I percorsi di Giustino Fortunato

date

1920

author

Fortunato, Giustino

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«La questione meridionale e la riforma tributaria» [estratto n.3]

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  • "La questione meridionale e la riforma tributaria", ed. La Voce - Società Anonima Editrice, Roma 1920, pp.7-9.

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[…] Io giunsi assai presto alla propria mia tendenza spirituale, dubitativa e realistica. I deplorevoli casi del mio circondario nativo, tra lo scorcio del 1860 e il ’61, che mi ebbero testimone fanciullo, e i passionati anni di discussioni e di avvenimenti politici, che vissi studente qui in Napoli, mi diedero di buon’ora una concezione non ottimistica della parte da noi presa nel Risorgimento, diversa da quella che nei libri e nelle scuole ci si rappresentava, e, ad ogni modo, diversa da quella che più sicuramente vi ebbero le altre regioni d’Italia.

L’acceso desiderio di veder chiaro, appena uscito dall’Università, in tale primo enimma che m’era balenato alla mente, quello, cioè, della inferiorità o meno del Mezzogiorno, mi sospinse, anzi che allo studio del codice, alle investigazioni della storia, sempre più rattristato dalle prove che vi attingevo nel paragonare le alterne sorti delle due Italie (frase ch’io tolsi da Enrico Leo), e le quali spesse volte mi suscitavan dentro l’amaro interrogativo: «perché?». Or avvenne un giorno, che saputo della fondazione in Napoli d’una sezione del Club Alpino Italiano (dove poi, caduta la Destra, sarebbe toccato a me l’onore di raccogliere il saluto di Quintino Sella ai giovani colleghi napoletani), e corso a iscrivermi socio, lassù a Tarsia, nel laboratorio di botanica del professore Pedicini, scienziato ed uomo politico più singolare che raro, poche parole di lui, e del giovane suo assistente A. Iatta, con cui mi presi di fraterna amicizia, bastarono per conquistarmi all’alpinismo, rimasto la passione della mia vita; una passione cui debbo, nonché la salute e la forza di resistenza a tutto un trentennio di elettorato, il proposito, mantenuto per più anni, di percorrere lungo l’Appennino, dagli Abruzzi alle Calabrie, pedestremente, tutta intera la terra meridionale. La quale, se non durai fatica a intendere quanto poco fosse amica dell’uomo, sentii per ciò appunto di dovere, misteriosa e muta com’è, perdutamente amare. E quando, finalmente, varcato il confine da oltre un millennio segnato tra le due Italie, fui preso come per incanto della grande distesa d’acque e di verde, che sempre maggiore e più ridente – da giù in su – copre il resto della penisola, ecco venirmi su le labbra la risposta alla dimanda, che m’ero prima così spesso rivolta: «perché il Mezzogiorno, nel tutto insieme, è un paese assai povero»; e riaffacciarmisi alla mente, nello stesso tempo, il memorabile detto dell’Herder,:«il grande fattore storico delle disparità e dello sviluppo de’ popoli è il clima, poi che gli uomini non sono altro se non argilla pieghevole nelle sue mani». L’arcano mi si era svelato, e l’indirizzo del mio avvenire fatto sicuro. Risoluto quel primo problema, altri ne sorsero, e le soluzioni loro si composero via via in così stretta compagine da ispirare ogni mio pensiero e determinare ogni mia opera: il difficile non è avere «idee», dice bene il Croce; ma avere quell’ «una» che domini le altre, e serva a dar coerenza e saldezza all’azione. Certo, non senza lunghe e pazienti fatiche giunsi a ottener credito, non che dagli estranei, dagli stessi corregionarî; e anche oggi, dopo tanti anni, tutte le noie e le miserie e le amarezze di una vita che pure rappresentò uno sforzo non interrotto di volontà, mi tornan vive dinnanzi, soffiando nell’arida cenere di cui il mio animo poco fa, è stato nuovamente ricolmo. Ma la verità, credevano gli antichi, è come una scoperta che mena a una battaglia, non tanto con altrui quanto con sè stesso; e perciò nessun premio, per un uomo di fede, supera quello di aver potuto, non senza frutto, attestare in favore di essa e soffrire per cagion sua.

Che qualche frutto abbia già dato lo scritto, il quale oggi la Voce ripubblica, stimo potere onestamente affermare; che altro sia in grado di dare, confido. Epilogo di un lungo e maturo esame di tutta la realtà nostra, così del passato come del presente, io sono convinto di non dover correggere una sola proposizione da me esposta, intimamente persuaso, anzi, che non tarderà il giorno in cui quanti giudicano con mente serena, consentiranno nelle seguenti due principali mie asserzioni: che un gran divario di benessere sociale, per effetto di differenti condizioni di clima e di suolo, come i fatti storici di oltre due millenni e mezzo comprovano, è tra una metà e l’altra d’Italia; e che, fin qui, nell’ordinamento tributario italiano è toccato appunto alla parte più povera, contro ogni canone di giustizia contributiva, sopportarne il carico maggiore. Questa la credenza certa è fondata, o, meglio, la religione di dover mio lungo tutti i miei anni di lavoro: una religione, fatta di studio assiduo e di pietà profonda de’ fratelli che la sorte mi diede, assai più meritevoli di commiserazione che di rampogne.

Nel II vol., pp.311-8, de’ «discorsi politici (1880-1910)», Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Bari, Laterza. Da oltre un millennio e mezzo, se piuttosto che da Carlomagno (an. 786) si move da Diocleziano (an. 292), che divise amministrativamente in due vicariati la penisola. «Il nome Italia, che all’epoca di Augusto si era esteso dall’Alpi al mare, sparve allora dalla estremità meridionale, in cui era pur nato; e non più una, ma due e più Italie, vagamente nominate, si ebbero attraverso il Medio Evo». – P. DE GRAZIA, L’uso del nome Italia nel Medio Evo, in «Bollettino della Società Geografica», Roma, 1919.

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