Spiritus loci

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1946

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Prima notte di città: G. D. Giagni

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  • Costume politico e letterario, 7 aprile 1946, p. 37.

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Prima notte di città

Io dico che gli uomini, tutti gli uomini, hanno ascoltato la voce di una città, per una volta, una notte qualsiasi, quando nella stanza l’orologio scandisce le ore e dal profondo del cuore sale un canto che non sai definirlo. Certe notti è impossibile dimenticarle, come non si dimenticano le grandi avventure (il giorno della prima comunione, l’addio ai campi sportivi e agli assalti alle vigne, la prima poesia scritta dietro l’imposta della mia casa in San Bonaventura«Sembravi un giglio bianco. Una bandiera di speranze dimesse; L’acqua ti stringeva il fianco, La memoria…»).

Io non ricordo la città che mi ha ospitato per la prima volta. Fu mia madre a salutarmi sull’uscio, nascondendosi nell’ampio scialle che mia nonna paterna lasciò in eredità, con la casa, la cantina, le botti, gli armadi e i drappeggi. Non partivo per nessun collegio, né per le armi, era quella una partenza come tante altre. La città mi giunse incontro silenziosa; eravamo in tanti, vestiti egualmente, lo stesso passo, diversa meraviglia. Mio fratello maggiore mi era d’accanto, cantava e non muoveva gli occhi come facevo io, sperduto in quella avventura. Gli dissi che da noi l’aria era differente e mancavano quelle grandi ombre che un sole morente e rosso segnava sui prati verdi al margine della città. Non mi rispose, forse non mi ascoltò. Così mentre marciavamo intorno alla città, pesanti, insonnoliti, il cielo s’oscurava, i pini conservavano ancora la tiepida luce del sole. Mio fratello e gli altri ripresero a cantare; io, muto, chiedevo a me stesso la forza di una partecipazione.

Questa non giunse neppure quando svolgemmo i nostri bagagli nel mezzo del campo e ci chinammo a riempire i sacchi di paglia e a segnarvi sopra un nome, il nostro, uno qualsiasi; alcuni segnavano i nomi di ragazze, altri quelli delle contrade saccheggiate, dei borghi, dei torrenti. Uno solo segnò il nome di una stella. Alla luce dei riflettori ognuno di noi ripeteva la lettera che andava segnando, tutto il campo ne risuonava. Poi si entrò nelle tende con i sacchi sulle spalle e qualcuno si addormentò subito, appena disteso. Avevo socchiuso gli occhi e ripetuto il nome segnato con amore sul sacco (erano quattro lettere scritte con il gesto ampio della mano sulla stoffa retinosa, un segno sottile, com’erano sottili i miei pensieri), mio fratello mi tirò fuori. Erano in sei. Si saltò il reticolato, andavamo a piedi lungo il margine della strada, toccammo di nuovo le mura, grandi bastioni scuri, gravi.

E qui non ricordo più nulla, in cielo era un alone rossastro, la stanchezza mi proibiva di osservare il giro largo come un’aureola. So che entrammo in un giardino, scendemmo e salimmo infinite volte una scala che portava ad un tunnel lucido come marmo, si entrò in un cinema (la storia non aveva una fine, c’era un balletto, un sogno, un uomo che moriva sul selciato con l’ombrello fra le ginocchia), il capo mi turbinava. L’aria era fresca quando venimmo fuori, ci tenevamo per mano fin sotto le mura, poi ancora la campagna e il campo.

Da allora compresi che la vita degli uomini è facile, basta il soffio del vento tra i pini, la luce nei capelli di una donna, un nome perduto lentamente sulle labbra.

L’indomani m’accorsi che accanto a me dormiva N., il ragazzo che aveva segnato il nome di una stella. Sdraiati come i cavalli che non hanno il riposo di una notte, con gli occhi mesti rivolti alla travatura della stalla.

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