Spiritus loci

date

1930

author

Baldini, Antonio

title

Nella patria del Parzanese: A. Baldini

summary

bibliography

  • «Corriere della Sera», 9 maggio 1930, p. 3.

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Nella patria del Parzanese

Ariano di Puglia, maggio.

Benevento-Foggia. Partito da Benevento con pochissima voglia d’arrivare a Foggia, alla stazione d’Ariano mi sono improvvisamente ricordato del Parzanese. Il pretesto m’è parso più che sufficiente e sono saltato a terra. La stazione d’Ariano è perduta tra i monti e dista dall’abitato cinque o sei chilometri, ma c’è una magnifica autocorriera verniciata d’azzurro che porta su in poco meno di mezz’ora.

Ariano di Puglia è un paese di Basilicata che tiene ancora d’Irpinia, vale a dire della Campania, e da un’altezza di più d’ottocento metri scopre un giro immenso di monti e pugliesi e basilicatesi e campani: una delle viste meglio centrate e più grandiose dell’Italia meridionale. Della salubrità dell’aria parlano i coloro che hanno stampati in viso i suoi bambini, e della intensità del traffico agricolo dà indizio il fenomenale concerto di ragli d’asino che si leva per tutte le strade al sol di maggio facendo vibrar l’aria d’una gagliarda ilarità. È un grosso centro senz’ombra di pretensioni cittadine, paese al cento per cento. Uomini e donne hanno il gusto dei colori più accesi e non c’è pericolo che la folla nel suo rimescolìo (è giorno di festa) faccia mai grigio. Noto uomini vestiti di velluto verdechiaro col cappello color viola o color tango e donne con fazzoletti rosa e arancione e calze di lana gialle e verdi: una bellezza.

Eccomi dunque cascato in questo pieno di folla paesana dai duri gomiti non per altro che per rendere omaggio alla memoria d’un poeta che in una storia letteraria togata come la nostra ebbe quasi cent’anni addietro la generosa illusione di potere, con la poesia, ammaestrare e consolare il popolo dei contadini e degli artigiani mantenendo vivi nei cuori (son sue parole) la fede nella provvidenza e l’amore al lavoro. «E se altri getta olio sui carboni, e noi ci adopereremo a spargere balsami sulle ferite dei poveri cuori; e se altri canta la disperazione e pone in mano le fiaccole e il coltello, e noi cantiamo le speranze…». Senonché le ottime intenzioni di Pietro Paolo Parzanese rimasero tali e la sua poesia s’impigliò nelle scuole elementari né giunse mai al popolo.

Ricordavo d’aver letto che sulla fine del secolo scorso una tipografia d’Ariano doveva avere stampato le opere complete di tanto concittadino. Passando perciò avanti a un negoziuccio che aveva qualche cosa della tipografia, ma più assai del botteghino del lotto, sono entrato a informarmi. Buon fiuto e felice ritrovamento: fondi Parzanese ce ne sono ancora; ed eccomi in possesso d’otto volumi, quattro di poesia e quattro di prosa (quaresimali e panegirici) usciti fra l’ottantanove e il novantotto, con fregi e vignette nel gusto dell’epoca. Un odorino di muffa e di cassetto chiuso punge acutamente le nari; e così ci durasse, ché par proprio l’odore stesso di quella poesia. Come ci sono delle poesie che anche nell’edizione critica hanno in sé le iniziali miniate, così quella del Parzanese ha in sé l’odorino di muffa. (Ad apertura:Tamburi francesi, suonate, suonate: Soldati francesi, le micce allumate!).

Col mio pacco d’otto volumi sotto il braccio continuo l’ispezione ed eccomi in piazza del Plebiscito dove la Guida vuol che sia il monumento al Parzanese. Pietropaolo non vedo. Vedo bensì fra due finestre una targa commemorativa del sesto centenario dantesco; ma non è Dante ch’io cerco ad Ariano. È come se in Vaticano chiedessi d’uno bussolante e mi volessero far parlare col Papa. Non sono preparato. Ritorno sui miei passi e arrivo al Municipio sulla cui facciata di qua e di là del portone, veggonsi due busti con lapidi, uno di Pasquale Stanislao Mancini e l’altro di Francesco De Sanctis, illustri figli d’Irpinia. Trascrivo le due iscrizioni. La prima dice: Mente larga come l’ampiezza dello sguardo – Anima aperta come la fecondia – Suggellò nel diritto eterno delle nazioni – La perenne vivacità del pensiero italico. E la seconda: Se il nome scolpito nel marmo – Non ti rivelerà l’uomo – Indarno i conterranei – Segnarono questo monumento – Alla memore venerazione dei posteri: che forse vuol essere una parafrasi del «tanto nomini» di Santa Croce. Qui cade in sesto ricordare che il De Sanctis ha consacrato un’intera lezione alla poesia del suo corregionale.

Dal Municipio, sempre cercando il monumento di cui parla la Guida, risalgo via Parzanese, ch’è la strada forse più quieta e d’aspetto più civile di Ariano, e la vista mi va subito a una casa d’un piano, a mano destra, tinteggiata di rosa, con un balconcino pieno di gerani fiammanti. Ci siamo, c’è una lapide, è la casa dove nacque e visse (per siglare alla Shaw) P. P. P. La lapide fu collocata tra balcone e finestra ventitré anni dopo la morte di Pietropaolo, nel 1875, per suffragio cittadino, a ricordo di un nome che suonerà imperituro e carissimo dovunque vi è senso del bello. Ma il più bello venne dieci anni dopo quando un Matteo Trombetti sciogliendo un voto del padre – Discepolo del poeta – Di cornice lapidea cingea – Questo marmo. Quanti cani, è il caso di dire, intorno un osso… Sull’arco della porta è una grande insegna di bottega: Caffè, naturalmente, Parzanese .

Ma dov’è il monumento? Adesso che ho visto dove il poeta stava di casa e ho preso un caffè «corretto» al Caffè del suo nome mi è cresciuta la voglia di sapere com’era fatto. Mi resta d’esplorare la parte alta, e poggio verso il Castello.

Oh la bella vista! Grazie, Parzanese: questo sì che si chiama fare gli onori di casa. Un panorama di questa ampiezza non ce l’ha avuto neanche l’autore del Canto del pastore errante dell’Asia. Da una parte ho tutto il paese aperto come un libro sotto i miei piedi con le strade che ci s’avvoltolano per arrivare quassù e vedo la gente che va e viene, entra ed esce, a piedi e a cavallo, coi suoi vestiti di colore, e il fitto dei carretti e dei calessini fuori dalle osterie, e il dosso pelato col campo della fiera, e ne vien su tutto mischiato il suono delle campane, il belato dei greggi, il mugghio dei bovi, le strida dei porci, il suono delle fisarmoniche e delle zampogne, e il raglio degli asini, tutt’in cielo; e dall’altra parte la Puglia comincia a mostrarmi i suoi monti disseccati dal vento di mezzogiorno:

incipit ex illo montes Apulia notos ostentare mihi, quos torret Atabulus.

Movendosi le nuvole sopra quel mare di montagne, ogni tanto il sole illumina bianchi scheletri di paesi sulle cime monotonamente verdi e uguali. Corona l’altura la mole enorme delle rovine del Castello normanno: e appena uno gira loro intorno dalla parte d’oriente perde d’udita il brusìo del borgo e non trova che la voce del vento. Là dietro, sopra uno spiazzo erboso tutto smaltato di margheritine d’una bianchezza di picchè inamidato, sorge, fra due conifere strapazzate dal vento, il piccolo monumento al Parzanese. È un busto in bronzo sopra un’alta e semplicissima base di marmo dove si leggono il nome e la data dell’inaugurazione, nel primo centenario dalla nascita: 1910. Ha un viso sbarbato, tratti placidi e regolari, e assomiglia, in bello, a Ernesto Renan. Ha i capelli lunghi e la cravatta annodata con una certa negligenza. Sorride bonario. È molto simpatico e ispira una gran fiducia.

Seggo tra i fiori e con un cartoncino incomincio a tagliare il primo degli otto volumi. Il vento mi dice sue parole nell’orecchio e ogni tanto dà una strappata all’arpa dei fili elettrici che passano fra il monumento e il castello.

Ho l’arpa al collo, son viggianese; tutta la terra è il mio paese… oggi d’Italia mi ride il cielo doman di Russia calpesto il gelo…

Mi passano sotto gli occhi vecchie, vecchissime conoscenze: la cieca, la pazza del villaggio, il cantastorie, il can barbone, il vecchio sergente, il fabbro ferraio, la boscaiola, il pastore, la zingara, il savoiardo, la tessitrice, il vecchio pievano, guerrieri con l’elmo piumato, il cacciatore, l’umile disgraziata e laboriosa gente del villaggio e insieme personaggi altamente romantici, Uhland, Hugo, Béranger trascritti per mandolino, Byron trascritto per ocarina, Bürger, Heine parafrasati da un curato che pativa d’insonnia. Un Segantini alla menta. Qualche volta sforza maledettamente la corda e dà nell’apocalittico-romantico:

oh fia dolce ad un’alma disperata de’ turbini fiammiferi sull’ale

(se i fiammiferi ci fanno ridere, non è però tutta colpa di P. P. P.)

aggirarsi nell’aëre e vedere avvallarsi la terra incenerita, spegnersi gli astri, rovinar la volta ampia dei cieli e gran silenzio farsi al cospetto degli Angeli e di Dio!

Ma più spesso la sua inguaribile natura di estemporaneo lo faceva zoppicare dalla parte opposta. E qualche volta lui stesso se ne accorgeva. «Qualcuna delle mie poesie mi è parsa un po’ slombatella..». Spesso e volentieri scriveva in una forma molto approssimativa, ma anche Berchet, Carrer e lo stesso Prati quando ci si mettevano non scherzavano mica. Poeta di sviluppo minimo, P. P. P. ebbe pure, innegabile, una sua tenue vena di poesia, affettuosa e sonoro. Forse anche la sottana di prete gli ha un po’ legato il passo.

M’han detto i paesani: tu sei bella, la capigliera hai d’or: fragola fresca e la tua bocca, o Stella, e non conosci amor?

Questo per la bionda; e per la bruna:

Se tu sapessi, cara brunetta, come il tuo negro sguardo saetta, pari a un’errante vaga guerriera faresti agli occhi una visiera…

Che idea! E più sotto:

Brunetta cara, non so se i baci sian come i guardi caldi, veraci. Dammene un solo, e s’io morrò per un tuo bacio, pago sarò. Se resto in vita, quel bacio in fretta io saprò renderti, cara brunetta.

-Perché tanta fretta, Parzanese?

-Semplice: perché la brunetta rima in fretta.

Seguitando a tagliar le pagine, cala dolcissima la sera e si sente una campana suonar lentamente, non si capisce bene dove. Quante campane anche dentro questi quattro volumi di poesia!

… tu sei la musica del poveretto che nel sentirti piange d’affetto: dig din, dog don, t’allegra, o povero, questo è il tuo suon… … A quel suono inginocchiati sul sentiero i villanelli riverenti han sollevati i lor logori cappelli.

Maniera; ma in quel «logori» c’è tutto il tuo cuore di buon poeta del villaggio. Vero? Pietropaolo non dice né di sì né di no. È abbottonatissimo.

Antonio Baldini

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