Il decreto ministeriale del 27 maggio del 1884 poneva termine, dopo sedici anni dacché l’onorevole Menabrea si fece per la prima volta a parlarne, alle ultime questioni della ferrovia da Foggia a Potenza. Surta faticosamente da un viluppo legislativo, di cui non è l’uguale nella storia delle ferrovie italiane, quella linea ebbe vita, per il primo suo tratto da Foggia a Santa Venere, mercé la tenace volontà e lo spirito di sagrificio delle popolazioni della media Valle dell’Ofanto: e in quanto alla seconda sua parte da Santa Venere a Potenza, essa va debitrice, del suo legale riconoscimento, all’opera previdente dell’onorevole Del Zio, e del suo logico andamento, per il versante orientale del Vulture, al sano criterio dell’ingegnere Mancini: due uomini, i quali da soli pensarono ed agirono, quando altrove bastò appena l’azione molteplice e il pensiero collettivo di rappresentanze politiche e amministrative. Nata, non di getto, né per iniziativa dello Stato, come avrebbe pur voluto l’onorevole Jacini, essa, checché ad altri apparisca, tardò ingiustamente ad aver sanzione ed efficacia di fatto, pari all’alta sua importanza, fino a quel modesto, e pur anto sospirato decreto. Grazie al quale, due problemi vennero, a un tempo, ad avere l’ultima loro soluzione: la reciproca autonomia, cioè, delle ferrovie dell’Ofanto, e la definizione del tracciato di quella fra esse, che più delle altre, per lo addietro, troppo a lungo era stata non curata.
La legge del 29 luglio del 1879, costituendo a Santa Venere il punto di unione delle vie per Gioia e per Avellino, diede origine indubbiamente a una sola e vera grande linea pianeggiante, che dal Sannio al Principato andasse giù dritta fino a Taranto. Essa rifaceva, in tal guisa, gran parte dell’Appia antica, già ricordata alla Camera dei deputati nelle memorabili tornate dell’anno 1865. E, quando si pensi, che a compiere davvero tutto il tracciato di quell’arteria, che da Roma menava a Brindisi, non mancherebbero oramai se non i due soli tronchi da Caianello a Telese e da Gioia ad Ostuni, il primo già riconosciuto dalla stessa legge in quarta categoria, e il secondo più volte reclamato alla Camera dall’onorevole Serena: quando si pensi a ciò, non è possibile non dar lode al ministro e al Consiglio superiore dei lavori pubblici, i quali, col decreto del 27 maggio, vollero fedelmente mantenuto a Santa Venere il caposaldo di ambedue le linee. E, fortunatamente, l’assoluta autonomia loro, di fronte alla linea di Potenza, è già assicurata dagli studii degli uffici tecnici e dalle deliberazioni dei supremi consessi dello Stato.
Il Consiglio superiore in effetti, nella vertenza insorta fra i comuni della provincia di Avellino per uno o per l’altro passaggio della linea dal bacino dell’Ofanto a quello del Calore, ha posto, con un suo voto motivato del 10 maggio 1884, al di sopra di ogni contestazione il tratto da Santa Venere a Lioni, approvando il piano già indicato dal Gargiulo e dal Pesapane, e confermato dagli stessi ingegneri Fabris e Ferrucci: il quale, per una lunghezza di cinquantaquattro chilometri sui centosedici di tutta quanta la linea, avrebbe, da un capo all’altro, cinque stazioni intermedie, una cioè al ponte di Pietra dell’Olio, e le altre all’Iscone, a Calitri, a Conza della Campania e a Teora, ove affluirebbero le popolazioni di Monteverde, Aquilonia, Rapone, Ruvo del Monte, Castelgrande, San Fele, Pescopagano, Sant’Andrea, Andretta e Morra Irpina.
E, in quanto all’altra via di Gioia del Colle, il primo suo tratto dal ponte di Santa Venere ai campi della Réndina, il cui studio esecutivo, fin dal 22 marzo del 1884, venne menato a termine dall’ingegnere Norsa, capo dell’ufficio tecnico sedente in Altamura, anch’esso è già tutto indicato, letteralmente conforme alla legge, in piano affatto libero e autonomo: una traccia, che meglio potrebbe dirsi un solo rettifilo, il quale, tramezzato da una piccola stazione a San Nicola, va defilato per ventitré chilometri, a traverso le falde settentrionali delle Serre di Melfi, dalla sponda dell’Ofanto all’angolo di confluenza delle fiumare di Venosa e di Ripacandida; di là da cui, anche più sicuramente, la via muoverà alla volta di Palazzo San Gervasio e delle Murge di Gravina.
Non così agevole né punto così facile, in quella vece, sarà la linea, che dal ponte di Santa Venere metterà capo a Potenza: una linea, che, di fronte all’Avellino-Santa Venere-Gioia, rappresenta, su per giù, quel che la via via Erculea, da Erdonia al Casuento, era già rispetto all’Via Appia. Certo, essa ha ben altre pendenze da superare in quasi tutto il suo corso, dovendo salir dall’Ofanto alle colline di Melfi; e, valicato l’Appennino ad Avigliano, scendere al Basento per la valle del Rivisco . Ma a tutte le difficoltà del suo profilo altimetrico soccorre, per due terze parti del tracciato, la natura del terreno, vulcanico da Santa Venere a Lagopesole, e calcare cretaceo nel suo nodo principale del Monte Carmine, però che lungo la TieraTiera soltanto s’incontra l’eocenico e dal Rivisco a Monte Carmine il pliocenico, tanto avversi alle solide costruzioni ferroviarie: quell’eocene e quel pliocene, sí ricchi purtroppo i marne ed argille, e sì abbondanti nei due bacini di Atella e di Baragiano. E del tracciato della linea, quale è stato definitivamente segnato dagl’ingegneri Fabris e Ferrucci, è qui bene fare parola, come a termine di questa memoria, a quelli fra i lettori, cui sia a cuore il sollecito compimento della ferrovia da Foggia a Potenza.
Dopo una breve curva nella superficie di falda, rimasta libera tra la stazione e l’alveo del fiume, si attraversa l’Ofanto, a 225 metri sul livello del mare, con un ponte, che dovrebbe, senza dubbio, esser comune anche alla linea di gioia. Di là, svolgendosi per il declivio boreale del Monte Solorso con la pendenza massima del venticinque per mille, sale man mano alla quota altimetrica di 530, da cui, per la galleria del Cardinale, lunga non più di mille metri, passa nel bacino della Melfia, e va giù, poco dopo il sedicesimo chilometro, alla stazione della città.
Da Melfi a Barile, cioè da 495 a 620 metri sul mare, svoltato a manca il cono di Sant’Agata, la linea corre per sei chilometri, a monte e non in giù dell’ampia strada provinciale, traverso burroni e dossi di viva roccia vulcanica, a vincere i quali, secondo l’ingegnere Lanino, non occorrono se non due trafori di cinquecento metri ognuno, e quattro viadotti dai quindici ai venti metri di altezza. E sempre a monte della via rotabile, mercé due sole e brevi trincee, bisognerà pure che la traccia continui il suo cammino, per altri tre chilometri, fino alle ultime mura del comune di Rionero (640 metri). Oltrepassato il quale, la linea si dirige più libera e più agevole, quasi prossima al displuvio del contrafforte che avvince il Vulture all’Appennino, giù ai piedi del castello di Lagopesole (740 metri), cui certo farebbero capo tutti i casali dell’alta conca della fiumara di Atella, e, costruito un braccio di via, il comune stesso di Forenza, che si rattrova all’opposta pendice: il più bel tratto, dice il Lanino, di tutta quanta la linea, lungo diciotto facili e sicurissimi chilometri.
Fin qui, tanto il Lanino quanto il Fabris e il Ferrucci furono pienamente d’accordo nell’ammettere l’andamento generale, che l’ingegnere Mancini indicò primo nel progetto dell’anno 1881. Ma, riguardo alla discesa da Lagopesole al Basento, cioè al passaggio dal versante adriatico a quello del Jonio, pur troppo non si ebbe, né in verità era possibile averla, uguale e pronta unanimità di pareri. Il Mancini, risoluto ad evitare ogni sorta di gallerie, pensò, piegando a manca nella curva fra il Sant’Angelo e la Torretta, di far gomito per la cappella di San Giorgio e il casale di San Nicola, e di scendere alla stazione di Vaglio lungo tutta la riva sinistra della Tiera. E, senza dubbio, la sua traccia non può, a primo aspetto, non sedurre chi si faccia a guardare la sola carta topografica. Ma da San Giorgio alla Tiera, com’ebbe ad osservare il Lanino, il terreno cangia d’un tratto natura, e, perché argilloso, diventa affatto mobile ed insicuro. «Su’ fianchi orientali del monte Sant’Angelo (egli dice), s’incontrano parecchie frane potenti ed estese, che mettono in dubbio la possibilità stessa dell’andamento. Esaminando le diverse soluzioni, che la località suggerisce, la più radicale senza dubbio sarebbe quella di un luogo sotterraneo, per cui mezzo si potesse raggiungere il fondo della Tiera, dal quale si avrebbe agio, mercé cinque piccoli ponti su questa e parecchie opere di difesa, di percorrere il torrente fino alla stazione di Vaglio»
. Ed egli, l’ingegner Lanino, non osò per allora emettere a prima vista un giudizio definitivo. Ma delle sue parole certamente dovettero far tesoro il Fabris e il Ferrucci. A’ quali, messa da parte l’idea di svolgere tutta quanta la via allo scoperto, parve miglior concetto quello di andar diritto su, ancora un pezzo, per altri quattro chilometri, fin oltre il casale di Sarnelli a manca, e quello de’ Frusci a destra, e alla quota di 850, presso la masseria de’ Sabia, aprire l’imbocco del traforo appenninico della Madonnetta, che, dopo soli quattro chilometri di lunghezza, avrebbe uscita al sommo della Tiera e a due passi dalla stazione di Avigliano, popoloso di 15000 abitanti, da canto a’ mulini di Santa Tecla (858 metri). «Il colle della Madonnetta (è scritto nella relazione), che ha il suo punto culminante di altezza a 1,062 metri sul mare, è formato, secondo le osservazioni dell’ingegnere Foderà, di calcare cretaceo. Si potrà quindi scavare la galleria con pozzi di moderata profondità; e si può altresì presumere, che essa si presenterà in condizioni ordinarie, sia per la durata del lavoro, sia per l’importo della costruzione. Solo a questo modo la ferrovia giungerà ad attraversare l’Appennino, senza bisogno di ricorrere a lunghi sviluppi, che, in terreni di quella fatta, mercé grandi opere di consolidamento e di manutenzione, farebbero salire a cifre elevatissime il costo della linea e le spese del suo esercizio avvenire».
E dai mulini di Santa Tecla, presso ai quali sarebbe la cinquantunesima colonnetta di tutto il tracciato, la linea discende per undici chilometri, traverso la riva destra della Tiera, alla confluenza del Rivisco, cui giunge la via di Acerenza: donde, risalendo il corso di quest’ultimo fino al ponte della strada rotabile provinciale, incontra poco dopo, alla quota di 720, l’ultimo suo traforo di Pietracolpa, lungo due chilometri e mezzo. Dallo sbocco del quale, piegando a valle per il declivio meridionale delle Mattine, essa raggiunge la meta, dopo il sessantottesimo suo chilometro, alla stazione di Potenza, che si eleva di 671 metri sul livello del mare.
Questa la traccia, cui il Governo ha dato sanzione, della ferrovia dall’Ofanto al Basento. Più breve di quattro chilometri del progetto del Mancini, l sua minore percorrenza fa ragione senza dubbio della complessiva maggior lunghezza di gallerie, e quindi la sua costruzione certo non ammonterà a un importo superiore a quello, cui sarebbe asceso l’altro. Attenendoci alle norme già indicate dall’ingegnere Lanino, e applicando al caso nostri i calcoli già fatti da lui, il solo piano stradale, innanzi tutto, richiederebbe una spesa, esattamente presunta, come qui appresso:
da Santa Venere a Rionero chilometri 25 a lire 215,000.............L. 5,375,000
da Rionero a Lagopesole chilometri 18 a lire 145,000...............L. 2,610,000
da Lagopesole a Santa Tecla chilometri 8 a lire 600,000............L. 4,800,000
da Santa Tecla a Potenza chilometri 17 a lire 220,000..............L. 3,740,000
Totale.............................................................L. 16,525,000
alle quali, aggiunte poi per fabbricati di stazioni e case cantoniere, e per il telegrafo……...1,000,000
e per provvista del materiale di armamento e materiale fisso………………………………2,000,000
si avrebbe, per tutto quanto l’ammontare delle spese di costruzione, un totale di………L.19,525,000
ossia, una media di lire 287,132 per chilometro. Or se si pensi, che il costo della sola linea dalla fiumara di Atella alla Eboli Potenza, nei computi della legge del 1879, fu presunto non inferiore a lire 18,000,000, perché a un tracciato, che voleva ad ogni costo superare l’Appennino a San Cataldo, non era possibile non assegnare una media chilometrica di lire 310,344; quando perciò si consideri, che la variante adottata, più lunga, bensì, di dieci chilometri, ma tanto più utile alle popolazioni interessate, non importa, nello insieme, una eccedenza di spese oltre il milione e mezzo: anche il menomo dubbio, su la giustizia del provvedimento preso dal Governo, deve di necessità venir meno. Siffattamente intesa, la questione stessa si semplifica in modo singolare; ché essa, per verità, si riduce a una mera definizione del tracciato di quella unica e sola linea, che in virtù della legge, per un versante o l’altro del Vulture, è d’uopo che salga a Potenza.
E, perché a tal fine le spese di costruzione non eccedano i limiti previsti, gl’ingegneri Fabris e Ferrucci giustamente consigliano «che l’andamento sia conforme quanto più è possibile alla varia configurazione del terreno, anche a costo di aver curve a raggio inferiore ai 300 metri, là ove le pendenze siano moderate; che si evitino le trincee profonde nei terreni instabili, e che infine si riducano i fabbricati occorrenti, mercé uno studio speciale intorno alla qualità e alla provenienza de’ materiali, al puro necessario, non convenendo a una ferrovia di montagna tutto ciò che abbia, anche di lontano, l’apparenza del lusso».
Ciò non esclude però, che essi raccomandino vivamente lo scartamento ordinario a solo primo tipo economico, sembrando loro ´che troppo scarse risulterebbero per l’esercizio della linea le più ristrette sezioni del secondo e del terzo tipo economico». Né diverso è il parere del Consiglio Superiore, perché anch’esso «conviene, che per la costruzione della linea debba adottarsi il primo tipo economico, non essendo stato in altri casi seguito il concetto di applicare le sezioni ridotte a un certo numero di ferrovie complementari, le quali, tutte insieme, potessero costituire un gruppo a parte».
Con queste norme e con queste indicazioni, il 30 giugno del 1884, alle squadre degl’ingegneri della Società per le strade ferrate meridionali, cui spettò l’onore di studiare «la direttissima» da Roma a Napoli, veniva dal governo dato incarico di compiere i progetti tecnici esecutivi per la linea da Santa Venere a Potenza: una di quelle ferrovie complementari, onde il Cavour voleva «fasciata l’ Italia Meridionale», e il Fanti «listato il dorso del patrio Appennino!».