I percorsi di Giustino Fortunato

date

1901-08-23

author

Torraca, Francesco

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Lettera a Matteo Miraglia

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  • Fa parte di: "Parole pronunziate in varie occasioni da Francesco Torraca", Torino, Grato Scioldo, 1901, pp. 3-8.

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Mio caro prof. Miraglia,

Rileggendo testé, su le bozze, le paginette che - grande onore per me - avete voluto offrire ai lettori della Scuola Nazionale, mi domandavo se fosse o no un caso, che io, nato a Pietrapertosa in Basilicata, da Roma, in un uffizio, che dicevano altissimo - infatti, vi si arrivava per centotrenta gradini, al quarto piano - le avessi mandate a voi, nato ad Accettura in BasilicataBasilicata, a Torino, dove tanta e meritata simpatia vi circonda, a quel Corso re Umberto, del quale cara mi è la memoria, perché le raccoglieste in volume. Accettura, dove voi nasceste - non voglio sapere quando - è vicina a Pietrapertosa, dove io nacqui; pure, io non vi fui mai, né credo che voi siate mai salito alle ardue rupi del mio paesello orridamente pittoresche. Dovevano passare parecchie decine di anni prima che ci fossimo conosciuti noi due, e ci conoscemmo a molte centinaja di chilometri dai luoghi, dove eravamo nati, e che sono tanto vicini tra loro!

No, non è un caso. Ricordate la bella similitudine del Manzoni: siamo come foglie di alberi diversi, che un grande vento agita, spinge qua e là e, infine, riunisce. Noi, se, per nostra e comune sventura, fosse durato ciò che era prima del 16 agosto 1860, forse in vita nostra non ci saremmo nemmeno veduti.

Questo pensavo, e ricordavo una delle scene tragiche, alle quali nella mia fanciullezza assistetti. Era, credo, del 1861; non so se prima o dopo che Borjes e Crocco tentarono di prendere Pietrapertosa, come avevano preso Trivigno, Castelmezzano e presero, poco dopo, la vostra Accettura. Un giorno capitarono al mio paesello due giovinotti, quasi due adolescenti. Bei giovinotti! Ma furono creduti manutengoli, arrestati, ammanettati. Come? Perché? Potrà forse raccontarlo chi scriverà la storia del brigantaggio di Basilicata. Il «Consiglio di guerra» si radunò: Pasqualino, Ciccio Saverio, don Giuseppe e qualche altro li condannarono alla fucilazione.

Che orrore! Che orrore! Sento ancora i pianti di mia madre, sento ancora le strida delle mie sorelle! Mio padre, che non era un liberale del giorno dopo, e che a me e ad altri della mia età insegnava allora, negli ozi forzati, i rudimenti del latino; mio padre, che fracassò il braccio del brigante Armazelle con un colpo del suo bel fucile lungo damaschinato; chiuse la finestra della scuola, ordinò che si chiudessero tutte le finestre della casa, di quella povera casa sorta alla meglio sulle rovine del «palazzo», che i briganti avevano bruciato nel >1806; chiamò i suoi figliuoli maggiori, due dei quali erano stati con Garibaldi al Volturno, e raccomandò loro, poi che non potevano far a meno di andare, che non tirassero su quei disgraziati. I quali, non so come, io vidi, ed ora rivedo nella immaginazione, fiorenti di giovinezza, con le mani legate dietro il dorso, in mezzo a due file della Guardia Nazionale, che li conduceva dietro il convento, nel piano di Sant’Angelo. E le campane suonavano a morto, e, sul tamburo scordato, Pizzomuto batteva la marcia funebre. Da quel giorno, nel piano di Sant’Angelo, due croci rozzamente incise sopra un masso indicarono il luogo, dove furono fucilati gli Accetturesi. Quante volte io vi passai davanti, tante li ricordai rabbrividendo, e dubitati forte della giustizia del Consiglio di guerra!

E Accettura mi tolse la mia Beatrice. Ella era una fanciulla prosperosa e iam matura viro; io quasi ancora un ragazzo, pallido e scriatello, cresciuto nella tristezza, nel lutto, che invase la mia casa quando mio padre morì. Non uscivo quasi mai. Mi arrampicavo agli scaffali; tiravo giù, a grande stento, i grossi volumi del Sigonio, e vi leggevo l'avventura di Adelaide regina d'Italia. Più spesso e più volentieri sedevo sulla loggia a leggere e rileggere i romanzi di Walter Scott. E da quella loggia la vedevo in un giardinetto, e, ora imaginavo di essere io Waverley e lei Flora, ora tenevo per certo che Rebecca non fosse di lei più bella, né io men prode di Wilfrid di Ivanhoe. Eravamo nati nello stesso mese; avevamo superato tutti e due quella terribile scarlattina, che uccise tanti fanciulli della nostra età; bambini, avevamo giocato insieme. Alcuni anni dopo, la sposò un vostro concittadino.

Come mi si ridestano queste memorie? Ecco. Il mio primo «discorso» fu pronunziato nella chiesa del mio paesello. Ora che ci ripenso, non trovo parole per giudicare come meritava di essere giudicata la mia sfacciataggine! Era morto l'arciprete. Si chiamava Buggi; portava, nei giorni solenni, nelle processioni di S. Cataldo e di S. Giacomo, una mozzetta di velluto violaceo, che accresceva dignità alla sua persona non alta. Non era tenuto per una testa forte, ma tutti lo stimavano e l'amavano. Raccogliemmo, Saverio ed io, gli scolari più grandicelli, e li conducemmo alla chiesa. Io dovevo recitare l'elogio funebre.

Non ricordo una parola di quello, che lessi; ma rivedo la chiesa grande, bianca, nuda, quella chiesa, che egli avrebbe voluto rifare bella, e perciò ogni domenica ci menava, piccoli e grandi, a raccoglier sassi e portarli alla fornace. Mi maravigliò il piccolo numero di persone presenti, quasi tutte del popolo. Non riflettevo che era una fredda mattina d'inverno e fuori la neve era alta. Chi mi ascoltò? Forse nessuno, forse la «maestrina».

Quando uscimmo all'aria aperta, la neve scintillava ai raggi del sole, e l'accompagnamento al povero morto si mutò per noi in una bella passeggiata. Fuori del Camposanto, due rozze croci di legno segnavano le fosse degli Accetturesi.

Chi sa se si ricorda ancora di quella passeggiata mattutina, in mezzo alla neve alta, sotto il cielo azzurro, la gentile maestra, che sola mi fu cortese di una stretta di mano? Non ebbi, per molti anni, notizie di lei, che prima adoperò i cartelloni, la lavagna e i gessetti per l'istruzione delle fanciulle di Pietrapertosa. Quando F. Martini mi nominò capo di divisione per le Scuole Normali, ricevetti da Dronero una letterina firmata «Margherita Rossi». Era la «maestrina», e mi domandava se il nuovo capo di divisione fosse quel tale che ella aveva conosciuto giovinetto, tanti anni prima, in Basilicata. Risposi: «Proprio quello». Lo dissi una volta all'on. Galimberti: a Pietrapertosa, la cultura femminile venne da Cuneo. Le mie coetanee non sapevano leggere né il libro della messa, né le dichiarazioni degl’innamorati.

Come mai ella e sua madre - una simpatica vecchietta - fossero state sbalestrate da Cuneo sino a Pietrapertosa, non sono mai riuscito ad indovinare. Vive ancora? Se vive - e viva sana e felice! - non le rincresca di veder qui stampato il suo nome.

Con così precoci auspici, nella mia giovanile vanità avrei potuto, forse, prevedere che un giorno sarei divenuto oratore facondo se non eloquente; sarei stato ascoltato di buon grado, se non calorosamente applaudito. Niente di tutto questo. Non divenni facile parlatore, come non divenni bozzettista o novelliere, non ostante un gigantesco romanzo storico, Adelaide a Canossa, che fu cura assidua del mio quindicesimo anno. E pensare che in quella risma di carta, in cui stemperai il racconto succinto del Sigonio, c'era un po' di tutto! Un lago, un'isola, una torre, un sotterraneo, una barca, un castello, due reggie, frati, pescatori, giullari, soldati, cavalieri, conti, vescovi, marchesi, due o tre re, due regine, burrasche, chiari di luna, fughe, inseguimenti - come nel sogno di Don Abbondio - assedii, agguati, scaramucce, battaglie in campo aperto, giostre e tornei, la caduta d'un regno, la risurrezione dell'impero...

Per molti anni, ogni giorno, parecchie ore al giorno, parlai dalla cattedra; ma - voi lo sapete - altro è parlare a giovinetti, a discepoli, di argomenti noti e ristudiati per l'occasione, metodicamente, serenamente; altro è parlare fuori dalla scuola, in forma svelta e rapida, non scolastica, non pedantesca, ad un pubblico intelligente e colto. Già, anche quando insegnavo, al ricominciare de' corsi, specialmente se in una classe nuova, provavo un po' di trepidazione il primo giorno. Ma il pubblico m'inspirava come un senso di sgomento, del quale non so del tutto liberarmi nemmeno ora, dopo tante prove, dopo aver avuto l'onore di rivolger la parola a uditorî numerosissimi, intelligentissimi e coltissimi. Non l'avreste supposto, voi, che mi sentiste, nel Congresso di Torino, discorrere all'improvviso, e non brevemente, più volte; non vi sareste, allora, imaginato, che ogni volta avevo fatto uno sforzo per persuadere me stesso che non avrei esposto troppo male cose, che era utile divulgare, né mi sarei impappinato, né mi sarebbe mancata la voce nel bel mezzo del ragionamento. A Cesena, per esempio, undici anni or sono, avrei potuto dire quello, che avevo con molta attenzione pensato, che sapevo a mente per filo e per segno: non ci fu verso, dovetti prima scrivere, e poi leggere. Quasi invidiai il nostro Cavazzuti. Con quanta franchezza diceva, lui! Con quale padronanza di sé! A Sant'Arcangelo non potetti far a meno d'improvvisare; ma, quando mi levai dal seggiolone, la voce mi tremava, e non solo la voce. - «Un vero successo!» mi disse, dopo, tutto contento, il buon Zoli, il mio amanuense, che non si aspettava quella «sorpresa». Non è molto, Tullio Galliani, il maestro di quinta, mi assicurava che a Sant'Arcangelo si ricordano ancora di quel «discorso»... di cinquanta righe. Brava gente! Veramente io devo molto alla mia dimora di circa venti mesi in Romagna. Feci il noviziato nell'Amministrazione - non senza onore, devo credere, se, in capo a venti mesi, Paolo Boselli mi volle a Roma, nel Ministero -; acquistai la pratica degli affari; studiai l'organesimo e i bisogni della scuola elementare; conobbi nobili e forti caratteri; strinsi amicizie, che durano e dureranno; nelle ore, che l'uffizio mi lasciava libere, iniziai le ricerche intorno ai Romagnoli nominati nella Divina Commedia; infine, cominciai a diffidar meno di me stesso, a vincere la mia ritrosia, e m'abituai a parlare al pubblico.

A Misano, dove andai per consegnare la medaglia d'argento alla maestra - dolce a ricordare, mi accompagnarono Onorio Bersotti, Pio Squadrani e Pietro Marinelli, carissimi amici - parlai nella chiesa, dall'altare maggiore, e mi pareva d'essere Roberto da Lecce.

«Questione di nervi», mi osserverete, sorridendo del vostro sorriso arguto, pieno di sottintesi. Non nego; ma anche conseguenza degli anni, ne' quali si plasma il carattere, i quali io vissi nella solitudine e nel silenzio, senza compagni di studio e senza maestri. Così mi spiego i difetti, che sono parecchi, e i pregi, se qualche pregio c'è, di queste «parole». Può essere un pregio la brevità; ma rasenta, a volte, la secchezza, e svapora nell'indeterminatezza: concetti piuttosto accennati che svolti, povertà di idee intermedie, mancanza di sfumature. Ad Albano condensai la materia di un libro in pochi periodi. L'efficacia, quando c'è, è un pregio; ma non sarebbe maggiore, se si giovasse di taluna di quelle imagini, che, dando rilievo alle idee, le fissano nella mente dell'uditore? Nella scuola del De Sanctis imparai a preferire la proprietà all'eleganza, la schiettezza agli ornamenti, e mi avvezzai a non costringere tre vocaboli a stare insieme quando ne bastano due; però qui dentro, a mente fredda, più del desiderio di dir bene, ritrovo il desiderio di finir presto.

Perché, dunque, raccogliere? Perché ristampare? ... A questa domanda, la risposta la darete voi, caro Miraglia. Io vi stringo la mano affettuosamente.

Montefiascone, 23 agosto 1901

Vostro FRANCESCO TORRACA

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