Spiritus loci

date

1954

author

Giagni, Gian Domenico

title

Scoperta di un nido: G. D. Giagni

summary

bibliography

  • Fiera Letteraria, a. IX, n. 21-23 maggio 1954, pp. 3-4.

teibody

Scoperta di un nido

A maggio, a Montemurro, le donne spalancano gli usci di sera e insegnano ai propri figli i nomi delle stelle dei ponti sospesi sull’Agri

Quello che più mi commuove è il silenzio e la rassegnazione del paese dove giunsi qualche settimana fa, dopo circa tre ore di viaggio da Potenza attraverso maggesi, uliveti, campi di grano ancora verdi e teneri, torrenti, ampie zone rocciose deserte e giallastre, paesi dalle case pressate l'una sull’altra, ponti crollati, boschi intorno alla strada nazionale. È difficile, infatti, trovare un paese del sud rassegnato, è meno difficile trovarlo silenzioso. Dopo tre ore di viaggio diventa impossibile non accorgersi della natura del luogo; io penso che Magalotti, Vespucci, Sassetti, tutti i grandi viaggiatori pisani e olandesi ad ogni nodo marino, ad ogni chilometro di terra, sentirono l’aria nuova, l'odore della terra più o meno intenso, il colore delle rose, dei tuberi, variabile. Ho detto ad ogni nodo, ad ogni chilometro, avrei voluto dire ad ogni stilla d’acqua, ad ogni metro. Per scendere alla valle dell’Agri basta chiudere gli occhi e sentirla, la strada, come una strada proibita, che porta in un luogo impenetrabile, dove alberi, viottoli, campi sono nati per distoglierti, per innervosirti. La valle dell’Agri è per davvero un luogo proibito, non riesci a scoprirla se non quando hai i piedi nell’acqua del fiume e ti addormenti tra le vigne e gli uliveti.

A Montemurro questo lo sanno, e non portano le capre al pascolo laggiù ma a Belliboschi, tra le ginestre; e così nasce il silenzio e la rassegnazione di questo paese dai nomi dolcissimi e familiari. Piazzale San Domenico era quasi deserto; a mezzogiorno qualcuno torna dalle vigne, dagli orti, e resta fermo sotto il sole. Mancava qualche ora. A quest'ora i ragazzi si avviano all’asilo, i muli salgono verso il bosco. Avevo timore di restar solo sullo spiazzo bianco di sole e di polvere; in più mi soccorrevano i versi e le immagini che da anni il mio amico poeta mi aveva donati, i nomi, gli episodi, li avevo stranamente lontani: Suor Crocifissa, Verdesca, la chiesa di Sant’Antonio. Sarebbe bastata una frase per riportarmeli tutti, per ricordarmi la cara voce del mio amico che adesso fra carte, inquietudini e casse, dinanzi alla finestra di Monte Parioli era chino sulle proprie mani, diviso da me da quel silenzio e dai molti chilometri di distanza.

Ma io adesso bussavo alla sua porta, eravamo in due, con Aldo che era venuto con me da Potenza; uscirono le donne dalle case, qualche ragazzo si sedette sui gradini, ai nostri piedi. «C'è Vincenzo dall’altra parte, don Vito è in campagna» mi disse una donna pallida che abitava di fronte. Scomparve in un vicolo e si dette a gridare un nome. Era quella la sola voce che vi fosse in quel momento a Montemurro, una cadenza nasale la rendeva opaca. Erano le grida che ogni sera giungevano all'amico dalle aie, dagli spiazzali, dagli orti, dopo che i bambini stanchi di far razzia si addormentavano sotto gli alberi. Giungevano da tutta la valle in quella stanza che adesso Vincenzino mi mostrava con orgoglio, la piccola stanza della casa grande, dove negli scaffali preziosamente si accantonavano antichi trattati di medicina accanto ai testi di analisi algebrica, a volumi di Voltaire.

«È vuota questa nostra casa» - disse Vincenzino. Non so se lui, l’amico poeta, lo avrebbe detto; avrebbe avuto timore: il vuoto, il grande vuoto lo ha sempre addomesticato, a via Rugabella, in Sardegna, sotto Monte Mario, gli ha sempre lasciato un segno muto dinanzi. Per questo i suoi versi abbandonano il rigo, si impiccioliscono, si dilatano; così le sue immagini giovanili, la grande O di Olga, il profondo vuoto in cui ritrovava i gesti e il canto della madre, l’amore per Elisabetta.

«Siamo soli io e papà, questo salotto non l’apriamo mai», riprese Vincenzino, il giovane fratello. Uscimmo che il sole lasciava poche ombre, un sole tiepido; le galline bianche giostravano dinanzi ai nostri piedi, salivano e scendevano gradini. Adesso nello spiazzale rivedevo tutto, pagine e pagine mi si voltavano davanti agli occhi. C’era una monaca con i bambini d’intorno, dietro un cancello; nessuno pariava. Era Vincenzino soltanto, a rileggersi quelle pagine che pensavo di aver perduto nella memoria.

Poi scendemmo nel giardino dei due sposi pittori. «Sotto Montemurro esiste una città antichissima, ne sono certo» mi disse lui, Peppino, e mi mostrò un vaso elegantissimo. «Un altro è stato trovato da un certo Falotico». Pose il vaso sul davanzale della finestra bassa e continuò a parlare delle sue ricerche, mostrandomi cocci, lucernini. «Ho trovato il modo di invecchiare i vasi falsi». Questo era per me un miracolo, quel giovane che mi parlava di una città sepolta sotto le cantine di Montemurro, di vasi da invecchiare, di metodi sconosciuti per l’affresco, di cose antichissime, aveva il senso della volpe, per anni si rinchiudeva nella sua tana a sognare i labirinti della città che giaceva sotto un paese silenzioso, a scoprire le tombe, a sottrarre ai morti di pietra un oggetto caro: un vaso, un lucernino, una collana di perla spugnosa secca di sole. E nella sua casa aveva l’odore di tanti oggetti mai trovati ma esistenti, aveva sua moglie, la giovane e timida Maria dagli occhi azzurri che dipinge chiari paesaggi alla Cézanne. E nel giardino, tra le poche rose, sul muro della cantina, da tre anni hanno dipinto l'arcobaleno con i colori tratti dalla terra di Montemurro. «Questa bandiera resiste da tre anni agli inverni lucani». Mi dissero ancora qualcosa sul cancello, non ricordo bene, ma forse fu lui a parlarmi ancora della città sotterranea.

A questo punto il mio viaggio avrebbe potuto avere termine, e forse era tardi: tante volte ci accorgiamo che della vita intensa di una giornata non resta che un grido, o magari la scoperta di un nido di formiche sotto la pietra dell’ingresso della nostra dimora. Ma risalì il padre dalla vigna, entrò nella grande cucina, lo seguimmo muti sulla terrazza, e quassù, dinanzi alla valle dell’Agri, mi parlò dei vigneti, dell’olio, della cantina che avevamo sotto i nostri piedi (la cantina era grande quanto tutta la casa), degli anni vissuti in America, dei libri del figlio, dei cari nomi delle contrade. «Io e Vincenzino qualche volta vorremmo qualcuno in questa casa deserta. Sarebbe bastata la madre, o una delle figlie lontane», disse infine. Ma venne Anna, l’unica figlia vicina, preparò la tavola e mentre mangiavamo s’udiva la sua voce, poi i suoi passi risuonare pesantemente nella grande cucina. E venne zio Giacinto, vennero tutti i personaggi, su quel terrazzo.

Intanto tornavano i bambini dall’asilo, a piazzale San Domenico i giovanotti tiravano calci ad un pallone sgonfiato, le galline venivano rinchiuse e da Belliboschi con le capre tornava il primo fresco della sera.

A maggio, a Montemurro, le donne spalancano gli usci di sera e insegnano ai figli i nomi delle stelle e dei ponti sospesi sull’Agri.

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