Oggi, le condizioni dell'agricoltura sono mutate di poco: fuorché in parte dei luoghi dove possono prosperare facilmente le colture arboree, agrumi, ulivi, fichi, viti, con spesa d'impianto piccolissima in confronto del prodotto; le terre, o sono incolte, pastura incerta al bestiame grosso e minuto che vaga all'aperto giorno e notte, in ogni stagione, oppure sono coltivate a cereali e a civaie, qualche volta a cotone, ed allora, sono grattate con aratri il cui vomere, lungo 30 o 35 centimetri, è largo alla base 8 o 9 centimetri. La mancanza di concime è cagione che convenga lasciar riposare i campi ogni due o tre anni per un tempo più o meno lungo secondo la fertilità o il grado di esaurimento della terra, e il prodotto del suolo è così scarso, le spighe del grano sono così rade, che, nel mese di settembre, prima dell'aratura, si distinguono a mala pena gli steli delle spighe dei campi seminati l’anno prima, dai fili d'erba secca dei terreni incolti o lasciati a riposo. Soltanto lungo una parte dei fiumi perenni, dei lavori d'irrigazione che innaffiano per lo più solamente la parte più bassa della valle e spesso potrebbero, con poca spesa di più, giovare ad estensioni molto maggiori, permettono una coltura più variata e più abbondante. La sola coltura per la quale si anticipi un capitale un poco maggiore in opere di irrigazione più accurate, o in pozzi con maneggi per trar l’acqua dove manchi l'acqua corrente, è quella degli agrumi, dove il tornaconto è grandissimo per l’alto prezzo che si è sempre pagato pei loro frutti, e che è cresciuto in questi ultimi anni, in certi momenti, fino al triplo dell'antico. Adesso come quattordici anni addietro, sono pochissimi luoghi dove è tratto partito delle ricchezze inestimabili del suolo e del clima. In Calabria, è vero, gli agrumeti, intorno a Reggio, coprono la riviera dei due mari; lungo il Tirreno s'internano nelle valli e si vanno a mescolare colle vigne di Palmi, e lungo l'Ionio, prima coprono la riviera, poi vanno qua e là a vestire il piede delle colline, negli spazi lasciati loro dai campi coperti di fichi e d'ulivi o da quelli disertati dalla malaria; la pianura di Palmi, è coperta da una immensa foresta d'ulivi che, alla statura degli alberi e alla foltezza dei rami, par di querce e di faggi; colline del littorale Ionio, ed alcuni punti dei monti più vicini al centro della Calabria sono vestite di ulivi, spesso cresciuti spontaneamente, e poi innestati; vi sono le vigne di San Biase e del Savuto, gli uliveti delle colline intorno a Rossano, le pendici un po' meglio coltivate e coperte di gelsi, di fichi e di ulivi dei casali di Cosenza, i campi irrigati intorno a Castrovillari; e in Basilicata, si possono citare le terre irrigate della valle superiore dell'Agri e di alcuni punti del suo corso inferiore, gli orti di Senise, le vigne di Potenza, di Rionero e Melfi, gli uliveti di Ferrandina. Ma fuori di quelli e di pochi altri luoghi dove il tornaconto delle colture arboree, la facilità delle irrigazioni, la intelligenza e la costanza di alcuni pochi proprietari sono stati cagione che la produzione fosse maggiore, l'agricoltura si può quasi dire allo stato selvaggio: si vedono colline che sembrano fatte apposta per la coltura, appena coltivate; gli altipiani dell'Appennino abbandonati alle felci, le sue pendici in gran parte diboscate, la sterminata solitudine della Sila deserta e incolta; quasi tutte le marine e le valli interne dei fiumi sono avvelenate dalla malaria, malamente coltivate o incolte; rimangono abbandonate intere catene di colline, dove rari ulivi colla loro vegetazione rigogliosa mostrano quanto sarebbe stato facile di trarne inestimabili ricchezze piantandone altri; le pianure e le colline basse del Cotronese, del Materano e del Melfese sono in parte del tutto incolte, in parte a riposo da uno e spesso più anni, in parte grattate dagli aratri in modo che le erbacce e gli steli del raccolto precedente sono appena smossi; nei terreni argillosi del mezzogiorno di Basilicata, colline intere sono state portate via dalle acque, dei rigagnoli, prima appena visibili, si vanno scavando fosse profonde dieci e più metri, il suolo è dappertutto tormentato, tagliato, franato, forato, e qua e là qualche guglia di terra tenuta in piedi qualche anno di più da una pianta cresciuta a caso in quel punto del suolo, sembra rimasta per mostrare quanto sarebbe stato facile salvare anche il resto; i fiumi senza ritegno occupano un chilometro e più, portano via interi poderi senza che si tenti neppur di difenderli, alla foce coprono di ciottoli larghezze sterminate, e, quando sono a pochi chilometri di distanza gli uni dagli altri, confondono i loro sassi e formano piccole pianure di pietre e di sabbia; le campagne sono deserte di case coloniche, i contadini accatastati nei luridi paesi, sono costretti a perder metà della giornata o della notte per andare al lavoro. Alla vista di quella desolazione, il forestiero è tentato di credere che in quel paese, ogni anno dopo il raccolto, avvenga qualche grande sciagura qualche invasione, qualche conquista che tolga i frutti di tutto il lavoro dell' anno ed impedisca di metter nulla da parte per migliorare i campi, per togliere la febbre; oppure che da secoli e secoli i raccolti cattivi si siano seguiti senza tregua ed abbiano appena lasciato ai proprietari ed ai lavoranti tanto da poter mangiare e seminare, oppure che in quel paese viva una qualità di uomini speciale, che, in mezzo a terre coltivate, abbia conservato l'imprevidenza dei selvaggi delle praterie d'America, e che, quando ha mangiato bene o male, non senta, quel desiderio comune a tutti gli uomini di migliorare la propria sorte.