I percorsi di Giustino Fortunato
date
1880-11-06
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Lettere dalle Province_6 novembre 1880
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3 novembre
L’esempio di
È un movimento che importa secondare e ingagliardire, perché le condizioni sociali del circondario di
E la prima e più profonda impressione, che riceve chi viene in questi luoghi da altri più progrediti, è un amaro senso di tristezza. La grandissima parte degli abitanti sono contadini, cafoni, per i quali la civiltà è un nonsenso, quando non è un nemico. Portano in viso il marchio della miseria, indossano luride vesti: in tutta la persona, nel contegno, nell’andatura stanca, manifestano la degradazione fisica e la quasi assoluta mancanza di vita spirituale; sembrano automi, piuttosto che uomini. Le loro donne sono anche più sparute, i loro bimbi più sporchi e cenciosi di essi. Abitano, generalmente, in tuguri affumicati, dove non entra né aria né luce; dove assai spesso un letto solo (e sarebbe più proprio dire un canile) accoglie tre generazioni della famiglia; dove, insieme con essi, le galline, l’asino e il maiale mangiano e dormono. A
Mentre tutto spingerebbe il contadino a fuggire dai luoghi dove soffre tanto, egli, con singolare ostinazione, si aggrappa tenacemente a’ sassi del suo paesello: resiste alle più sicure promesse, alle più liete seduzioni, pur di restare dove nacque. Se prende in fitto un campo, qui, paga al padrone sei tomola di grano per ogni tomolo di terra, e il 25 per cento a chi gli dà la semenza; se lavora per altri, riceve in compenso venti soldi, o anche meno, al giorno, ed il cibo. Sa che in Puglia, per esempio, sarebbe trattato assai meglio, e non ci va, per non allontanarsi dal suo tugurio, sotto il cui tetto, ogni sera, a qualunque costo, vuol posare le stanche membra.
Può essere timidezza, mancanza d’iniziativa, cieco fatalismo, ovvero sentimento vivo di famiglia; può essere tutte queste cose insieme, ma, ad ogni modo, è un fenomeno, del quale occorrerebbe tener conto, per ritrarne insegnamenti utili. Poiché è strano che, essendo il cafone così come ve l’ho descritto, quelli i quali potrebbero e dovrebbero giovarsi dell’attività e delle forze di lui, non se ne giovino. L’agricoltura, infatti, qui si vorrebbe più prospera. Certo questi poggi ameni, coperti di viti e d’ulivi, hanno un’apparenza di rigoglio, la quale fa vivo contrasto con la tetra uniformità della Dàunia sottostante; ed è anche vivo il contrasto tra i latifondi di laggiù e questi piccoli campi e piccole vigne. Si crederebbe, per ciò, che qui il lavoro dell’agricoltore dovesse essere più intenso, più proficuo, meglio compensato. Invece, le pratiche agrarie, salvo rare eccezioni, non sono molto progredite. Gli ulivi producono frutti abbondanti e squisiti, eppure l’olio è cattivo; la vite dà vino poderoso e di un sol tipo, eppure non si fa niente per perfezionarlo e per provocarne l’esportazione, che sarebbe fonte di ricchezza. Qua e là i fianchi delle colline si vanno spogliando di viti e d’alberi, perché la coltivazione del grano costa meno, e, com’è facile intendere, nella condizione presente delle cose, essa rende più dell’oliveto e del vigneto. Già, se dura così, tra non molti anni, anche
Senza dubbio, al miglioramento dell’agricoltura potrà non poco giovare il saldo costituirsi dell’Istituto tecnico di
E, a proposito di
Il cafone, certamente, ha molte buone qualità. Laborioso, affezionato al suo paesello, contento di poco, rispettoso fino all’umiliazione, per chi crede a sé superiore, ha soprattutto (senza sapere che sia virtù) la virtù della rassegnazione. Ma guai se un giorno dovesse sentire troppo grave il peso de’ mali, che l’opprimono; guai, se, ignorante e abbandonato a’ suoi istinti, ascoltasse la voce de’ promotori di disordine, o si lasciasse trascinare dalla vendetta, passione tanto più terribile, quanto più lentamente e sordamente scava nell’animo rude di montanari avvezzi a maneggiar la scure e il fucile come la zappa e l’aratro! Non si dimentichi, tra essi - in ogni tempo un po’ difficile - trovò fomite e sostegno il brigantaggio. Chi dice che il brigantaggio non fu questione sociale, non ha forse mai visto cosa siano e come vivano i cafoni del
Chi disperderà il pericolo? A sentire gli ottimisti, c’è la panacea dell’istruzione popolare. Certo, l’azione della scuola sarà benefica; ma essa è lenta, non egualmente efficace dappertutto, né abbastanza vigorosa per lottare contro le influenze contrarie, e vincerle. L’istruzione “obbligatoria”, per le condizioni di esistenza della nostra plebe, è una parola, cui non corrispondon punto i fatti. Maestri valenti, che accettino il loro compito come una missione, non mancano; e, per questo rispetto, come per l’intelligenza e l’abilità,
Altri se la pigliano col Governo. A sentirli, l’origine di tutti i mali è stato ed è il Governo, ma, viceversa, da esso deve pur venire la resurrezione e il salvamento. Oh, perché - de’ suoi tanti milioni - non versa qualcuno in queste borgate? Al tocco della invocata pioggia di Danae, la valle più alpestre e triste della
I più serii accusano la mancanza di capitali. Que’ pochi che, al
Mentre riconosco in gran parte giusta la diagnosi, che v’ho riassunta, penso il germe stesso della malattia le sfugga, scambi qua e là gli effetti per le cagioni, o le vegga fuori dell’organismo, invece di cercarle dove sono veramente, nell’interno di esso. Anzi non si può parlare di organismo sociale, nel senso esatto del vocabolo, dove è semplice coesistenza meccanica di elementi eterogenei. Di fronte alla immensa maggioranza misera e avvilita, è un piccolissimo numero di più o meno agiati, i quali vivono di rendita o dell’esercizio delle professione, embrione informe ancora, di gran lunga lontano dall’ideale d’una borghesia colta, attiva, morale, che possa guidare con mano sicura le sorti sue e le altrui. Ad essi manca l’intelligenza, manca bensì qualunque idealità, se non proprio la nozione precisa de’ loro doveri e de’ loro più alti interessi. (Per esempio il porre l’ideale della felicità nell’agio tranquillo, il preferire la «giamberga» del laureato alla casacca dell’agricoltore, il chiamar e credere dottrina un’inverniciatura che non riesce a celar l’ignoranza). Dalla storia non hanno ereditato se non difetti e pregiudizii, né finora han trovato modo di ritemprarsi con lo studio e con il lavoro. Molto sarebbe da aspettare dalla gioventù, pronta e vigorosa, se scuole secondarie ed Università fossero diverse da quel che sono, se intendessero, ciò che non fanno, a formar la coscienza nazionale e il carattere.
Una classe politica, dirigente, la quale fosse guarentigia di sicurezza e di prosperità, non esiste; poiché non bastano a formarla i tre o quattro bene intenzionati, quanti se ne contano in questo o quel comune, divisi tra loro, impotenti tanto a tirarsi dietro i deboli e i timidi, quanto ad opporsi alle passioni meno nobili, che si combattono con tutte le armi nel campo chiuso delle amministrazioni municipali. I migliori o i più ricchi se ne vanno a Napoli; di quelli che restano si impossessa, a lungo andare, l’indifferenza della cosa pubblica, l’inerzia, ovvero la smania dell’ambizione e del tornaconto, col suo codazzo d’invidia, di maldicenze, di “ricorsi”, di brogli, di violenze: smania, della quale i più grossi mestatori si servono per arrivare più facilmente alle alte cariche elettive.
Ora pensate che il circondario di
Quando, e per che modo, spunteranno i giorni della speranza e della fede?
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