Notizie dalla Basilicata
Da tutti i paesi e da tutte le borgate della regione sono andati via gli internati. Tu forse non conosci internati, e venendo qualche volta nel tuo paese non ti sei mai accorto di averceli nelle case e sulla piazza. Così come non se ne sono mai accorti i nostri contadini, pur avendoli nella propria casa, qualcuno nello stesso letto. Non ti accennerò i dati somatici, è ingrato andare contro le proprie qualità immaginative, tanto più che di queste possiamo servirci a nostro agio (la cadenzata sincerità di Hume ce lo insegna: «Noi possiamo, nell’immaginazione, congiungere la testa di un uomo al corpo di un cavallo…»). E a questo valore di “credenza” spero che tu porterai rispetto come si conviene. Invece la mia fortunata dimora quaggiù mi ha reso saggio su tante cose, la permanenza nella povertà giova moltissimo, “i poveri” come dice mia madre “hanno il fiato del Signore”. E tra la povertà sono vissuti questi signori internati che tutti chiamavano “confinati”; “il prof. Confinato”, “il dottore confinato”, “il filosofo confinato”, “l’ingegnere confinato”, mai che si parlasse di muratore, impiegato o scalpellino. Vedi, questo era più che la semplice constatazione del valore dell’individuo, i confinati rappresentavano una classe, una società, alla quale noi, a prescindere dalle nostre posizioni, legavamo i termini d’una strana superiorità. E la società sfilava a mezzogiorno e al crepuscolo davanti ai banchi di controllo, per la “firma”, poi usciva al sole, sulla piazza, e restava qualche minuto alla confessione. Perché essi, i confinati, si confessavano così, in piazza, dinanzi ai nostri occhi, e il nostro male stava proprio in quella non appartenenza; l’esclusione tante volte distrugge l’uomo. Sapevo di Eugenio Colorni, ma bisognava andare a Melfi per vederlo affaccendato su Leibnitz, e Leibnitz, non Eugenio Colorni, ci escludeva e ci allontanava; nel materano c’era Carlo Levi, basso, tondo, lo chiamavano “il santo medico”, e nelle campagne, nei paesi, tutti professori tedeschi, polacchi, cechi, con le loro donne, qualcuno con i figli silenziosi. E fu proprio uno di questi, A. K. di Amburgo, a inviarmi a fine gennaio ’42 per mezzo di un amico comune il biglietto sul quale aveva scritto con inchiostro sbiadito due versi di Longfellow: “Last night the moon had a golden ring, and to-night no moon we see!”. Soltanto allora compresi che l’esilio diveniva per loro il vero esilio, ed esiliati anche noi, gli esclusi, noi nelle strade di Potenza lucide di pioggia, le vecchie sulle cassapanche nei paesi scuri, grigi, i contadini nelle campagne impoverite.