Spiritus loci

date

1932

author

Civinini, Guelfo

title

Chiacchiere con le ombre: G. Civinini

summary

bibliography

  • «Corriere della Sera», 19 agosto 1932, p. 5.

teibody

Chiacchiere con le ombre

Monticchio sul Vulture, agosto.

La romantica bellezza di questa chiusa conca del Vulture ci si scopre sotto tutto a un tratto così inattesa e inimaginata, che l’abbarbagliata commozione è subito come frenata da una punta di diffidenza. Davvero non ci si aspettava tanto da un vecchio vulcano spento. Affacciati all’orlo della gran fossa serena, tutta tappezzata di foreste dal cielo ai due laghetti gemelli che occhieggiano nel fondo, tutta smagliante di tutti i verdi del regno vegetale dal bronzeo dei vecchissimi alberi alla giada delle tenere erbe acquatiche, tutta piena di canti come un’uccelliera e insieme di silenzio, si rimane lì fermi, svagati, incerti. È bello, bello: ma è anche qualche altra cosa che non riusciamo ad afferrare. Un po’ esitanti discendiamo. La strada ruzzola giù ripida serpeggiando, si tuffa in quell’imbottitura verde. Il cielo ogni tanto scompare, non si vedono che alberi ed erbe, e giù in fondo uno specchio d’acqua che ci attira e ci tiene ansiosi. Non fosse la sterratura della strada, e più che questa il vecchio convento che si riflette nitidissimo nell’acqua verde del lago minore, si direbbe che questo è un angolo di mondo, un nascondiglio della terra, che l’uomo ancora non ha scoperto. Ecco che cos’ha, oltre ch’esser bello: sembra lontano, lontanissimo dalla terra dei mortali. L’Eliso, potrebbe imaginarsi così. Ma anche l’Erebo. Oppure l’uno e l’altro. Sopra, per i beati, l’altra voragine verde, tutta sorriso e chiarità. Sotto, l’abisso d’acqua, immobile, lucido, misterioso, che scende chi sa dove. L’acqua è profondissima, nel lago piccolo, che è il vero antico cratere: poi comincia il limo, che pare senza fondo: poi chi sa, forse il fuoco ipogeo ancora, e il regno di Proserpina. Qualcuno che c’è affogato non è tornato più su. Dio, sparire così, con negli occhi tutta quella gioia di verde!

Ecco che cosa c’è oltre la bellezza creata dalla natura: quest’ambiguità, questo vago senso d’insidia. Bello, bello, bello. Ma guardate i roccioni nudi che strapiombano fuor dalla selva sui tetti del rugoso convento, e l’idea che il vecchio vulcano possa scuotere ancora una volta le spalle vi mette dentro un brivido. Guardate il piccolo lago che ogni tanto misteriosamente trascolora, e pensate all’orrore che vi coglierebbe se ad un tratto lo vedeste ribollire, gorgogliare, fumare… Però, che meraviglia di luoghi. Oh, i bei castagneti! Alt, ragazzi. Giù le tende. Sarà un campeggio di paradiso.

***

Così, sono qui, e non so quando me n’andrò. La sera viene quasi sempre qualcuno a trovarmi e a far chiacchiere sulla soglia della mia tenda, piantata a mezza costa della conca, con sotto il lago, e sopra e d’attorno il bosco. Vengono non so di dove. Sbucano a un tratto dalla nebbietta cilestrina che sale dall’acqua addormentata, s’avvicinano, salutano. L’altra sera venne un diavolaccio barbuto, con un fucile a trombone a tracolla, in testa una feluca piumata, ciocie ai piedi, giubbetto di velluto aperto sul petto peloso, scapolare al collo sudicio. «Sono Crocco, - disse. – Carmine Crocco, il generale di S. M. Francesco II, il conquistatore di Melfi… Vuoi vedere la mia grotta? Poi mi darai una mancia». Sbuffai a ridere. «Se non te ne vai ti prendo a pedate». Il vecchio brigante sorrise sdegnoso, poi ringhiò: «Bella forza, ora che son morto. Settant’anni fa, dovevi dirmelo…». Rimasi interdetto, e stavo per dire: «Forse hai ragione». Ma quello non me ne lasciò il tempo. «Addio , piemontese! – mi fece. – Un giorno ci ritroveremo, là dove anche tu verrai, e allora ne riparleremo…». Voltò le spalle, si allontanò, a gran passi, con aria spagnolesca. Quando fu vicino alla tettoia della cucina si guardò attorno un istante, fece un balzo, agguantò quel che gli venne sotto mano, una pentola, una padella, un fornello a petrolio, un pollo spennato, e scappò nell’Aldilà.

Stasera è venuto Orazio, dalla vicina Venosa. Non mi aveva visto. Se ne veniva su pel viottolino della scorciatoia, piccoletto, grassottello, panciutello, con pochi ciuffi di capelli grigi a cornice del cranio pelato; e la salita gli dava un po’ il fiatone. Allora si è fermato, e l’antica amarezza degli anni tardi gli tornava su, con le parole che aveva rivolte a Mecenate e che ora risospirava: «…Reddes forte latus, nigros angusta fronte capillos, reddes dulce loqui… Rendimi, Mecenate, i buoni polmoni, e il nero crine sulla fronte bassa, rendimi i dolci accenti…». Guardava il lago, gli alberi, il cielo, e scuoteva il capo. Sottovoce, dalla mia sedia di tela su cui stavo sdraiato, ho continuato: «… Reddes ridere decorum…». Di colpo il Poeta s’è voltato, m’ha visto. Per un attimo un’ombra di fastidio gli ha velato il viso, ma subito s’è rischiarato. «Non temere, - gli ho detto, - non sono lo scocciatore della Via Sacra…». Sorridendo ha risposto: «Oh, lo so bene. Ti riconosco. Tu sei Bullazio». Dentro di me ho sentito come una musica d’echi, lontanissimi, risonanti in quel nome. «Bullazio? – ho risposto. – Ti sbagli, Poeta. Il mio nome è un altro». Ma Orazio continuava a sorridere e scuoteva il capo: «Non sbaglio, dulcissime. Sei Bullazio, il mio caro vagabondo Bullazio. Almeno lo eri, ai miei tempi. Ora non so come sii rinato e con che nome; ma sempre sei quello. Ti riconosco. Ricordi quel che ti dicevo nell’undicesima delle mie epistole, quando te n’andavi in giro per l’Egeo a cercare chi sa che?».

Suggerite da una memoria che non era la mia, ho mormorato inconsciamente le parole di quei versi. «Quid tibi visa Chios… notaque Lesbos …».

Orazio ascoltava, dondolava il capo al ritmo, sorrideva assentendo. «Bene, bene. Vedi, anche tu ricordi… che ti è sembrato, o Bullazio, di Chio, e della famosa Lesbo, e di Samo elegante…». Poi si è seduto vicino a me, su un’altra sedia uguale alla mia, e mi guardava. «In fondo, - ha ripreso, - non sei mutato gran che da allora. Non fossero questi strani panni che t’incortecciano, anche le nostre belle amiche così facili a dimenticare t’avrebbero riconosciuto a prima vista… Ma ora, che ci fai tu, da queste mie parti? Cerchi ancora, per questi boschi della mia Lucania, l’introvabile bene, che allora rincorresti invano qua e là per il mondo? Oh, Bullazio incorreggibile, ricorda quelle altre mie parole che pur ti scrivevo. Coelum, non animum mutant, qui trans mare currunt. Mutano di cielo, non di anima, quelli che fuggono oltremare. Strenua nos exercet inertia. Un’attiva inerzia ci sospinge; oggi come allora. Sulle navi fumanti oggi, e sulle macchine fragorose che corrono le lucide vie, come allora sulle triremi e le quadrighe, gli uomini vanno ancora alla ricerca del bene della vita. Oh, amico Bullazio, il tuo bene è sempre con te, ed è dove tu sei, animus si te non deficit aequus…».

***

S’era fatta già notte, e il buio faceva più pacati e lievi i nostri discorsi. Mi sono accorto a un tratto che si parlava latino, e m’è venuto da ridere al ricordo delle mie bocciature ginnasiali. Ora mi veniva su così, non so come. Ma era quasi sempre Orazio che parlava. Passava alle volte, diceva, intere notti a vagare attorno alla sua Venosa. «Sai, non c’è più nulla di ciò che lasciai quando col mio buon padre presi la via di Roma, la via Herculia che passa laggiù sotto, di là da quei boschi, e traversa l’Ofanto, l’Aufidus tauriformis, su un ponte che c’è ancora… Oh, era molto più bella, allora, la mia Venosa, malgrado tutti i soldati lezzoni che ci accampavano attorno. Chi sa poi che cosa è accaduto. Coi rottami dei suoi monumenti hanno voluto costruire non so che, una specie di basilica, che poi è rimasta a mezzo: un rudero fatto di ruderi… Ma quando ci giro attorno riconosco qualche pietra, e allora mi ci intenerisco un po’… Mi rivedo bimbo, bimbettaccio, animosus infans, come quando scappavo pei boschi fra l’alta Acerenza e la fonte Bandusia, e m’addormentavo senza alcuna paura di belve né di serpenti, già protetto dagli dei e dalle amiche Camene… A proposito, anche tu a quei tempi, amico Bullazio, quand’eri stanco di girare il mondo, scrivevi [certi] tuoi versicoli alla maniera greca, cioè sulle mie orme… Ora che fai?». Stringendomi nelle spalle ho risposto: «Scrivo ancora, ma non più versi. Racconto, in prosa, quel che vedo in giro. Qualcosa all’incirca, si parva licet, come ciò che tu facesti dopo il tuo viaggio a Brindisi…». «Ah, bene, bene. E anche ora sei qui per questo?». «Appunto. Per scrivere, poi, di queste belle tue selve…». «Ah, belle, sì! Ai miei tempi lo erano anche più, assai più. Io ne cantai le tremule ombre, le frescure amiche, i recessi cari alle Pieridi, in strofe che ancor corrono il mondo… Poi, nei secoli che vennero, le vidi giù giù decadere, diradarsi, abbandonate alla furia degli uragani e alla bestialità degli uomini. Passavo di qui e mi si stringeva il cuore… Ma or è poco altri uomini son giunti, che vestono panni come i tuoi, brache come queste, tunichetta nera come questa, nigra subucula, e si son dati a ripiantare alberi, a sorvegliarli, a curarli… Chi sono?». «Camicie nere, si chiamano, Orazio. Legionari delle selve». «Bene, mi piacciono. Grazie ad essi queste mie vecchie foreste rivivono. Anch’io, ricordi, piantai una volta un pino in onore di Diana, vergine protrettrice dei monti e dei boschi. Montium custos nemorumque, virgo… Eh, bel verso!».

Due, tre volte se lo è ripetuto, quasi cantandoselo, con una bella voce tenorile. A un tratto è scattato in piedi. «Miseri noi, chi arriva!». Dallo stesso suo sentiero saliva su una altr’ombra, in elmo e corazza. Il venosino m’ha fatto cenno di parlar piano. «Silenzio. Speriamo che non ci veda e passi oltre. È peggio di quel della via Sacra, costui. È Claudio Nerone». «Tiberio?». «Ma no, sai, quel console, quello del Metauro… Bravo soldato, ma noioso! Va a Venosa, al solito. Tutte le notti è lì, si ferma dov’era il vallo del campo d’Annibale, e grida: Ecce frater!, e fa l’atto di buttar di là qualche cosa… Sai bene, la testa d’Asdrubale. Se t’agguanta e ti comincia a raccontare, sei fritto… Ah, meno male. È passato».

L’ombra, alta, forte, facendo gran gesti, s’era dileguata fra i castagni. Orazio ridacchiava. «A sentir lui, senza il suo valore, Roma era finita fino da un secolo e mezzo prima che io nascessi. E me lo diceva, una notte che non potei sfuggirgli: - Caro Orazio, senza quella mia grande vittoria anche tu saresti nulla. Roma non c’era più, e tu saresti rimasto al tuo paesello a fare il figlio dell’esattor di gabelle… - Ti dico, un vero scemo millantatore. Del resto, tutti sanno che di quella sua famosa vittoria metà del merito spettava al Salinatore; e l’altra metà, stanne pur sicuro, fu dei suoi soldati. L’avrei voluto vedere, con delle legioni scalcinate come quella che mi trovai a dover comandare a Filippi… O Giove, che è? Ritorna? Ah, caro, io me la batto. Vale!».

Claudio Nerone era riapparso, ma più in basso. Ancora gesticolava. La luce delle stelle gli si specchiava sull’armatura. Un attimo si è fermato, e subito ha ripreso a discendere, finché la nebbia del lago l’ha ingoiato. Mi son volto allora a cercare il Poeta. Anch’esso era scomparso.

Guelfo Civinini

notes alpha

    notes int