Spiritus loci

date

1949

author

Russo, Giovanni

title

Strade di Lucania: G. Russo

summary

bibliography

  • «Pirelli», n. 4, 1949, p. 31.

teibody

Strade di Lucania

Passati gli anni della guerra, finito il contrabbando delle lattine di olio e dei sacchi di farina nascosti nelle carrozzerie eleganti, dalle nostre parti vengono ogni giorno di meno le automobili della città. Siamo rimasti con le nostre vecchie balilla allineate sulla piazza principale, i vecchi autocarri raffazzonati con l’aiuto di quattro tavole ben segate, i Dodge alleati che fanno un rumore di caldaie sbattute quando precipitano per le vertiginose discese.

Con questo non voglio dire che non ci siano anche delle macchine lucide e nuove: le macchine degli avvocati e degli ingegneri. Ma esse escono una volta tanto dal garage. E anche i grossi camions, che i mercanti hanno sostituito ai vecchi scassoni abbandonati vicino alla stazione, sotto la tettoia di latta arrugginita, non restano sulle nostre strade. Partono per Napoli, per Bari, per Roma, per Milano, vanno e vengono sulla Nazionale come gli autocarri dei commercianti del Centro o del Nord Italia che arrivano per caricare le botti del nostro vino aspro e ripartono subito la notte col rombo forte dei motori, lasciandoci ben presto da parte, per slanciarsi sugli asfalti della Campania. Ma sulle vie polverose che portano ad Accettura o a Corleto Perticara, sulle sassose strade che circondano le montagne sotto Albano o Pietragalla o Trivigno o S. Chirico Nuovo, sulle lunghe salite che raggiungono Latronico, Marsiconuovo, Chiaromonte, Tricarico, queste macchine passano di rado, e, quando passano, corrono come lepri spaventate.

Queste sono le strade delle vecchie corriere azzurre, stipate di donne dagli scialli rossi con le frange che sventolano dai finestrini e di uomini che tengono fuori con il braccio il paniere colmo di uova per evitare che nella ressa sia tutta una frittata.

Qui passano macchine stranissime: vecchie automobili a sei posti, dipinte di giallo o di verde cupo, con il volante lungo fino al mento del guidatore, balilla che non hanno più colore se non quello grigio della polvere che ci si è accumulata da anni e che ronfano con un mormorio simile a quello del torrente che fa nei burroni lo stesso cammino, autocarri che hanno i copertoni ripieni (vecchi copertoni Pirelli che fanno ancora dopo venti anni il loro dovere) e uno sterzo capace di muoverlo solo il contadino che prima di guidare maneggiava la zappa.

Su queste nostre strade che odorano a primavera di ginestre, perché tutte le nostre montagne fioriscono di gialle ginestre (un odore che stordisce) è possibile incontrare i vagabondi che camminano affondando i piedi scalzi nella polvere, il pane giallo avvolto in un fazzoletto appeso al bastone sopra la spalla. Essi sollevano appena il capo al rumore di una macchina e hanno lo sguardo sperduto dietro i loro pensieri. Poi il bosco si annuncia d’improvviso e l’aria si fa fina e lo stormire delle foglie un dolce suono. Qui si fermano e siedono sotto gli alberi; puliscono le mani con le frasche colme di linfa e si dissestano masticando i gambi teneri delle foglie.

Per queste strade salgono d’estate i pellegrini ai santuari, alla Madonna di S. Arcangelo; gli uomini, le donne, i bambini, i vecchi, i muli, gli asini, i cavalli. La gente cammina parlando sottovoce e c’è chi porta in mano un cero dorato. I cani corrono su e giù, abbaiando lungo il corteo. Quando è passato restano piene le valli dell’eco di quelle voci. Brillano a terra le pettinesse tempestate di pietruzze cadute dai capelli delle giovani contadine, accanto ad una vecchia bisaccia floscia abbandonata dal frettoloso viandante.

Ma d’inverno le strade si riempiono di nebbia e diventano serpenti pronti all’insidia. Ogni curva offre l’abbraccio della morte, ogni cento metri la «S» del pericolo si leva dinanzi al guidatore.

E spesso franano, si perdono come un rivo di acqua dolce, riassorbito improvvisamente dalla terra.

Allora i paesi guardano disperatamente dall’alto con i loro castelli diroccati che sogghignano e dalle vuote occhiaie volano i nibbi a curiosare sul passeggero fermo sotto la montagna. Egli sente il richiamo triste dei campanili e il grido del pastore che riunisce il gregge disperso e gli viene incontro guardandolo con i suoi occhi colmi di meraviglia. Le pecore e le capre gli passano accanto e si arrampicano per il tratturo verso le case. A lui tocca tornare per le stesse curve ripide e tortuose e forse la notte lo coglierà in cammino.

Poi cade la neve e si vede come siano effimere queste strisce bianche faticosamente tracciate lungo i burroni o sui fianchi ripidi delle montagne. Scompaiono e sembra che non siano mai esistite; i ponti, che la guerra ha minato crollano sui torrenti, la solitudine riprende palesemente possesso di quei luoghi che sono dedicati a lei. E sembra che sia giusto così e che Albano e Pietrapertosa, quando il sole è ritornato nel cielo terso, debbano eternamente guardarsi l’uno nello specchio dell’altro, dalle rocce dell’Appenino, divisi da un abisso incolmabile.

Giovanni Russo

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