Spiritus loci

date

1953

author

Parrella, Michele

title

Utensili primitivi nel Museo Ridola di Matera: M. Parrella

summary

bibliography

  • «Civiltà delle Macchine», a. I, n. 6, 1953, p. 16.

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Utensili primitivi nel Museo Ridola di Matera

La preistoria con tutte le suggestioni che può continuamente esercitare sulla memoria, ci fornisce gli elementi reali per una obbiettiva ricostruzione dei primi tentativi dell'uomo, delle sue prime lotte per sopravvivere all'ambiente e resistere alle violenze della natura.

Gli strumenti e le armi primitive sono la testimonianza della prima ingegnosità dell'uomo occupato a costruirsi un posto nella natura, una ingegnosità che già comporta una tipica razionalità, una riflessione direttamente legata all'istinto. Osservando le vetrine di un museo di oggetti preistorici, ci troviamo subito davanti a un vasto e assortito «campionario», dove la serie e i numeri degli oggetti ci richiamano altre cifre: cifre per calcoli assurdi, numeri che nella loro misteriosa entità racchiudono il segreto delle nostre origini.

Origini e distanze intraducibili in comuni operazioni, affidate ad una più sottile nozione delle nostre possibilità a calcolare i giorni, quelli dei nostri padri ed altri giorni ancora fino ad un tempo immemorabile, il tempo senza ore e senza sollecitazioni, in mezzo al quale si aggirava il nostro antenato quasi scimmiesco, il pitecantropo. Poi venne il sinantropo, più «umano» ed evoluto rispetto al primo, rinvenuto dopo la stessa fatica e gli stessi metri cubi, quasi occorresse penetrare nel ventre della terra per ritrovare le ossa e le ceneri della nostra specie. Le ossa e le prime pietre scheggiate nel ventre della terra, tutto il bagaglio dell'uomo primitivo nel silenzio di mezzo milione di anni.

Può accadere a volte di rivivere i momenti di questo tempo trascorso, se un museo di strumenti primitivi è per avventura situato in un luogo, dove il tempo passato ancora sopravvive ed è possibile cogliere taluni aspetti della vita preistorica: sopravvivenze che senza dubbio rappresentano una penosa frattura rispetto alla società come oggi è, e singolarmente per noi uomini occupati in altri mestieri. Il Museo Ridola di Matera, a parte l'interesse e a volte la curiosità che in questi ultimi tempi ha suscitato questo grosso borgo rurale del Sud, ci spinge a tali pensieri per una particolare coincidenza che accomuna gli ordinati scaffali del museo ad una grossa parte della città.

A questo punto ritornano le considerazioni sulla civiltà contadina, in alcune regioni ancora vincolata ad una strumentazione primitiva e ad una primitiva sistemazione dell'abitato, al punto da rendere immediato l'accostamento con più arcaiche comunità.

Le caverne situate in vari strati sullo stretto e nero torrente Gravina, il «Sasso caveoso» dove a tutt'oggi si ammassa una folla di braccianti e contadini poveri, appaiono come il luogo naturale degli utensili allineati nelle ottocentesche vetrine del Museo Nazionale. La fusione di motivi così lontani tra loro, mentre accorcia le distanze intorno ai primi strumenti e alle prime armi dei nostri antenati, fa sprofondare in un fosso la vita di questi uomini che vivono nelle caverne.

Per uno strano giuoco che non è oscuro sortilegio, i vivi si trovano ad abitare nelle case dei morti: gli antichi morti che si adagiavano accanto alla pietra triangolare e appuntita, la pietra angolare delle prime superstizioni e dei primi terrori, e certo non basta il grammofono che i vivi hanno introdotto in queste buie caverne a colmare il fosso. Le punte bianche del grammofono non bastano ad annullare le minute schegge delle prime incisioni, e la rudimentale attrezzatura di questi agricoltori a giornate, dei ciabattini a giorni dispari, certo non contrasta con gli utensili levigati del primo uomo che si scopriva inventore, non contrasta con i lunghi denti acuminati dell'animale preistorico, ottimi punteruoli per gli immediati discendenti del sinantropo e per il ciabattino che in una buca del «Sasso caveoso» rattoppa per la centesima volta la stessa suola di scarpa.

Ma vi è qualcosa che l'uomo vestito di pelli e il ciabattino non possono spartirsi. La gioia dell'uomo primitivo che foggiava i suoi utensili e metteva a prova le sue invenzioni, la meraviglia delle prime esperienze collettive, la sorpresa di trovarsi per la prima volta insieme per raggiungere un determinato fine e di vedere così moltiplicate le proprie possibilità e i propri organi.

Le braccia e le mani diventavano enormi e sicure per lottare contro la natura e le terribili ombre dei sacri timori.

Queste sono cose troppo lontane dall'uomo che vive oggi, troppo lontane, ora che la natura non c'entra più e la gioia, nel significato più immediato e umano fuori da ogni ebbrezza o misticismo, bisogna «trovarla» intorno a più complicati congegni, intorno ad altre macchine, adoperando altri utensili.

Il leopardiano canto del pastore errante che chiama a sé la luna è l'ultimo degno dialogo dell'uomo con la natura, con la parte più lucente di essa.

La società è subentrata alla natura e i pensieri e gli utensili dell'uomo hanno acquistato una nuova e più gigantesca dimensione.

Forse per questo la direttrice del museo pensa a una diversa collocazione degli oggetti, in modo che siano valorizzati in uno spazio più vasto.

La pietra scheggiata con tutte le impronte della mano che incomincia ad articolarsi e a far presa sui primi tipi di strumenti e di armi, le fibule di bronzo, primo esempio di molla rudimentale senza possibili inceppamenti, i proiettili della fionda, i fermagli, gli spilloni, sono cose troppo rare e preziose per non destinarle a ben altro respiro.

Lo spazio originario nel quale erano appesi, si può dire, questi utensili che aiutavano a vivere, lo spazio che la materia stessa si è guadagnato a fatica per mille e mille anni, chiedono una diversa e più aggiornata soluzione.

Si potrebbe insinuare che il plexiglas ed altri sottili ed estrosi disegni vengono incontro a questa esigenza di una più utile e razionale sistemazione degli oggetti. In definitiva si tratta di restituire soprattutto la pietra levigata al suo naturale destino: il destino della materia che in quella forma vicina al «tutto tondo» ha trovato un’attuazione felice e compiuta. La pietra di Moore e il ferro battuto di Calder sono stati lavorati per lo stesso fine: lo spazio senza più finzioni, senza più trucchi. Per questa ambizione c'è voluta tutta la pazienza e l'umiltà di una costante sperimentazione che si accostasse alle ragioni dell'ars mechanica.

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