatalità nel senso in cui Voi parlate. Ricordatevi che Hegel ha detto che dove fioriva l’arte greca e la speculazione filosofica saliva le vette più luminose, sonnecchia ora il musulmano.

Dove 170 anni di dominazione spagnuola aveano trasformata la Lombardia in un paese torpido e vile, si svolge ora una grande civiltà industriale e il socialismo, cioè questo individualismo medio delle masse, dominate dallo spirito ascensionale, fiorisce.

«Che cosa è la storia dei popoli, infuori della influenza prevalente della natura esteriore?» No: la storia dei popoli non è solo questo. Il Giappone ha subito per quattordici secoli la civiltà mongolica e poi l’ha rinnegata di un tratto. La Spagna, che fu truce nella fede e inesorabile nella vittoria, non è ora che miserabile nell’accasciamento. Che cosa è mutato nelle condizioni geografiche di quei due paesi?

Certo, benché a noi ignoto, per ogni popolo vi è un punto storico, che forse esso non sorpasserà mai. Ma chi può dire quale sia questo punto? Il paria indiano non sarà forse mai l’operaio di Durham: ma già Malabari sorge nell’India, pessimista e torbida, accasciata dalla potenza e dalla violenza delle forze naturali, a predicare la virile virtù della resistenza e a trasformare il paria in uomo.

Nella vita dei popoli, come nella vita degli individui, non vi è nulla di più malefico della illusione pessimista. L’idealismo rivoluzionario, per quanto dannoso esso sia, vale cento volte di più.

Questa è la mia convinzione tenace, senza di cui non lotterei e non amerei: sento, che se non l’avessi la mia esistenza non avrebbe scopo e la mia opera sarebbe vana.

E devo ora parlarvi della forma del Vostro opuscolo? È scritto bene, molto bene, direi anzi troppo bene, perché in alcuni punti la cura dello stile è eccessiva e dispiace. Vi sono poi, data la sostenutezza della forma, dei particolari e delle superfluità dannosi. A pagina 16 parlate della ferrovia «solennemente inaugurata il 27 ottobre» e quel solennemente e la data sono orribili. Quell’«onore all’Italia» a pagina 17 è un entusiasmo a freddo e pare il brindisi di un sindaco. Altrove date dei consigli al comune di Conza. Ciò forse è pratico, ma non è bello, ed è in antitesi stridente con l’elevatezza dello stile, che vuol essere a dirittura nobile.

Ma queste sono piccole cose: ciò che è importante è che avete scritto un opuscolo bello e buono.

G. Fortunato, L’Alta valle dell’Ofanto (1895), in G. Fortunato, Scritti Vari, Trani 1900. (ndr)

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