Fiori di Sinisgalli
Avemmo già occasione, qualche anno fa, di trovarci dinanzi a questi Fiori di Sinisgalli e di cedere alla commozione con una serenità consapevole e giustificata. Eppure allora la periodicità della «lettura» poteva ben distrarci, quella commozione de «l’espace d’un matin», breve, calcolata, precisata entro i suoi limiti di immediatezza. Uscivano i Fiori su una colonna di una rivista letteraria romana, e volta per volta rinnovavano le cadenze di una prosa pacata, serena, nata dalla condizione di restringersi nella colonna, una specie di imposizione che l’autore tentava di subordinare alla propria sensibilità, e che al ricordo riusciva a svincolare creando il «genere», variante tra gusto e lirismo, tra occasionalità e coerenza, tra intelligenza e «intermittence du cœur». Su questo piano di sincerità, i pezzi, a distanza, conservavano un soffio eguale, una linea, una parabola che il titolo stesso cercava di allacciare, giustificando la parità e la disparità degli argomenti, delle sensazioni, delle immagini, dei ricordi che affollavano la pagina, ma sempre con chiarezza e con un senso di accorata e profonda consapevolezza.
Allora intorno ai Fiori, e cioè intorno a Sinisgalli, s’aggiravano i lenti e tristi motivi della sua leggenda politica, dai diciotto frammenti a l’«aneddoto orfico» del Cane di Lazzaro, la sequela che determinava la storia poetica di una giovinezza. E i Fiori nascevano da così vantaggiosa esperienza, la prosa di questi componimenti richiamava l’armonia dei versi, donava i personaggi (che nelle poesie erano muti, celati sotto la grana del canto, ma presenti) spiegava le proprie insofferenze, al ritmo del canto s’allargava nella cadenza levigata della prosa-confessione, la «dolce provincia dell’Agri» si sminuzzava, la Lucania era contenuta e sostenuta, la si sentiva nella bruma milanese, nella vita in grigioverde tra cavalli e basti, nelle commosse parole che ricordavano gli amici perduti e lontani (Scipione, Usellini, Lautréamont, non perdevano, nell’osservazione letteraria, la sincera presenza che scoprivamo nel «Vescovo del paese», in «Silvio», nella «Signora Anna», in «P. e R.», in «Elisabetta», in «Suora Crocifissa»).
Dopo tali considerazione è naturale giungere a delle determinazioni precise sul valore della prosa sinisgalliana, scaturita, o meglio nata con la poesia, un canto riflesso più ampio, forse più sereno. Già alla presentazione di Vidi le Muse Contini scopriva le vertenze dell’andamento letterario di Sinisgalli: «Ricordi e occasioni, allora, colmano le ultime esperienze di Sinisgalli, fosse pure a rischio di qualche crepuscolarismo nel ricordo, di qualche indugio della realtà occasionale nello stato prosastico. Addirittura incontri di ricordi e realtà, che appunto diventano positivi come epigrammi del ricordo. E dal lato delle occasioni, l’album epigrammatico s’è trasformato in un album per l’autore, un diario…» così giunti alla formula diaristica nella poesia, per riflesso, come dicevamo, gli stessi Fiori perdono il peccato della periodicità; l’autore non si scopre, il suo gioco resta intatto, nessun inganno nel linguaggio dimesso («Se sul punto di morte avrò il tempo e la conoscenza, come ho viva stasera la speranza di essere esaudito in un desiderio estremo, io chiederò ai familiari e agli amici che mi sia mostrata per l’ultima volta quella piccola stampa a colori della mia stanza lontana, attaccata a una parete dietro le spalle. I bambini quando piangono non chiedono di vedere il paradiso: basta un nulla per quietarli…») nessun male nell’offerta dei sentimenti e i capitoli restano legati a largo respiro e stretti nello sbroglio della storia.
Fiori pari fiori dispari in volume diviene romano, contiene tutti i requisiti, dalla suggestione alla serenità, e il lettore avveduto ne scopre nelle pagine il filo che un tempo nella colonna sfuggiva, portati come s’era alla lettura del «capitolo» isolato che riusciva a calmare la scontentezza con la scontentezza pacata di Sinisgalli. («Pensai: via Velasca vuole forzare il mio destino, vuole che io aggiunga qualche parola alla sua storia, alla mia storia… Quella era una poesia nata morta. Ma le parole, forse, si erano mosse da sole come il polline nel vento; le stesse parole, gli stessi accenti che ritornano negli anni nel giro dei nostri versi. Io dico che nei nostri versi c’è scritta la data della nostra morte»). E qui la parabola si snoda, la confessione dello scrittore entra in noi lentamente, con i paesi, le chiese, tutti i timori della giovinezza, gli amici umili, i compagni di collegio, i parenti, i paesaggi lucani arsi, bruciati dal sole o seppelliti dalla neve, la cenere nella casa, le vigne aperte, il ponte sull’Agri, e su su fino alle esperienze romane, milanesi, militari, i ritorni alla terra, la visita agli «oscuri morti familiari» («Mia nonna, quando aveva l’età di mia madre, per non farsi disturbare da noi bambini, prima di recitare i suoi vespri usava riempirsi le tasche di castagne. Fece lo stesso mia madre con me quando mi vide distrutto quel giorno. Senza interrompere le sue preci, trasse di tasca un pugno di castagne e me le diede a rosicchiare.»)
Sono i fiori della rassegnazione, i dati di una vita attraverso non molti ma densi anni, e come disse De Robertis: «Nella poesia di Sinisgalli, questa è gioia per disperazione, fuga verso l’età felice, l’età perduta…». Di queste fughe è composto il libro, uno dei più belli degli ultimi tempi, dove si scopre il rimpianto di vite perdute («Io cercavo il ragazzo che veniva a dormire dentro l’ombra delle foglie… Certo gli anni mi hanno portato sempre più lontano da lui…»), i suoi anni d’una consapevole disperazione come egli avverte inizialmente nel cappelletto d’apertura «Forse io ho troppo premuto sulla mia vita col peso del mio cuore». Oggi non ritrova più nessuno, tutti sono racchiusi nelle pagine, fiori freschi e appassiti, ombre, immagini, paesaggi, è rinchiuso anche l’altro Sinisgalli, il ragazzo scarno e scuro di Montemurro, quello perduto nell’ombra delle foglie: « …Veramente egli si è allontanato per sempre da me, senza lasciare una parola che, appena pronunziata, potesse aprirmi la porta dove egli è scomparso. Io non gli avrei domandato niente altro che il segreto della sua felicità, la felicità che non gli si è mai negata, tutte le volte che l’ha voluta… Solo la nostra amara rimembranza ci può illudere qualche volta di poter vivere un attimo a imitazione di quella che fu la nostra vita. Non ci resta che assistere alla fine di ogni illusione con una sola speranza ormai, vederle sparire a una a una nel loro più bel momento, aspettare l’ora prescritta in cui si fermerà il girasole. Camminare col terrore di un rischio perpetuo, soffrire di ogni emozione, di ogni mutamento di aria, di ogni voce col palpito di tutto il corpo. Sentirsi il cuore grosso nella gola, nel petto, nel ventre, come quella lucertola che è lì, al confine dell’ombra dove il ragazzo veniva a dormire».