I percorsi di Giustino Fortunato

date

1885

author

Fortunato, Giustino

title

Lettera di Giustino Fortunato al marchese Gioacchino Cutinelli di Rendina

summary

Lorem ipsum dolor sit amet

bibliography

  • Fa parte di: "Pagine e ricordi parlamentari", vol. I, Firenze, Vallecchi, 1920, pp. 241-246.

teibody

Roma, 10 aprile 1885.

Carissimo Amico,

Non vi so dire la emozione che ho provata nel leggere, ne’ due ultimi fascicoli della Lucania Letteraria, da voi gentilmente inviatimi, il racconto del povero paesetto, improvvisamente scomparso dal numero de’ nostri Comuni, e il cui titolo di nobiltà cessa con voi, unico della illustre famiglia, che tanto, nel passato, si rese benemerita della floridezza di quello. Ci conoscemmo, se rammentate, in Napoli, il 28 febbraio del 1871, a’ funerali del giovane, poco più che ventenne, vostro cognato Francesco Antonacci, ultimo di una famiglia pugliese, che trenta giorni dopo il Manzoni, che l’aveva conosciuta, chiamava «ottima» nella celebre lettera su l’unità della lingua italiana, diretta, per l’appunto, all’indimenticabile zio di lui, Alfonso Della Valle di Casanova: col quale, - non giunto ancora da Trani il misero padre, - dolorosamente io avevo assistito, in un quartierino di vio Giovanni Bausan, alla vaneggiante lunga agonia, - primo de’ miei amici della prima giovinezza, - e del dolce suo animo e de’ puri costumi toccò a me, la dimane, di scrivere in un giornale della città.

Da allora più volte noi ci siamo riveduti, o qui a Napoli o a Potenza; e a Potenza, non più tardi di due anni addietro, ospiti dell’amatissimo comune amico ex-deputato Francesco Lomonaco, solo nostro rappresentante di Destra, pur lui, nelle clamorose elezioni generali del 5 novembre 1876, abbandonato da’ vecchi suoi elettori di Matera. E allora, oh come voi mi riparlaste, col vivo accento dell’animo, del prediletto vostro Campomaggiore! Chi ci avrebbe, a tutt’e due, detto, che, di lì a non molto, una frana, - terribile parola nel vocabolario orografico del Mezzogiorno peninsulare, - sarebbe bastata a distruggerlo, facendolo scomparire da un giorno all’altro?

La frana! Essa, la malaria e il terremoto, secondo diceva a me, fanciullo, l’anziano degli zii paterni, rappresentano «i tre legati ereditari» di tutta quanta l’ Italia Meridionale, e, in particolar modo, della nostra provincia, - di cui, ormai, io non più ignoro, che le quattro mobili sue fiumane, racchiuse tra le Murge a levante e l’Appennino a ponente, siano idraulicamente, inassettabili; - ed egli, il caro zio, - con cui, forse, vi incontraste nello studio del celebre avvocato Starace, - bene aveva eretta, in fondo al giardino di Rionero, dopo il terremoto dell’agosto 1851, una piccola erma, con su incile le parole, a lungo enigmatiche per me,

MEPHITI – RVINAE – TERRAMOTVI SACRVM

piccola erma, che io non più ritrovai tanti anni dopo…

Ruinae, che è quanto dire rupi o falde scoscese e franate, dote funesta de’ terreni eo-miocenici, di cui noi quaggiù tanto abbondiamo; picchiettati di quella speciale erba delle argille instabili, la tussilago farfara, che i nostri contadini chiamano, voi sapete, «ciampa di cavallo»; e la cui vista lungo i terreni per lo più a pendio, tante volte ha malinconicamente colpito me, solitario camminatore delle nostre provincie, in cerca di una verità, che io non più dubito di avere dolorosamente trovata! O che è mai il frequente spettacolo, tra noi, assai spesso pauroso, di pendici fendute come in un cataclisma, di strade rotte da voragini, di torrenti in rapina e ponti crollati e campi sconvolti quasi per un improvviso scuotimento o un furioso nubifragio? Come dimenticare l’accorato viso e l’inesprimibile accento de’ nostri lavoratori, se, incontrati per via, e chiesta loro ragione del fatto, essi rispondono, scrollando le spalle, con quella sola parola: «la frana»?

Già, né a voi né a me riesce nuovo, che proprio alla nostra provincia spetti il triste privilegio di aver sempre sofferto, e di soffrire, un tanto male: tra noi, ne’ quattro nostri Circondari, per tanta parte inameni e deserti, quanti paesi spariti, quanti riapparsi distanti da dove erano prima, con nomi o nuovi o rifatti, ma in contrasto con la sonorità di loro pronunzia! E che dire della più assoluta inesistenza di alcuna traccia delle tanto decantate vie romane, - a cominciare dall’Appia, famosissima, - che, secondo gli torici e la tradizione, solcavano per ogni verso il Mezzogiornom? Invano io ho tentato, pedestremente, rifare il tracciato dell’Appia vetus da Benevento all’Ofanto, e della Erculea da Venosa a Potenza, dopo che questa aveva, per l’appunto, valicato l’Ofanto a San Nicola di Melfi con un gran ponte, di cui avanzano, contorti dalle fondamenta e rimbalzati di più metri, i grandi piloni a mattoni. Una sola delle antiche nostre vie ha sicuro e ancor visibile il tracciato, da un capo all’altro di essa: è la Salaria, ab Urbe ad mare Hadriaticum, per Rieti e l’estremo Abruzzo teramano; - ma – neanche a farlo apposta, - esso segue, passo passo, proprio il confine del Regno di Napoli, quale da oltre un millennio Carlomagno segnò tra le due Italie. Del resto, ho io, forse, bisogno di rammentare a voi, che, fino alla venuta di Carlo III, «strada» e «tratturo» valsero, tra noi, lo stesso; che la moderna strada carrozzabile, - ghiaiata e battuta, - esiste quaggiù appena da un secolo, e a Potenza non si vide se non al 1818, a Melfi il 1831, a Tricarico il 1849, a Matera il 1860; che, insomma, le magnifiche due «consolari» parallele della provincia di Bari, da Barletta e da Canosa in giù, rimontano non più che a un ventennio prima del Regno d’Italia? Vi è, forse, ignoto per quanti anni il nuovo Regno dové affaticarsi intorno al problema degli scisti galestrini, ne’ grandi trafori della strada ferrata da Napoli a Foggia, dell’Appennino di Ariano, che solo l’ingegnere Giuseppe Lanino, piemontese, di gloriosa memoria, seppe risolvere, sostituendo alla sezione ovoidale della rivestitura la sezione circolare, così da avere come un cilindro di fabbrica da un capo all’altro della galleria? E chi più di voi, quale consigliere della provincia, conosce le enormi difficoltà che, da più decenni, Governo e provincia incontrano nel menare a termine la costruzione delle due grandi strade nazionali dal Tirreno allo Jonio, lungo le valli dell’Agri e del Sinni, che genialmente, e ben prima del 1860, il generale Alessandro Nunziante ideò e fece approvare da Ferdinando II?

Niente di più arduo, per noi, che la questione della viabilità, a causa, indubitatamente, della instabilità de’ nostri terreni. I padri nostri l’avevano, sia anche in minima parte, risoluta, dando la maggiore possibile importanza alle vie vicinali, per lo più semplicemente mulattiere, la cui manutenzione, fondata su la consuetudine, era, d’ordinario, a carico de’ frondisti: uno de’ tanti ripieghi, cui sono condannati i paesi poveri. Oggi le nostre vie vicinali, anche le più prossime agli abitati, vanno alla malora, perché noi ci siamo incaponiti a pretendere, che ci si dovesse tutta una rete di vie comunali non inferiore a quelle dell’Alta Italia, della Toscana e dell’Umbria; e sa Iddio quanto danaro abbiamo gettato sin qui, quanto ne dovremo dar via, finché non saremo tornati su la incauta legge votata! Quando ci convinceremo che è un sogno pretendere di far d’un colpo la immensa via, che ancora ci separa da’ fratelli di lassù? Quando impareremo a non dir parole né a chieder cose che non siano informate alla realtà di nostra terra?

Perdonatemi, onorevole Amico, se mi sono lasciato andare, suggestionato dalla lettura della vostra «necrologia», come giustamente è intitolata la storia del povero Campomaggiore. Del quale io sono in grado, grazie alla mia buona sorte, di darvi sicure e prospere notizie. L’altro ieri ho riveduto l’onorevole Depretis, che è felice di farvi sapere per mezzo mio, che, certissimamente, di qui a tre mesi il disegno di legge per la ricostruzione dell’amato vostro paesetto, al cui studio è intento, sarà legge dello Stato.

Ed a voi giunga il memore devoto mio saluto.

GIUSTINO FORTUNATO

Il 16 giugno, infatti, il presidente del Consiglio, di concerto col ministro del Tesoro, presentava alla Camera un disegno di legge, che a titolo di concorso accordava la somma di lire centomila al comune di Campomaggiore, «con l’obbligo di erogarla nella costruzione in muratura di abitazioni da cedersi in proprietà alle meno agiate delle sue 309 famiglie»; - ed eguale somma esso stanziava per altri piccoli Comuni delle provincie meridionali, «anch’essi danneggiati ne’ terreni e ne’ fabbricati dalle ostinate piogge di tutto l’inverno». – Il disegno, mandato alla Commissione generale del bilancio, ne tornava il 23, relatore l’on. Lacava, che a nome de’ colleghi, «vista l’ora del tempo e la non dolce stagione», ne proponeva, senz’altro, l’approvazione. Cittadini e Corpi morali della provincia erano venuti in aiuto alle prime necessità della povera gente di quello, tra’ paesi della valle del Basento, più industrie e fiorente, e il Consiglio provinciale aveva già votato L. 40,000 per l’acquisto dell’area, su cui impiantare il nuovo fabbricato. – Approvato due giorni dopo, e la sera stessa passato al Senato, da parte del cui Ufficio Centrale favorevolmente, la dimane, riferiva l’on. Senatore Luigi Corti, esso era legge dello Stato il 28 giugno 1885, n. 3169.

Ma preso il soccorso risultò assai inferiore al bisogno, quello, cioè, di far risorgere Campomaggiore tre chilometri circa lontano, lungo la strada provinciale da Laurenzana a Tricarico, e in territorio assai esteso, ma presso che deserto. Non tardò quindi molto ad apparire la urgenza d’un maggior concorso governativo, non più quale atto di beneficenza, ma come mezzo all’amministrazione comunale per ottener mutui di favore dalla Cassa de’ Depositi e Prestiti, secondo le norme dettate dalla recente, munifica legge per i danneggiati dal terremoto di Liguria. E il mutuo che il Crispi, succeduto al Depretis nella presidenza del Consiglio, tuttora il Magliani ministro delle finanze, propose in L. 564.000, valevoli alla costruzione, non che degli edifizi comunali, di buoni alloggi per oltre mille abitatori, formò oggetto di un secondo più provvido disegno, che, presentato alla Camera il 9 ed approvato il 19 luglio ’88, relatore, per conto della Commissione generale del bilancio, il deputato Lucca, pur esso la dimane andato e tre giorni dopo votato dal Senato, relatore dell’Ufficio Centrale l’on. Senatore Giuseppe Rossi, - fu legge il 26 luglio 1888, n.5600.

ATTI PARLAMENTARI, Documenti, Legisl. XV, Iª Ses., Camera de’ Deputati, nn.342, 342 A; Senato del Regno, nn. 237, 237 A; legislatura XVI, 2ª Ses. Camera de’ Deputati, nn. 183, 183 A; Senato del Regno, nn. 125, 125 A.

notes alpha

    notes int