Digital Libraries of Basilicata - Modern Literature

date

1582

author

Cenna, Giacomo

title

Potenza e dintorni nel XVI secolo: paratesti, prosa e poesia encomiastica - Accademie venosine - Rinascenti - Introduzione e giornata I

bibliography

  • Cenna, Giacomo. Cronaca antica della città di Venosa. Napoli, Biblioteca Nazionale, ms X.D.3
  • Cenna, Giacomo. Cronaca antica della città di Venosa. Napoli, Biblioteca Nazionale, ms X.D.3., cc. 171r-174r.

teibody

Dell’Accademia dell’Illustrissimo et Eccellentissimo Signore Don Emanuele Gesualdo, Prencipe di Venosa. È continuata l’antiquità e nobiltà della città di Venosa medesmamente insino al tempo dell’Eccelentia del signor Don Emanuele Gesualdo, Prencipe di quella, quale fu proprio nell’anno 1612. Retrovandomi con esso lei giornalmente a passare il tempo a giochi di schiacchi, dove che sentendosi verso il fine del mese di marzo un caldo estremo, e tale che, per la stagione del crudelissimo inverno passato, dava segno di dovere essere eccessivo et intollerabile nella prossima estate, fu il detto Prencipe di parere che, prevenendo a i tedij che da l’otij disordinati, i quali in simile intemperie da infiniti disaggi accompagnati sogliono accadere, se ritrovasse alcuno giovevole rimedio a fine che, pascendosi la mente di sano nutrimento, avesse il corpo scampo dall’imminente pericolo. E volle che, fatta una scelta de i più elevati ingegni de i suoi più cari e familiari, cossì della corte come di più nobili della città dovessero e questi e quelli unirsi nel suo castello, dove due volte la settimana formassero una nova Academia, acciò che in tal guisa con grato intertenimento venessero i spiriti a sollevarsi, trattando di utile et vaghe materie, concernente a varie scienze. E diede a ciascuno il carico conforme il proprio talento di ciò che s’aveva di continuo a proporre. Però che alcuni theologi e filosofi, altri legisti, alcuni altri in poesia dedicati si scorgevano e con questi essendone alcuni di non minore stima uniti, ordinò il detto Signore si desse principio. E perciò a dì 26 di detto mese furno tutti congregati nel castello, e distribuiti l’officij. Fu creato il principe dell’Academia e formati l’assistenti, il secretario, il lettore, il bidello et altri conforme l’antiqui instituti. Dove dopo l’essersi posto per ordine ciascuno a sedere, parve al Principe che se dovesse prima d’ogni altra cosa trattare dell’Academia e del esercitio di essa; e perciò egli stesso cominciò in guisa di discorso summariamente a dire da donde traea origine questo nome d’Accademia, et a simiglianza di chi ha preso questo nome, sincome si è detto di sopra, nel principio dell’Accademia de i Piacevoli. Soggionse poi a raggionare di varij esercitij di littere che in essa si fanno, e come ciascuno dell’Accademici dovea adoprarsi in far varie lettioni, dispute, opposizioni, dichiarazioni, ciascuno secondo la sua professione. Ma perché la prima cosa che s’aveva da fare era el formare l’impresa universale, e ciascuno la sua particulare, per questo raggionò egli come se doveva formare l’impresa, dichiarando alcune regole più retenute dalla maggior parte dell’authori che di quelle trattano, per quanto la brevità del tempo comportò. Cominciò similmente a dire che cosa importasse questo nome impresa, che derivava da un nome greco, e tanto sia a dire ‘impresa’ quanto significato o cosa impressa ma che ciò aveva molto del generale e che convenia ad altre compositioni e perciò assignò un’altra etimologia che più tosto prendesse origine dal verbo imprendere, onde con la figura esterna venghi il compositore a esprimere un concetto della mente che l’uomo s’abbia impresso ad eseguire o che s’imprenda ad eseguire, come per caggion d’essempio in quella impresa di Lodovico XII, Re di Francia, nell’istrice che getta le sue acute penne longi e da presso con quel motto, ‘COMINUS ET EMINUS’, viene ad espiegare il suo pensiero ch’egli con le sue armi se prevaleva vicino et lontano et in molti altri che per esempio se referirono. Dal sopradetto se dimostrò la definizione dell’impresa essere compositione di corpo e di motto per dichiarare un suo particulare pensiero, o di cosa passata, o di presente o futura. E perché questa definitione con più chiarezza fusse appresa, addusse la differenza ch’era fra sim[b]oli, motti, emblemi, iaroglifici, apologi e medaglie che per altro pare che fra loro abbiano simiglianza. Pure questo nome, ‘simbolo’, disse che fu principalmente preso da Pitagora, quale, con varie proprietà di cose, insegnò molte [...] moralità, come se dovesse essere osservata la giustitia, prendea egli una statera dichiarando il pensiero con il motto che diceva ‘STATERAM NE TRANSILITO’. Similmente i motti dichi[arati] ch’erano detti ‘arguti’ in lode o in biasmo d’alcuno. E che i iroglifici fussero corpi a dichiarare qualche pensiero senza motti usati grandissimamente dall’Egitij come volendo essi significare l’eternità dipingevano essi un serpente che rivolto in giro se mordeva la coda, dimostrando che non aveva principio né fine, come a pieno ni discorre Pierio Valeriano, Oro Apilline et altri. Dopoi disse egli che l’emblema era compositione di corpo e di molti versi non richiedendo particular spetie di corpo naturale o artificiale, ma che la sua ampiezza si destendeva e corpi naturali, artificiali, favolosi dichiarando non solo pensiero particulare, ma moralità anco nel generale, come molti signalati se ne leggono in Andrea Alciato. Ragionò appresso dell’apologi come erano spetie di favole dove s’inducono a raggionare varij animali e che ancora soleano essere esplicati con versi. In oltre che le medaglie fussero state prese dall’imperatori antiqui e capitanij, dove si scorgevano impressi talora emplemi, talora motti e talora yeroglifici, come la sfinge di Ottaviano, il delfino di Tito et altri. E finalmente disse che l’impresa fusse differente da tutti li sopra detti perciò che ella rechedeva e corpo come per materia e motto come per anima, e non in qualsivoglia maniera ma con certe condictioni regolate, sì che il corpo primieramente prender si dovea da cosa nobile, come da’ cieli, elementi, animali, pietre, cose artificiate, però che avesse qualche proprietà quanto più se possea singulare e non comune con altri, ma che quella proprietà sia intesa da homini comunissimamente intendenti, che il recare proprietà molto nascoste et incognite havrebbe del vitioso, che quando poi dovea corpo artificiale, dovea essere di cose che o per arte o per natura avessero fra di loro corrispondenza o connessione, come che si per esempio si accoppiasse un horilogio con una sicure, seu accetta o qualche altra cosa sconcia, di modo ch’el motto non battesse al proposito per la loro incorrespondenza. E cossì ancora si dovea fuggire la soverchia chiarezza quando l’impresa si intendesse senza la dechiaratione del motto, il quale se disse che non dovea essere oscuro che rendesse l’impresa difficile ad intendere etiamdio all’homini dotti e versati in simili ambitioni. Né anco che fusse cossì chiaro che non venisse l’impresa a significare qualche pensiero nascoso, e perciò concluse che non se dovea nel motto fare mentione nella cosa che venisse dalla pittura espressa. Come quella di quel teologo di zoccoli, che, volendo significare la grandezza et eccellentia della teologia, fra l’altre scienze figura un giglio fra le spine, con il motto ‘LILIUM INTER SPINAS’, perché senza il motto dalla pittura veniva a dimostrarsi aperto. E cossì, anco che non fosse licito a pingere i corpi humani interi come che ‘de se ipso ad se impsum, sui impsisque non datur comparatio’, ma sì bene membri, come braccie, mani, teste o altri, soggiongendo che il motto poteva essere greco, latino, volgare, spagnolo, francese e d’ogni altra lingua, ma che in latino era più in uso per potersi esprimere in poche parole e talhora in una sola parola, come in quella di elefante che occide il dragone con il motto ‘LACESSITUS’, dove in volgare si suole porre il verso integro. Disse, ancora, il motto poteva accadere per prosopopea, introducendo alcune cose inanimate o animali bruti o piante o altre simile, a raggion, come in quella che si legge per il marchese del Vasto d’una pianta tronca che germoglia, con il motto ‘A CESA RENASCOR, dove se cava ancora la nominatione et allusione del vocabulo che la rende più vaga, poiché il marchese del Guaglio era nato dal Signore Don Cesare D’Avalos cavaliero noto e per le sue generosi attioni e per la chiarezza del suo regale sangue e perciò se li diede ad intendere quanto la detta annominatione invaghisse et adornasse l’impresa, come quel motto di colui ‘ABIIT NON OBIIT’, et oltra di questa sorte, quale allusione si suole fare anco[...] con bella reuscita dell’armi della famiglia, come in quella del montano se vede fatta nell’occasione dell’accasamento d’un gentiluomo della casa del Stocco con una signora di casa Ferrao che nell’armi tiene dipinta una vite e posta nel corpo dell’impresa il stocco della famiglia dell’uno con la vite dell’altra fece il motto ‘ VINERIBUS FECUNDA SUIS’. E cossì ancora per quella gentildonna della famiglia dei Garofali, figura il fiore dei Garofali con il motto che diceva ‘IGNOTUS PECORI’. Avvertendo che nelle imprese il montano era solito pigliare il motto da Virgilio, come in questo del garofalo si può vedere, o da qualch’altro authore celebre è nominato. Il che può da tutti essere tenuto per fermo che renda l’impresa più di autorità e più ornata ogni volta ch’el motto viene ad essere preso da’ versi di qualche autore classico. Appresso se disse ch’era controversia fra molti authori se si dovevano ammettere favole nell’imprese, perché se vedea communimente da molti buoni compositori usato e per questo se concluse essere licito sì bene del corpo umano favoloso che da molti se vede usato. Fu detto ancora che sino a nuova determinatione fusse in arbitrio dell’Accademici il poter servirsine. Ciò detto fu fatta resolutione et concluso da tutti Academici che per la seguente congregatione, che doveva farsi nel prossimo lunidì seguente, imperoché questa prima era cominciata nel giovedì e che cossì per l’advenire se dovesse per ordine successivo in detti giorni farsi detta Accademia, congregatione et unione di essi academici. E che ciascuno di essi signori dovesse produrre l’impresa sua, fatta con quelle leggi con le quale erano già state dechiarate. E che per ordine si affiggessero nel loco di detta congregatione, acciò da tutti se potessero videre et leggere. Et fu all’istesso tempo dal lettore presentata l’impresa di essa Accademia da farsi con un sonetto in dechiarazione. Quale essendo letto, fu dal Principe et da tutti altri signori Accademici approbato et per ottimo acclamato et recevuto. Il corpo dell’impresa si era un cucullo seu follaro da donde usciva quel farfalletto, cioè il verme di seta, con il motto ‘IMBUET ALAS’; et il nome imposto all’istessa Accademia si era di Rinascenti; et il sonetto che serviva per l’istessa impresa faceva mentione di tutte le parti di essa, come che dovesse dar esempio al mondo di comporre. L’impresa fu letta nel conspetto di tutti, e diceva in questa maniera: L’animal rinascente et immortale che da piccolo seme in sen portato esce verme gentile, o forma nato carcer pietoso alla sua spoglia frale, Dedal novello, indi poi spiega l’ale per volar no, ma per poggiare ornato Oltra i confini del mortale stato, schermendo della morte il fiero strale. Ecco che col bel velo onde si copre spesso il suo piccol corpo, e sempre il mondo, serve di corpo invece i spirti spenti, e l’unica virtù, ch’altri discopre fra brevi tele del suo nobil pondo serve d’ANIMA invece ai RINASCENTI. Dopo d’essere stato letto il presente sonetto dal lettore dell’Accademia, del cui ingegno era già stato degno parto stimato, fu per allhora imposto fine al dilettevole esercitamento, commettendo a tutti che per la prossima giornata venesse ciascuno all’hora determinata, adducendo seco l’impresa insieme col nome con che nell’Accademia deve essere chiamato. E per occasione di componimento propose il lettore e diede ampio campo di poetizzare ai versificanti nella morte di Cristofaro Clavio, astrologo et matematico celebratissimo, et era stato uno delli più dotti dell’età nostra.

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