Tempesta e vento sui monti della Lucania
Non c’è difetto e vizio al mondo, che insieme a un danno non porti un vantaggio: il che probabilmente è vero, ma all’inverso, anche delle virtù e pregi. Di questa savia massima m’ero dimenticato per via della stizza patita, se qualche lettore ricorda il mio viaggio per la Toscana plùvida di pochi giorni or sono, quando un passaggio a livello in quel d’Arezzo mi fermava ad arbitrio e piacere delle sovrane Ferrovie. Infatti, l’indugio era esoso e mi faceva perdere un appuntamento, ma per altro mi fece assistere a un fenomeno raro e bellissimo. Di contro la Falterona e Pratomagno intenebrati e coperti dal temporale nero, la famosa valle dove Arno torce il suo cammino, era corsa da nembi e sfagli di pioggia dirotta e di nuvole luminose, pregne di acqua e di sole insieme. Su quel fondo nero e cinereo, brillava un arcobaleno, che di per sé, pur bellissimo sempre, nulla aveva di raro. Rara e singolare era per contro la rapidità dell’alternativa con la quale spariva e riappariva, si sfaceva e si rifaceva a piacere dell’estro pazzo e furioso e gaio di quegli erratici temporali particolari, davanti e dentro l’imponente cupezza generale del gran tempo nero. Era un’alternanza così lesta e vivace da riuscir bizzarra, e, come ho detto, estrosa. Pareva un arcobaleno incantato e prestigioso.
Un altro fatto che s’esperimenta viaggiando le strade italiane, per poco che si esca dalle principalissime, è la scarsezza e l’incongruità delle indicazioni stradali: e anche questo difetto mi procurò una sensazione strana e caratteristica, della quale parlerò poi.
Prima voglio dire di quei vasti campi in via di bonificazione agricola, che si stendono da Minturno a Mondragone, e poi fino a Cuma ed ai Campi Flegrei, lungo la Via Domiziana, resa praticabile e comoda recentemente. Qui non pioveva, ma era smesso da poco, e il Volturno, fiume «lavoratore», correva gonfio e limaccioso, ricco di terra appenninica. Un sole che non prometteva di durar molto, splendeva e luccicava su grandi pozze d’acque ristagnanti e sulla terra cupa e grassa, lavorata di fresco. I contadini vi vengono ancora a fare i loro lavori da paesi e dimore accentrate e distanti, sicché vi avevano quell’aria migratoria che la loro presenza sui campi assume in tante parti del Mezzogiorno. Li vedevo sarchiare, zappettare la gleba, curare piantagioni delicate, in più punti orticole, legar viti di vigneti appena gemmate, attorno e accanto al carretto e ai basti dei loro animali domestici. Erano come piccoli accampamenti, d’un giorno appena, ma bastanti a dar l’idea d’una loro abitudine nomade, appunto quotidiana da un giorno all’altro. Qualche cavalluccio, staccato dal carretto, riposava sulle quattro zampe bruciando biada nel fondo d’un sacco che talvolta, perché stiano più quieti, è legato al collo in maniera che v’abbiano dentro il muso e gli occhi. Ma molto più numerosi gli asini: immobili al breve sole, quieti, dimessi, savii, quasi viventi simulacri di una laboriosa pazienza secolare.
In Terra di Lavoro e in tutte quelle parti della Campania dove la fertilità e le colture sono antiche, fra l’arredo aereo e stupendo delle viti educate a salir sulle alte alberate dei pioppi, la campagna è folta e frequente e gremita d’umanità laboriosa ed allegra, che anima le strade, popola i campi e, nelle stagioni della legatura e della potatura e della vendemmia, anche quegli alberi, sulle altissime scale dei vignoroli.
Intanto, la Solfatara di Pozzuoli mi aveva fatto trasgredire l’orario che m’ero proposto. Tante volte che c’ero passato accanto, sempre, come succede, m’ero proposto di visitarla la prossima. Questa volta, che avevo meno tempo dell’altre, mi ci fermai, avendo sentito dire che è assai attiva, come succede nei periodi in cui il Vesuvio tace e sta in letargo. Infatti, su quel fondo di cratere, che a battere col bastone o con un sasso suona vuoto sotto i piedi, esigua crosta sopra vive lave, che lo renderebbero impraticabile se non fosse di materia refrattaria a trasmettere il calore, in più punti affiora nelle bollenti buche la lava e le pareti del cratere son fitte di fumacchi. E basta accostare una modica fiamma a una di quelle buche e fumarole, perché tutte, in largo giro, si animino e si attivino; come mai, non so, ma è un fenomeno sorprendente e, se si potesse dire, malizioso. Fatto sta che ho visto l’interno il cratere del Vesuvio con bocca eruttante mi sono affacciato alla gran voragine ardente dell’Etna, ho visto sul mare lo Stromboli arcigno, ma nessuno di cotesti grandiosi e terrifici spettacoli mi aveva mai data la sensazione dell’attività vulcanica, come cotesta, domestica, alla mano, direi bonaria e quasi scherzosa, della Solfatara di Pozzuoli. C’è una specie di solerzia sorniona e indaffarata, in cotesto bollente e lutulento rimangiamento che la materia terrestre fa di sé medesima in lava, stranissima a vedersi, così a pochi palmi di distanza. E se la campagna attigua e il felicissimo agro di Cuma debbono parte della loro mirabile feracità al diffondersi interno di tal calore, la cosa riesce sorprendente e quasi inquietante, per via di quel senso, ch’è proprio d’ogni grande o piccola attività vulcanica: ed è il senso d’un qualcosa di una forza incoercibile e imprevedibile, anzi irragionabile, tutta fuori com’è da quelle che a noi paiono regole stabili e razionali della natura nei nostri riguardi.
Così avvenne che persi tempo assai più del previsto e del conveniente, proponendomi di arrivare a Potenza prima di buio: tanto più che il tempo, sulle prime pendici appenniniche, durava e volgeva sempre più al tempestoso.
Le solitudini, solitarie d’inverno e a sera sempre, anche dove sono coltivate, della montuosa e avvallante Lucania, hanno una bellezza, specie col tempo cattivo, talmente austera ed arcigna, che sembra di partecipare, considerandole, al sorgere antico delle italiche figurazioni religiose, e di coglierne la radice nativa e naturale, terricola, climatica, fulgurale. E già, benché sia ancora inverno, fulmini solcavano, sulle alte vette caliganti e tempestose l’immane nuvolaglia scrosciante, in cui il vento ogni tanto apriva qualche rapido varco all’ultimo sole del giorno.
Un altro aspetto della nostra labilità, e fisica e razionale, mi apparve entrando in una zona che un avviso ammonitore definisce «delle frane». La pioggia, proprio lì, s’era rifatta torrenziale, a nubifragio. L’ultimo lume del giorno, bigio e cupo, e bastava appena a discernere i mille corsi gonfi e frenetici di acque gialle e rugginose, rivi e rigagnoli e fossi e fiumare, che si moltiplicavano e inturgidivano giù dalle pendici scoscese, e in fondo ad ogni avvallamento straripavano, allagavano, impaludivano. In più tratti le acque sormontavano il margine della strada e l’attraversavano in maniera non troppo rassicurante. E quel giallo di terra, di cui erano cariche, e quel loro andamento erratico e prepotente, davano anch’essi il senso timoroso di una forza irriducibile, ribelle e quasi ostile alla ragione, o più veramente alle nostre convenienze d’animali terricoli. In particolare, dicevano quanto sia aspra e difficile, nella sua maggior parte, la severa terra italica. Ed era come se l’austerità della sua bellezza, ch’è forse, in Lucania, la più erma e severa, fosse stata ordinata ad ammonircene: così come ispirò le religioni pagane italiche. E c’era come una crudeltà della natura in quel travolgersi con le acque gialle di tanta terra fertile, già così scarsa su quei monti, verso fertili piane tirreniche e adriatiche e ioniche.
Mi trovai, ch’era buio, ancor lontano da Potenza assai strada e un’infinità di svolte e saliscendi, mi trovai al quadrivio della Sella di Conza, e il nubifragio rendeva più disgradevole la lettura delle indicazioni stradali, disposte, al solito, in modo che i fari automobilistici tardano o stentano a illuminarle, e in posizioni che servono sopra tutto, specie di notte, quando si sia già imboccata la via giusta.
Fui dunque costretto a fermare e a scendere, per decifrarle. Non fu comodo, ma utile a farmi conoscere che cosa sia il vento su quei mille frangivento e spartivento, su quelle foci e crinali dell’Appennino lucano. Buttava dal mare, libeccio feroce, ma che aveva già fatto a tempo a freddarsi, rigido. Non si dice nulla, dicendo che tal vento attraversa i panni: esso fruga addosso, con un piglio, ad un tempo, insinuante e rapace, lesto e pesante, che tira a spogliare dei panni, e fa sì che uno si sente preso di petto, gravato di spalle, avvinghiato e scrollato. E il vento urla e fischia come per una sorta di prorompente e selvaggia esultanza demoniaca di una forza che aduna in sé vigore del mare e vigor terrestre, ad aspreggiare la vita e la fatica dell’uomo sulla penisola severa.
Mi par da attribuire anche a una virtù educatrice di cotesta natura, oltre che ad altre virtù di buoncostume, di civiltà, di religione, il fatto d’essermi sentito assicurare da più persone, arrivando nella lucana Potenza, che potevo lasciar valigie e indumenti nell’automobile e davanti la trattoria e poi sulla strada davanti all’albergo tutta notte, incustoditi, tranquillamente, perché in cotesta città nessuno tocca nulla della roba d’altri. In altri termini, com’ebbe a dirmi uno di quei cittadini, questo c’è di buono in Potenza: che non ci sono ladri.
E non importa dire che un portato così raro, e direi anzi più unico che raro, non deriva davvero da benessere generale, che renda disusato perché superfluo il furto. Prima di tutto, cotesto beneficio del benessere è un’utopia e un’illusione della morale utilitaristica; ma, poi, è purtroppo certo e noto quanto sia raro e scarso il benessere nel nostro paese in genere e nell’Italia Meridionale specialmente. Si tratta dunque di virtù civile e morale, di una severità e dignità del costume, a cui ha contribuito anche la severità naturale della terra.
E direi, ripensando alla Sella di Conza, che v’ha contribuito anche e perfino il vento rigido e feroce, se quel che m’è stato accertato in Potenza non mi disponesse, assai più che a voglia di scherzare, a un sentimento di ammirazione e di rispetto verso una città dove c’è questo di buono: che nessuno tocca la roba degli altri. Prima di trovarne un’altra, credo che si possa girar molto mondo: pisciare in molte nevi, per dirla col gran Machiavelli della Mandragola
Riccardo Bacchelli