Spiritus loci

date

1952

author

De Robertis, Giuseppe

title

Saluto a Matera: G. De Robertis

summary

bibliography

  • «L'Approdo», 1953, pp. 76-77.

teibody

Saluto a Matera

Vivo in fantasia oggi a Matera, in Basilicata. Vi sono nato, lo sanno le pietre, più alcuni pochi miei coetanei e compagni. Ho vissuto lì i primi diciannov’anni interi, poi, per tre ancora, gli ozi delle vacanze, tornando dall’Università; e ogni volta, dico a ogni partenza, l’amarezza fonda del distacco. E per quarant’anni continui, trasmigrata la mia famiglia, vissuto lontano, come tuttora vivo. Ma l’ho rivista agli ultimi di dicembre del ’50 (la rivedrò più?). E mi ci ero preparato sognandola (un uomo, si sa, inclinando l’arco della vita, torna col desiderio al luogo dov’è nato, che, per chi se ne divise giovane, significa gioventù, ma anche più dilettamente la «mater», l’«alma mater»). Il circolo si chiude a un certo punto (dunque, per preparare nell’intima mente la chiusura, feci quel viaggio or son due anni).

Ricordo la prima volta che ci tornai. E quanto Firenze m’era parsa più grande assai (era la confusione, era lo struggimento pei luoghi cari lontani), tanto Matera, al rivederla, la ritrovai piccola, persa: faticavo a camminare per le struducole, come se fossi grottescamente cresciuto di statura. Ma desiderarla, ora, e rivederla in sogno, ripensarla così a lungo, così a lungo, m’avevano, come dire, un poco alla volta, per forza d’amore, restituito i luoghi com’erano, il loro volto intatto. Non lo sapevo, lo sentii alla prima vista. Il tempo veramente s’era fermato, lasciati addietro gli anni e il poco acquisto (e il ricordo dei prim’anni non s’inframmetteva per nulla a finire le impressioni). Ero io solo con quelle strade e stradette, quelle piazze, quella via larga del Liceo, coi suoi colori, antichi nobili, a cui il tempo aveva aggiunto. Nell’animo il frastorno dell’età tanta, come lo scorrere d’un fiume lene. La gente passava frettolosa (era del mio stesso sangue): e non mi riconosceva, com’io non la riconoscevo; ma qualcosa sfiorava l’anima. Non è segreto da svelare qui; ma un giorno, quel giorno dei giorni, oh riposarvi sotterra: una povera cosa tra le cose.

Chi non sa oggi anche un poco di Matera! Perfino gli americani che, mi dicono, vanno a vedere questo paese strano con le grotte per case; e si sono aggiunti ora i cineasti, che v’hanno trovato il luogo che ci voleva, per girarvi La lupa del grande Verga. E ci fu anche un libro, anni fa, a parlarne: ma non «sapit Matèolam», per dirla col nostro latinuccio. Lasciamo andare gli americani, i cineasti, l’autore di quel libro. Chi dice Matera dice i «Sassi». La gente ne ha visto qualcosa in certi «documentari», più minuti, in verità, che corali, com’essi sono; mentre i «Sassi» è bello abbracciarli in una sola veduta, per quanto son grandi (specie di vallate fonde, tutte case e casipole accatastate che salgono e s’allontanano e fanno prospettiva). Vederli di dove si distaccano, dove s’aprono e volgono in curva, dove a grado a grado finiscono (sapere dove finiscono!).

A Matera ci si arriva da due parti: dalla parte delle Puglie, propriamente da Altamura, sua vicina; o dal più interno della Basilicata, mettiamo da Montescaglioso. Donde il nome dei due «Sassi»: «barisano», che guarda la terra di Bari, «caveoso» che guarda Montescaglioso, o «mons caveosus». Lì, all’entrare, son colline o piuttosto ondulazioni e avvallamenti; qui vallate o tutta una gran vallata a perdita d’occhio, coi lontani paesi all’orizzonte, più alti, men alti. E s’entra a Matera. Il piano si prolunga e dirama. E proprio dove si prolunga si distaccano i «Sassi», che poi s’appoggiano, quasi voltandosi le spalle, dov’esso dirama. Ma la loro luce, forse, nasce da una quasi attrazione e affascinamento che viene dalla Gravina, da quel correrle intorno e perdersi. Di là le Murge. Ma la Gravina è una fenditura immensa, una fenditura profonda (il bello orrido è lì, specie a certe svolte).

Le ore che ho passate a guardare i «Sassi», dalla mia casa o da quanti sbocchi offre il piano alle più diverse apparite. Ci ho fatto l’orecchio a udire i suoni, le voci, i canti (non solo d’amore) in quelle conche, e a vivere all’unisono con la mia gente. Il gusto dei meridionali d’affacciarsi a finestre e terrazze si esalta a guardare i «Sassi», ad ascoltare il loro murmure di conchiglia a notte alta, o di giorno la vita, la vita espansa. Un po’ del mio dolce o malinconico ozio m’è nato, chi sa?, da quel guardare d’allora e indovinare i rumori, e continuamente distrarmi e speculare. Anche il mio abito a starmene in disparte, osservatore muto (e solo per eccezione rumoroso). Che ci volete fare?: son nato a Matera. Avessi, per quel tanto d’amore, anzi innamoramento, saputo restituirvela chiara agli occhi e ai sensi, come l’ho io dentro. «Là nel ciel nero liberarmi, - La mia patria a riguardar…»io ci sono salito con l’anima, e l’ho vista, con tutte le sue nervature. Paese di tufo annerito dal tempo, nelle mille variazioni e gradazioni. Ma quel blocco rosso, o peggio, dell’Ospedale in cima al «sasso barisano», e il bianco bianco delle case popolari in cima al «sasso caveoso»? non mi bastano gli anni che m’avanzano per vedere quello stringersi, neutralizzarsi, questo oscurarsi, accordarsi. In piazza della Fontana quella casa non c’è più a dividere all’imbocco le due strade che so. Ora c’è una sorta di monumento (potessi dire la parola giusta!), anch’esso rosso, e mi pare sia la sede d’una banca. Oh, non si tratterà d’un problema d’architettura illustre, ma d’un particolare carattere e segreto di bellezza da testargli fedele. Sia detto per amore, non per disamore: se mai per un ostinato amore. Risaluto Matera.

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