Spiritus loci

date

1945

author

Giagni, Gian Domenico

title

Emigranti in penisola: G. D. Giagni

summary

bibliography

  • Aretusa, a. II, n. 8, novembre 1945, pp. 63-67.

teibody

EMIGRANTI IN PENISOLA

di

GIAN DOMENICO GIAGNI

«Ancora terre straniere orse ci accoglieranno; smarriremo la memoria del sole, dalla mente ci cadrà il tintinnare delle rime … e serberemo un’eco della tua voce…»

MONTALE

Nell’ottobre del ’43 per la prima volta incontrai un emigrante. Molti anni prima, sulla scala davanti alla discesa della Piazza Grande a Ruoti, mia nonna mi aveva parlato di emigranti. Mi parlava ogni sera, quando al Carmine iniziava la funzione serale con la benedizione, e dopo che zia Peppina Cappuccio si rintanava nella stanza al buio e aspettava, con gli occhi socchiusi per timore di non riaprirli più, che l’alba filtrasse attraverso i vasi di gerani e le lunghe trecce di agli. Zia Peppina non voleva che si parlasse di emigranti per via di suo marito e del maggiore dei suoi figlioli che erano andati via prima dell’altra guerra e non sapeva se erano morti o vivi. Anche gli altri s’erano allontanati, partiti, emigrati; la vecchia si rodeva, a mia nonna al contrario pareva di scoprire tanti mondi nuovi, il fuoco le si accendeva sulle gote, gli emigranti non avevano nomi, gesti, timbro di voce, li raccoglieva nella memoria e nella fantasia, me li portava avanti come idoli tenuti nascosti per anni, forse da secoli, nel fondo della sottoveste scura, insieme al rosario e alla chiave delle grotte. E così questi uomini, che partivano o che da molte diecine di anni erano partiti, entravano in me, nella squallida attenzione della mia età giovanile, uomini superiori, eterni, senza volto, lontani dai nostri buchi scavati nelle pietre, eppure, - mi diceva la nonna - erano di Ruoti, di Rapone, di Corleto, di Pietrapertosa, di Avigliano; contadini, muratori, becchini, falciatori, calzolai, sarti, ortolani.

Ho trovato l’emigrante, forse non quello di mia nonna, ma emigrante lo stesso, i figli eguali, come Bandini di Fante il lucano, come La Rocca di Saroyan l’armeno, come i duri uomini di Di Donato l’abruzzese. L’emigrante in penisola.

IL FENOMENO dell’emigrazione, vecchio quanto l’uomo, assume per noi un particolare valore da meno di un secolo a questa parte. L’espatrio a scopo di lavoro caratterizzava questi larghi abbandoni in massa dei propri paesi, delle contrade, delle borgate. Dalla Sicilia, dalle Puglie, dalla Lucania, dalla Calabria, dalla Campania, con i fagotti sopra il dorso, e con le mogli con i santi sotto gli scialli e le arance e la salsiccia nelle scatole di cartone, vendevano i muli, all’entrata del paese e arrivavano a Napoli, a Palermo, a Genova, ingaggiati come bestiame da sedicenti società dai nomi stranissimi: Papparelli, Scartoff, Vaitemé. E moltissimi, i più deboli o i più ingenui, non partivano e, truffati, piantarono la casa in quelle città e l’espatrio diventava interno, l’America per questi fu Sampierdarena, Baia, Acireale, non tornarono ai paesi per orgoglio o per vergogna.

«La libera e pacifica circolazione di uomini da un paese all’altro determinata dal dislivello tra le condizioni economiche esistenti nei paesi stessi; le emigrazioni costituiscono una delle funzioni permanenti dell’organismo sociale, in quanto attenuano i locali squilibri tra densità di popolazione e risorse naturali, e si devono considerare come una necessità dello sviluppo demografico e del progresso umano.»

Ma questo a loro sfuggiva, creavano formule senza saperlo, non sapevano di «squilibri» e di «risorse», portavano nelle loro azioni una responsabilità, inconsapevolmente. (Quando Nicola Pizzuto, si diceva a Ruoti, giunse al porto con l’immagine della Madonna del Carmine sotto l’ascella secca per la vecchiaia, cadde e il vetro si ruppe e urlò che gli portava scalogna senza il vetro alla Madonna; si tolse le scarpe e si sedette sul molo e immerse i piedi nudi nell’acqua gelata. V’era la luna in quella notte d’autunno e il vecchio disse che sarebbe tornato volentieri dalla figlia, al Biscone, se non fosse per via di quella parola che aveva sulla carta - non riusciva a dire «emigrante» - e che lo inteneriva. Fu così che partì e mia nonna disse che laggiù restava tutto il giorno seduto al sole davanti ad un drug-store, con la Madonna al fianco, e gli portavano da mangiare e da fumare e lui cantava: Tu si signora i so gran signore, - Tu si regina e te so re davante, - Tu si la luna cu li stelle ‘nfronte - I so lu sole ca te passa avante).

La vecchia storia della ricerca del lavoro assunse pochi anni prima dell’altra guerra cifre enormi; gli uomini tra gli stracci e il puzzo di tabacco s’accalcavano sui porti, scendevano a New York, con le arance e la salsiccia, e cominciarono a bestemmiare a East Side mentre Ziegfeld a Broadway insaccava tra cascate d’argento migliaia di fanciulle. East Side, Bronx, migliaia di voci, di dialetti, caldi, carnosi.

È CURIOSO come Rocco La Cava sia della stessa altezza di suo zio che in una traversa di Via Meridionale vende spago, cuoio e canestri di vimini. Rocco è nato ventotto anni fa nella periferia di New York da Pasquale e da una Laraia di Corleto Perticara. E questo non è strano, ci si ritrova un po’ tutti, laggiù, se non dello stesso paese, della stessa regione; per lo meno i gusti debbono essere gli stessi, la cucina, le preghiere, i Sepolcri nel Giovedí Santo, le calze di filo doppio rosso e verde. Infatti questa legge è creata dagli istinti e dalle abitudini prettamente meridionali; non so se ai matrimoni in una chiara casa di legno di italiani a Pittsburg offrano agli invitati panini con provolone e prosciutto, se la madre dello sposo il giorno prima delle nozze abbia portato la pianta di basilico alla sposa, e l’abbia pettinata con gesti sacri e posati; se questo succede, ancora una volta gli uomini non avranno timore di rinnegarsi davanti alla storia, qualcosa li stamperà nei secoli, in eterno. Questi piccoli uomini ambulanti che non arrivano mai, ogni giorno si scoprono eguali, si rivedono nelle pupille dei loro figli e dei nipoti. Non sono mai partiti da Rapone, da San Nicola, e s’affannano nel fare intendere agli altri che è stata l’America a venir loro incontro ed essi hanno sistemato le case, i Santi nei buchi, con i fiori di carta, il tino fuori l’uscio; il tufo ha ceduto al legno, la creta all’alluminio, l’acetilene all’elettricità.

Io penso che questi uomini hanno dato al mondo il sapore della provincia americana e i pionieri, i nomadi, i cercatori d’oro, partivano, speravano, costruivano città di legno dopo aver osservato attentamente i piccoli italiani dalla pelle rugosa e dai baffi scuri che spiovevano sulle labbra. Forse avevano imparato anche a cantare dagli italiani (Swanee River, La Vecchia Casa del Kentuky di Foster si reggono su un tema dolcissimo di musica romantica come certe composizioni popolari antichissime della LucaniaLucania; gli spirituals, le Consacrazioni del negro Nataliele Dett riportano alla memoria i canti liturgici alle feste del Patrono nei paesi siciliani, calabresi, lucani; i cori dietro i tabernacoli nel giorno dell’Ascensione.) Ne è venuto fuori un simbolo, di città, di provincia; la grande America ai nostri occhi non si regge sui tentacoli delle immense città commerciali, industriali, di divertimento, ma sulla provincia, sulle cittadine polverose come poteva offrircele in pasto Verga, col sole sulle verande e i fiumi nel fondo della roccia, un Aci Trezza sul Pacifico, un Baragiano in Oklahoma, e, come diceva S., una maestosa e serena «Grande Basilicata», questa America degli emigranti, dove i paesi restano intatti nel cuore della metropoli, i dialetti s’ingarbugliano e divengono uno, come dice Anthony M. Gisolfi, l’italo-americano, l’anglo-napoletano, l’italiano di New York, e per me il moliternese-floridiano, il melfitano di San Francisco, il rionerese-californiano.

È VENUTO Rocco La Cava con questo slang sulle labbra; il figlio eguale alla nostra riva è giunto come giunse il padre alla banchina americana; con la stessa indifferenza. Anzi, osservando bene, l’indifferenza va oltre; Roma, Milano, le grandi città non esistono, e se esistono non possono intaccare l’ingenua impassibilità di costoro che vivono sotto il Rockfeller Center e sulle Dighe del Tennessee, ma non si curano dello sviluppo della civiltà, un fatto come l’altro questo, come la consigliera del nonno e la sartoria del padre. Lo so perché ho vissuto con la mia gente venuta nelle grandi città per servizio militare; e di San Pietro ricordano qualcosa: una vecchia che vendeva ceci sotto il colonnato del Bernini. Ignoranza? Non direi; disinteresse umanissimo. Da Rocco ho appreso quanto siano vicini a noi questi venditori di frutta, macellai di Chicago, rosticcieri in Bronx; non capisco come abbiano ceduto a calzare stivaletti di camoscio e a masticare gomma, quando hanno i padri che prima di chiuder bottega, la sera, segnano tre croci sulla soglia: è buona fortuna. Il naturale linguaggio che parlato da questi figli di emigranti dà un odore di casa, di vigne, di forni, di piazze con ciottoli, è la più santa giustificazione per sentirli vicini e dare loro il battesimo che non sia quello avuto precedentemente nella chiesa cattolica del quartiere di Italiani, ma quello «nostro» con le candele in mano a ragazzi sporchi con i piedi umidi di terriccio bagnato e i padrini con danari pronti per il sagrestano.

È inutile rifarsi ancora una volta alle abitudini, sebbene queste restino per noi le prove più singolari per riconoscerci l’un l’altro, nella più minuscola stilla di sangue, o nel fiotto violento, sulle nostre mani, sugli anni dolorosi di questa nostra seconda giovinezza. Non facciamoci eccessive illusioni: hanno la nostra stessa inquietudine, figli di contadini e di provincia, e lo vedemmo leggendo Fante, scoprendo nel nipote di Nonna Toscana le nostre ansie, e me ne accorsi giorni fa sfilando i versi del giovane poeta italo-americano Emmanuel Carnevali: «La morte porta via le cose: Io qui nelle mani ho solo Stracci.» -«Ho fatto fiasco. Ma non son debitore a nessuno.» (In verità sembrano le strofe di tristi serenate di dolore e di dispetto sui muraglioni dei nostri paesi nel mese di giugno Solo, mezz’alla strada, Cu la luna sopa li dita - Donna lu tue giardine nge so state, Colta me l’agge la migliore rosa. L’agge colta e me l’aggia addurata, Manche lu giardiniere l’ha veduta.)

Oggi restano tra di noi e ci invitano a coversare come fanno loro, lo slang dell’italiano di New York, e al sangue al dialetto alle abitudini ai gesti uniscono una luce nel profondo degli occhi scuri, come quelli di mia nonna quando sulla scala davanti alla discesa della Piazza Grande mi parlava di Nicola Pizzuto e delle migliaia di emigranti che erano partiti lasciando un cero al Carmine, la stalla e una camicia di flanella, a toppe, nell’ultimo tiretto del cassettone. A lei, quando la rivedrò, dovrò mentire; dirò che gli emigranti non sono mai esistiti, ed è un bel gioco ingannare i ragazzi costruendo fantasmi e farli addormentare come cani sulle scale davanti la porta di casa.

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