La Sila è un vasto altipiano, parte boscoso, parte spogliato, largo in media 30 chilometri, e lungo 60, completamente deserto d' abitatori stabili, e solamente durante l'estate occupato da mandrie di bestiame che l’inverno pascolano alle marine, e dai contadini dei paesi che sono sulle falde dell'altipiano. Questi vengono a raccogliere e a seminare segala o patate nei campi che hanno a fitto dai proprietari, o che seminano in forza dei diritti d'usi civici dei loro comuni. Il clima, rigidissimo, non ha nulla a che fare con quello della rimanente Calabria, se si tolgono gli altri altipiani minori che coronano l'Appennino, deserti pur essi. La Sila sta sotto la neve per quattro o cinque mesi dell'anno e, traversandola il 9 ottobre, vi trovai una brinata che durò per ben due ore dopo l'alzar del sole. Il suolo, in massima parte piano e leggermente ondulato, è per la sua configurazione attissimo alla coltura, ma il clima esigerebbe un sistema agricolo probabilmente molto più somigliante a quello del nord della Francia o del Belgio, che a quello della rimanente Calabria. La parte di quell’immensa estensione di terra che rimarrà libera proprietà dello Stato dopo che saranno sciolti i diritti promiscui e determinati i limiti delle proprietà, basterebbe, se convenientemente coltivata, a dare lavoro ed agiatezza a migliaia di contadini, a diminuire per tal modo 1'offerta delle braccia nei circondari vicini, ed in conseguenza ad alzare il prezzo della mano d'opera. Ma l’agricoltura conveniente a quelle terre è ancora da scoprire.
E adesso, malgrado l'esperienza di ben 60 anni, si vuole affidare ad elementi locali la quotizzazione di quelle terre, sfornite come sono di capitali, cioè le si regalano ai proprietari della Sila e dei comuni circostanti. Malgrado la difficoltà speciale di quel luogo, la quale basterebbe a rendere infruttuosa ed illusoria la quotizzazione anche se fosse riescita nelle altre parti di quelle province, lo Stato lascia all'ignoranza dei contadini la cura d'inventare un nuovo sistema d'agricoltura, e forse di introdurre la coltura di prodotti, di cui proprietari e contadini calabresi ignorano perfino il nome. Lo Stato, in un articolo secondario di legge, abbandona uno degli ultimi mezzi che gli rimangono di migliorare la condizione di quei contadini, e di dare per tal modo la prima spinta alla rivoluzione economica che finirebbe coll’accrescere la produzione di quelle province.