Ciò che solo ho intenzione di fare stasera colle mie parole, quello è di parteciparvi le impressioni da me provate nella mia gita. Se per voi non sarà che ricordare quanto sapete, per il Paese sarà giovevole si sappia rispetto a voi stessi la nuda verità, la triste realtà delle cose. Dopo dodici giorni di cammino nella vostra Basilicata io giungo al suo capoluogo, in cui trovo raccolti i rappresentanti tutti della Provincia, la quale nella sua vasta compagine, nella sterminata distesa dei monti che volgono le proprie acque a tre mari, è veramente una Regione.
Vedo questa città di Potenza collocata qui ad ottocento metri di altezza sulla cresta di un monte, da cui guarda alle opposte convalli con pittoresca scalea di digradanti edifici che dovettero risorgere da un immane disastro, il terremoto del 1857. E Potenza è afflitta in buona parte da quei mali stessi che riscontrai in tutta la mia peregrinazione; peregrinazione alla quale mi risolvetti appunto perché questi mali erano stati dai vostri deputati segnalati eloquentemente in Parlamento, e perché questa mi era la più ignota tra le Province della penisola, come è, credo, la meno conosciuta in tutto il nostro Paese.
Può dirsi anzi che la Basilicata sia sconosciuta in gran parte agli abitanti della Provincia stessa: ché quasi nessuno qui io trovai che avesse visitato, avesse veduto i vari Comuni divisi fra loro da enormi distanze, non congiunti da vie di comunicazione. Sicché nella impervia Regione, quasi stranieri gli uni agli altri e perciò non cospiranti ad unico fine, sembrano gli abitatori che pur dovrebbero comporre una grande unità sociale.
E nessuna grande città in sì ampio territorio, motivo forse per cui di tempo errò nomade lo stesso capoluogo provinciale. Eppure quanto fu illustre la vostra nobil contrada! Da questo suolo Pitagora diffuse tanta luce di scienza, tanto apostolato di virtù; da questo suolo Zeusi mostrò, primo al mondo, il magistero della pittura; sorse in questo suolo la musa di Orazio i cui versi corrono immortali sulle labbra degli uomini colti di ogni nazione. E in tutti i tempi la Basilicata è stata ferace di splendidi ingegni, di caratteri sommi: basterà fra i moltissimi accennare appena i grandi nomi di Ruggero di Lauria, del venosino De Luca la cui effigie credetti doveroso fosse posta sulla fronte del Palazzo di Giustizia di Roma fra i quattordici più grandi giureconsulti, che da Irnerio a Romagnosi abbiano onorato la giurisprudenza; di Mario Pagano in cui è appena vinta dall’aureola del martire l’altezza del giurista e del legislatore.
E poiché accenno ai martiri del 1799 non dimentico che ad ogni passo della Basilicata vidi le scritte che rammentano alcuni di essi: dalla lapide a Cristoforo Grossi di Lagonegro a quella che ricorda Michele Granata in Rionero.
Queste lapidi commemorative illustrò l’amico Fortunato coll’alto intelletto d’amore che pose alla vostra storia; onde egli nei suoi scritti rammenta pure quei generosi i quali nel 1821 cercarono di risollevare la causa della libertà e morirono sul patibolo per essa, fra cui ardimentosi fra tutti, i fratelli Venita di Ferrandina, il medico Mazziotti di Calvello e Domenico Corrado di questa città.
E quanto al 1848, negli ultimi miei passi vidi a Venosa ed a Melfi dipinta la bionda testa di quel Luigi La Vista, in cui le più eccelse promesse d’ingegno e di scienza che il De Sanctis e il Villari attestano, furono troncate a ventidue anni dal piombo dei mercenari svizzeri il 15 maggio 1848 in Napoli, dove nella difesa delle barricate fra i più intrepidi combattenti trovavasi il giovane venosino. Né meno grandi dei sacrifici individuali furono gli eroismi delle guerre di popolo.
A questo riguardo mi è suggerito un riscontro che non debbo tacere, determinato in me dalla gratitudine per la quale i promotori del nostro convegno vollero porre nel centro di questa parete lo stemma della mia città e accanto al Leone di Brescia il Leone lucano.
Essi simboleggiano una grande fraternità fra la vostra e la mia terra: fraternità fondata sulla fede che l’una e l’altra ebbero, anche nei tempi più tristi, nei destini della nazione e sull’eroismo che esse mostrarono nelle guerre di popolo. Alle dieci giornate di Brescia, che splendidi riscontri in questa Basilicata! A difesa della repubblica partenopea i paesi della Lucania fecero prodigi di valore e fra tutte degna di canto epico fu la resistenza di Picerno, capitanata dai fratelli Vaccaro di Avigliano, difesa in cui, finite le munizioni, si fusero le canne di organo delle chiese, i piombi delle finestre, gli utensili domestici e in cui le stesse donne combatterono a fianco dei mariti e dei fratelli respingendo gli assalti nemici.
Nel 1860 poi la Basilicata, come ricordò l’on. Branca, prima ancora che Garibaldi passasse lo stretto di Messina, prese la gloriosa iniziativa della rivoluzione, sorgendo in armi Corleto Perticara ove da ogni paesello della patriottica Regione accorsero i combattenti, accorsero marciando su questo capoluogo di Potenza dove avvennero gli scontri dall’on. Branca indicati.
E liberata la provincia, quella prode brigata lucana che erasi formata per la popolare rivolta, passò a combattere strenuamente con Garibaldi nelle giornate del 2, del 15 e del 19 ottobre sui campi di Capua, dove si formarono le sorti dell’unità nazionale. Della storica iniziativa io già negli scorsi giorni ho più ampiamente parlato, ricordando gli animosi promotori; ma lasciate che anche oggi ripeta che prima fra essi, fu quel gentile che mi ha testè rivolto la parola, il Presidente del vostro Consiglio provinciale. Tutte queste prove singolari di valore attestano le virtù di questa gente; la sua semplicità, la temperanza, l’austerità; l’amore alla patria, il coraggio, il culto della patria.