Libro terzo
I. Descrizione del paese degli Svizzeri, e costumi loro
Quantunque i principi e le republiche ne’ prosperi tempi e negli avversi
prendano degli errori, nondimeno alle fiate i loro peccati caggiono sotto
qualche scusa; et altra volta fuor di ogni difesa rimangono, et a ragione
vengono da ciascuno dannati. Non si conviene perdono a quel principe o a
quella republica, che con forze d’uomo da sé molto lontano il suo stato
spera accrescere o conservare: conciossiacosaché colui il quale imprende
briga per te, o lo fa per amore o per timore. L’amore sovente deriva dalla
utilità, e il timore dal sospetto di sé e del suo. Ma essendo il mal
discosto, non si teme, et il bene non si stima; sicché sempre le speranze
degli aiuti longinqui o ti vengono meno, o per la loro dimora non ti
giovano: siccome papa Innocenzio esemplarmente ne fe’ prova; il quale,
infelicemente adoperate le proprie armi, con poco frutto si rivolse alle
lontane. Perciocché il Duca di Loreno, per tanti messi sollecitato, pareva
che ultimamente preponesse una povera e certa quiete al ricco ma dubbioso
acquisto del Regno: e gli Svizzeri, alle cui armi da sezzo si rifuggi,
predato ch’ebbero lo stato di Milano, alle lor case si ricoverarono, datagli
più cagione di terminar la guerra che continuarla. Ma perché questa fu la
prima volta che i pontefici a difesa loro si valsero di questa generazione
di uomini, avendola poi più pienamente e maneggiata et onorata, pare che la
cosa richiegga che, fattici alquanto addietro, a chi nol sa ne diamo
notizia.
La gente svizzera è poverissima, ma di abiti, di favella e di militare
disciplina somiglia la tedesca: abita montagne alpestri, che la Francia e la
Germania dall’Italia disgiungono: vive in regione sana e generativa, ma in
terreno aspro, che niuno buon frutto produce, il paese e gli uomini vengono
dal freddo e dal ghiaccio colti e abbronzati: le lor contrade o sono in
valloni, o sopraposte a luoghi scoscesi e dirupati, e fuori che
dall’asprezza naturale e dal valore degli uomini, da niun altro riparo
afforzate. Abbracciano la libertà e la salvatichezza; fuggono la civiltà e
l’altrui maggioranza; e perciò spensero in una sola giornata tutta la loro
nobiltà. Questa vita dura et a guisa di fiere, come non gli fa assaggiare le
delicatezze e morbidezze del mondo, così nelle guerre li rende intrepidi et
ostinati, non paurosi alle ferite, e del proprio sangue dispregiatori. Erano
di già soggetti all’arciduca di Austria; ora, non che l’ubidiscano, lo
contrastano. Hanno compartite le loro ragunanze in tredici parti, Cantoni da
loro nominate; fra le quali, per la copia delle genti e degli edificii, il
cantone di Zuric appare essere il principale. Usavano per arme la picca e
l’alabarda, et una spada lunga, che con amendue le mani reggevano. Sono in
terrore a’ vicini, per essere pronti all’offese, et alle difese
inespugnabili. Ma sopra gli altri, i duchi di Milano ne temevano, come più
imbelli e più disarmati: i quali nondimeno, sebbene erano loro di forze
minori, essendo maggiori di astuzie, avevano ne’ tempi addietro con arte et
ingegno occupato sulle loro frontiere alquante castella, e perciò con esso
loro ne vennero all’armi. Ma vera cosa è, le imprese degli Svizzeri contra
que’ duchi aver reso un tempo più sembianza di ruberie che di guerre:
perciocché la loro republica, toltasi di fresco dal giogo d’Austria, e dalla
sterilità del paese astretta, senza alcun pensiero di dominio o di
ricchezze, alla sola conservazione della vita e della libertà intendeva.
II. Correria degli Svizzeri sopra lo Stato di Milano
Ma poscia che in aperta battaglia ebbero battuti i Germani, morto il Duca di Borgogna, e che presero intelligenza co’ principi vicini, si accrebbe dalla
felicità l’ardimento, e il loro nome agli Sforzeschi divenne formidabile. Il
primo degl’Italiani che li concitò loro addosso, fu il nostroRe Ferrante: il
quale, essendo in guerra con Fiorenza, per iscompagnare da quella città il
duca Giovan Galeazzo, li persuase ad assalirlo: né gli venne fallito il
disegno. Conciossiaché quei montanari, allettati dalla preda, superando il
Monte Carasso, empierono un gran tratto del Milanese di rapine e d’incendii.
Dietro i quali vestigi camminando ora papa Innocenzio, per conoscersi
inferiore al Duca di Calavria
per lo soccorso portogli da Ludovico, si propose anch’egli valersi contra
quello stato di que’ popoli, e ad un’ora far vendetta dell’ingiusta offesa
di Ludovico, et imporgli necessità a rivocare li suoi soldati: et al
pensiero non fu lungi a seguire l’effetto. Perciocché quelle genti, in
questo non già rozze, stimando gloriosa cosa che il capo de’ Cristiani,
oppressato dall’armi degl’iniqui principi, preponesse per salvarsi la lor
potenza e valore a tutti gli altri; e potendo anche con giusto titolo
rubare; senza mettere tempo in mezzo presero l’armi, e dalla valle di San Iacopo, rovinosamente ne vennero a danni del Milanese. Quivi col ferro e col
fuoco guastavano il paese, e gli uomini uccidevano; e senza aver persona
all’incontro che gli raffrenasse o punisse, ove era più loro a grado sen
givano scorrendo: onde che le ville, superbamente nell’ozio murate, da lungi
vedeansi fumare; gli alberi fruttiferi e le viti, con molto studio di
agricoltori piantate et allevate, da barbara mano venivano tronche et
abbattute; i miseri contadini, posto in abandono le case e i loro arnesi,
da’ luoghi aperti a’ più muniti si ritraevano; e per ogni verso la faccia di
quella tempesta si vedea di fuga, di sangue e di fuoco ripiena.
Ludovico Sforza, che ne’ consigli volse esser sopraumano, e nell’operare
apparve poco più di femmina, percosso da non preveduto assalto, il quale la
fama, come ha in usanza, sopra il vero aggrandiva, incontanente si diede a
ragunar fanti e cavalli; e benché facesse vista di sprezzar quell’insulto,
pure nel segreto dell’animo varie e paventose cose se gli appresentavano.
Era di que’ mesi lo Stato di Milano e di lui in pessime condizioni, né meno
dall’ira divina che dell’armi svizzere travagliato. Perciocché un
pestilenzioso morbo, ch’ebbe cominciamento sulla primavera, in Milano solo
aveva atterrate cinquanta mila persone; senza che, gran parte della gente
rimasa si era per paura sgombrata dalla città. A che si aggiugnea l’essere
il suo governo da’ Milanesi forte odiato, siccome colui che, finita ad
arbitrio suo la guerra Ferrarese, e perciò non temendo più le insidie di
fuori, si pensò di quelle di dentro assicurare: e mentre che il Duca di Calavria, per avventura con pari consiglio, manomettea li Baroni nel Reame,
egli dall’altro canto si rivolse sopra ai suoi feudatarii; de’ quali avea
dubio che, uscito il duca Giovan Galeazzo dell’età puerile, nol tolerassino
più nel reggimento, et in prima, con l’aiuto de’ veleni cacciò del mondo
Pietro dal Verme, che, senza figliuoli, a di molte castella quivi
signoreggiava; le quali, come scadute alla camera ducale, concedette a
Galeazzo Sanseverino, capitano di somma aspettazione, et a lui sì
confidente, che in genero lo tolse. Pose appresso l’armi in mano a Giovanni
et a Vitaliano Borromei, fratelli, et uomini nella città di Milano per
nobiltà e per ricchezze potenti. Tolse l’assignazioni fatte sulle rendite
ducali a coloro da’ quali il Duca aveva accattato danari nella guerra
passata. Oltre a ciò, esso non era ben sicuro che i Veneziani, vedutolo
disarmato, non gli rompessero la guerra, il papa sommamente contra lui
accendendoli. Ma sopra ogni altra cosa lo cruciava, che egli, logorando le
forze e li danari, arrischiasse sé e il suo dominio per istabilire il Duca di Calavria, presente e futuro suo nimico. Sicché, tuttoché gli Svizzeri,
caricatisi di ricca preda, come si è detto, in loro paese si ritraessino,
prese per partito di significare al Duca e al Re i pericoli di
quello stato; e ch’egli, sospinto dalle presenti necessità, era forzato di
richiamare le sue genti; esortandogli a pacificarsi col papa, et a
tralasciare quella guerra, ove senza avanzo di nulla si spenderebbe assai.
Parve al padre e al figliuolo, che l’avviso di lui non fusse malvagio:
oltreché, per la forza poteva far loro, gli conveniva credere. Ammonivali
ancora a porgere orecchie alla sospensione delle armi, più che la richiesta
di Ludovico, il dubio della perseveranza de’ Fiorentini; i quali, per opera
d’Innocenzio, dai Genovesi assiduamente venivano minacciati e insultati:
talché essendo in quelli, per lo pericolo delle cose proprie, la stessa
necessità che in Ludovico, temevano che con la totale rovina dell’esercito,
anche i soldati di quella republica da loro si separassino. Sicché, per
rimuovere da sé ogni biasimo, e far palese che l’accordarsi col pontefice
non rimanea da essi, appo il medesimo Ludovico collocarono piena podestà di
quietarli col papa; pregandolo che in quel mezzo tempo che egli ciò recasse
ad effetto, non volesse muovere da quell’esercito l’armi sue. Tantosto
Ludovico all’uno e all’altro acconsenti: e ad Innocenzio mandò suo
ambasciadore Guido Antonio Arcimboldo, parmigiano, allora arcivescovo di
Milano, e poi cardinale; uomo per lettere e per vita reverendo.
III. Assedio di Roma
Trattanto il Duca di Calavria
seco deliberò di voler ridurre il papa nella maggiore strettezza ch’esso
potesse; o acciocché stucco de’ pensieri della guerra, udito il nome della
pace, vi si avventasse; o pure per indebolirlo in siffatta guisa che per
lunghissimo riposo non si potesse ristorare. Lasciata adunque l’impresa di
Montorio, levò il campo; e da’ terreni aquilani entrò su l’ecclesiastico; e
mandò, dal lato di sopra, Virginio Orsino et il Conte di Pitigliano a
predare: i quali distendendosi velocemente all’intorno, et a molli luoghi
alla sproveduta sopragiugnendo, delle spoglie e degli animali de’ miseri
paesani si colmarono, e salvi e lieti all’esercito rivolsero, o non saputi
da Roberto Sanseverino o non voluti incontrare, per non tentare ancora la
terza volta col Duca la fortuna; la quale in due battaglie contra sé
sperimentata, se non timido, cauto l’aveva reso. Riunite le genti, il Duca
dopo pochissimi giorni, come se volesse combattere la città di Roma,
schierato, a suono di trombe e di tamburi, a vista se gli appresentò. E
benché Roberto, osservando i suoi vestigi, col campo ecclesiastico gli fusse
alle spalle; pure il Duca, e l’esercito di lui, in nome e in fatti era a
tutti tremendo, e stimavasi non aver pari nella guerra, e per lo suo grande
ardire tutte le malagevoli cose dover tentare et ottenere. Venutone,
adunque, il grido ch’egli si appressava alle mura, con tanto tumulto da’
Romani fu corso ver’ quella parte e a serrar l’entrate, che non si legge
maggiore alla giunta di quel fiero Cartaginese. Non fu uomo che potesse
regger l’armi che presentemente non vi si volesse trovare; et i vecchi che a
casa rimanevano, riducendo a mente a’ giovani il valor degli antenati loro,
sé, li fanciulli e le donne raccomandavano.
Il Duca, poco lungi da Roma tesi i suoi padiglioni, ciascun di correva
intorno alle mura; e per le porte e nella città varii romori di notte e di
giorno destavansi: tanto che il papa, dubioso della parte Orsina, determinò
di porvi entro Roberto e sue genti; e fattolo per altro sentiero venire, ve
lo mise. I cui soldati, riguardanti li Romani e davanti agli occhi del
pontefice, continuamente venivano co’ nimici alle mani, et or vinti or
vincitori nella città rivolgevano. Né assai giorni passarono che sopragiunse
l’Arcimboldo, con maravigliosa aspettazione di tutta Roma, che dall’armi
dentro e fuori si ritrovava infestata.
IV. Orazione dell’Oratore milanese al papa
L’Arcimboldo pervenuto ad Innocenzio, lo ritrovò ancora pieno di speranze, et
alla guerra anzi che no inchinato: sicché stimò, la bontà di lui dal
Cardinal San Piero in Vincola e da quasi tutto il collegio, avverso agli
Aragonesi, essere aggirata; e che gli conveniva con franco animo esporre la
sua imbasciata nel publico concistoro. La qual cosa, per l’autorità
dell’uomo, essendogli conceduta, si tolse seco l’ambasciadore d’Ispagna, che
anch’esso grandemente instava per la pace, et in questa maniera parlò:
«L’uom verità, che predisse la navicella di Pietro dalle tempeste del mondo
dovere essere combattuta e dimenata, soggiunse ancora, che ella non mai fia
vinta né sommersa. E quante fiate et in quante maniere l’hanno scossa e
dispogliata e Goti e Vandali e Longobardi e Saracini? Da quante generazioni
di eretici è stata vilipesa e istracciata? Quanti grandi imperii sono a
terra caduti, dacché la pose in piede quel suo fondatore? Veggonsi le leggi
e le costumanze innovate, distrutte le città e le provincie, variate le
lingue; e lei, fra le percosse e le battiture, più ricca e più potente
divenuta. Non si possono le cose divine con forze umane spegnere o scemare:
operano a’ lor danni coloro che la pensano struggere o conculcare. Ora, non
sono eglino risospinti dallo stato di Milano gli Svizzeri suoi compagni,
vinti i Baroni nel Reame, l’armi pontificie rintuzzate e racchiuse? non
tiene la potenza di tre città, che sono i nervi dell’Italia, ristretta
questa Santa Sede? non si veggono dalle mura di Roma le loro insegne et i
loro steccati? non si odono le grida dell’empio soldato, che ha il ferro
ignudo nella destra, nella sinistra il fuoco ardente, e morte e incendio
minaccia? non spera egli adornare le scelerate armi dell’argento e dell’oro
ove si custodiscono le reliquie de’ santi uomini, e i sacrifici si onorano?
Ecco che, mal suo grado, da lui ne viene la salute di lei, e con le sue
stesse armi fia conservata et accresciuta. Il Duca di Milano, e Ludovico che
l’ha in governo, Santo Padre, divoti figliuoli di questa Sede e di voi, nel
vostro men lieto tempo, di avversari vi divengono amici; per guerra la pace
vi profferiscono; il vostro ribelle Revi fanno
suddito e pagante il tributo; sudano per la quiete de L’Aquila e de’ Baroni,
e da lor sicurezza obligano sé, lo stato e l’armi. Col qual merito sperano
conseguire perdono dalla clemenza vostra, massimamente procedendo il lor
fallire da indissolubil nodo ch’eglino hanno co’ reali di Napoli, sin da’
loro maggiori, con saldissimi legami annodato e stretto. Avvegnaché io
sappia di non dover mancare il seminatore di zizanie, a cui la rovina di
altri fa profitto; e dirà: non fia sempre così iniqua la condizione della
guerra; perciocché gli Svizzeri, deposta la preda, con maggiore sforzo
ritorneranno; armerannosi per voi i Veneziani, il Duca di Loreno ne verrà:
al vostro ufficio conviensi castigare i ribelli, e per riscuotere il genere
umano dalle tirannidi, sostenere qualunque avversità; specialmente non
potendosi credere a promesse di uomo disleale e spergiuro. Santo Padre,
l’avere anche io in cura parte del gregge del Signore, l’umanità e pericolo
vostro, mi aggiungono ardire a favellare schiettamente; e dire che le costui
speranze sono lontane e dubie; il mal vostro, certo e soprastante. Oltre che
giudico io, in quanto alla salute dell’anima et all’onor del mondo, voi
perditore dover essere più glorioso, che vincitore per man di gente barbara,
tinta nel sangue italiano, negli stupri e ne’ sacrilegi bruttata. Non si
nega che corregghiate i colpevoli: raccordivisi bene, che a ciò fare il
tempo non sia sinistro, né i mezzi disdicevoli. Ho detto che né la vostra
autorità né il vostro potere può essere spento o offeso. All’incontro,
vorrei che costui mi dicesse, se da vostra Beatitudine vien male usato, se
ne avrete a render ragione; e se non qui dinanzi agli uomini, almeno nel
cielo avanti il tribunale divino: le cui punizioni quanto più indugiano,
tanto più gravano. E se la cosa sta pur così, supplico Vostra Santità, che
voglia riguardare di non consumar l’avere d’innumerabili genti, insieme con
le vite e con l’anime, per salvare l’avere di un popolo solo e di alquanti
Baroni; né per castigar giustamente uno nocente, infiniti innocenti a torto
offendere: tanto più che ragione alcuna non vuole che per difesa delle cose
profane le sacre s’abbino a danneggiare, ardere i tempii, i sacerdoti e le
vergini religiose violare. Che, se si potesse usar guerra senza trarsi
dietro di queste opere nefande, io sarei il primo che sotto al vostro
stendardo vorrei con voi o vincere o morire. Ma questi eccessi seguendo
l’armi come l’ombre i corpi, è molto men male, se non m’inganno, tolerar
qualche peccato, che nel volerlo ammendare, commetterne molti. Chi è colui
che con maggior dispregio d’Iddio o del pontefice romano possegga più mondo
del Turco, o che maggiormente affligga li Cristiani? e pure, per non porre
il rimanente in periglio, incorretto il lasciano stare. Quella legge adunque
che si usa con gl’Infedeli, e l’approviamo per buona, fia come iniqua
riprovata, adoperandola con un Re cristiano; il
quale, non che voglia rimaner contumace di Santa Chiesa e di voi, infino a’
piedi vi piega il collo, riverentemente mercè chiede, vuol pacificarsi co’
Baroni, L’Aquila non molestare, e rendervi il tributo? E se egli, tratta
fuori la spada, cinto di tante forze, vincitore ne’ vostri terreni, vi
promette ciò; a cui fa dubio che in pace, disarmato, solo e di lontano, non
l’abbia ad osservare? E se pure non l’atterra, leggiera cosa fia da capo
prender l’armi e guerreggiare. Facciamo pur ora, che meritamente non si
mormoreggi da’ Cristiani, che in capitano intriso nel sangue, di rapine e
d’incendi vago, con la fortuna a seconda, si ritrovi cotanto pacifico
volere; et in voi, principe de’ sacerdoti, di nome e di opere innocente,
abandonato da ciascuno, si scorga un animo guerriero et inquieto. E che
altro sarebbe ciò, che a lui del suo grave fallo procacciar gloria, e a
Vostra Santità della vostra buona mente carico e biasimo? maggiormente che,
non solo i signori di Milano pregano la Beatitudine Vostra di pace, ma tutti
i principi cristiani, e sopra gli altri Re della Spagna,
congiunti per sangue a Ferdinando; e vogliono che loro la concediate in
luogo delle perigliose fatiche che ciascun di sostengono combattendo contra
li Mori di Granata. L’afflitta Italia, da tante preterite guerre piagata e
lacera, ad alta voce la chiama: i vostri popoli, da gravezze e soldali
oppressi, a voi, lor padre, la supplicano: questa città e questi tempii,
fondati e cresciuti in pace, di pace il suo pastore richieggono».
V. Cagioni della pace tra il papa e il Re
Alle parole dell’Arcimboldo si aggiunsero le preghiere degli oratori e di
alcuni de’ circonstanti cardinali: sicché il pontefice, stanco, liberamente
gliene promise, presuppostasela sincerissima, per la gelosia che tra
Ludovico e il Duca di Calavria
regnava; la quale stimò non dover mai sostenere che la possanza aragonese,
avendole egli dinegate le forze, prendesse con inganni sul dominio della
Chiesa o nel Regno radice maggiore.
Fu questa novella dal popolo romano, per più di tre mesi assediato, quanto
altra in alcun tempo fusse mai, con letizia ricevuta. Qualunque cosa si vide
in un momento, da’ lamenti e dallo spavento, conversa in allegria; facevansi
lieti e spessi fuochi; visitavansi i tempii; era lodato il pontefice, i Re
della Spagna; ma più che gli altri l’Arcimboldo era esaltato, per avere,
favellando con libertà cristiana, da gravissimi danni fatto lor liberi, e la
sua legazione felicemente eseguita. Nella quale azione apparve ancora quanta
sia la forza della fortuna nelle cose belliche: conciossiaché l’istromento
degli Svizzeri, trovato da Innocenzio a fine di dissensione e di guerra,
ella, rivoltolo in contrario, a opera di concordia e di pace l’usò. Pure,
alcuno scrittore di que’ tempi lasciò scritto, che non le forze o le
preghiere de’ nimici, ma le insolenze degli amici costrinsero il papa a
lasciar l’armi.
Roberto Sanseverino fu messo in questa impresa da’ conforti de’ Veneziani,
dalle promesse d’Innocenzio, e dalla speranza che, conquistando il Regno,
egli avesse a procacciare per li figliuoli di grandi stati: sicché, mancando
questi fondamenti, conveniva che rovinasse l’impresa, e che l’esercito di
lui fusse di danno più che di profitto a’ compagni. Giudicando adunque li
nimici inespugnabili, e volendo che si dicesse che per difetto di altri più
che per diffalta sua egli non gli avea guadagnati, cominciò a chiedere le
paghe per li soldati, e cappelli per li figliuoli. Nel che ritrovando sordi
li Veneziani e lento il papa, diffidati già della vittoria per la tardanza
di Loreno, cominciò egli anche a restar dalla guerra: e la sua gente, non
essendo pagala, in cambio di predare contro a’ soldati del Re, li sudditi
della Chiesa saccheggiava: né lasciava adietro ingiuria che sapesse o
potesse fare.
VI. Condizioni di detta pace. Lodi del Pontano
Era adunque il papa, se la pace non seguiva, in pessime condizioni, né meno
da’ suoi che dagli avversari ingiuriato. Affrettollo anche non poco la
subita incostanza degli Svizzeri: i quali fattisi su gli orli de’ monti, e
potendo fuor d’impedimento adoperare nel collo dell’Italia le loro spade, le
sfoderarono solamente e brandirono. Oltre che, a’ porti del Regno si erano
di già presentate in aita del Re nove
caravelle e due navi armate, mandate dal Re di Spagna:
povero soccorso negli effetti, ma a Ferdinando, per la maestà di chi il
mandava, grande et onorato; e per il quale a tutto il mondo manifestavasi
che la querela della successione del regno di Napoli, nell’animo
del Re di Aragona
per il nuovo parentado si era affatto sopita.
Perciocché, dalla morte di Alfonso suo padre, insino allora Ferdinando temeva
di lui, come de’ Francesi; e tanto maggiormente di esso, quanto per la
propinquità della Sicilia aveva più abilità a nuocergli. Pretendeva quel Re,
che Alfonso, conquistato il reame di Napoli con le forze della corona aragonese, non l’avesse da poi, concedendolo a Ferdinando, potuto separare.
Nondimeno Innocenzio pensò con la pace non solamente conservare sé, ma le
ragioni alla Chiesa e gli stati a’ Baroni; perché, di agosto MCCCCLXXXVI,
con queste condizioni la fermò: che il Re di Napoli
riconoscesse la Chiesa per superiore, pagasse il censo consueto, e li Baroni
e comunità del suo Regno per cagione di quella guerra si rimanesse di
molestare.
VII. Lodi del Pontano
Accettolla a nome di Ferdinando il Pontano, uomo di molta eloquenza, e delle
lettere che dicono umane assai benemerito; che, chiamato all’esercito dal
Duca di Calavria,
servì per mezzano di questa pace: la cui industria e diligenza a recarla a
buon fine, fu veramente ‘anch’ella utile e lodevole e chiara, e per la quale
egli sperò succedere nel luogo et autorità di Antonello Petrucci. Ma il Duca, delle lettere poco amico, e de’
benefici ricevuti sconoscente, non lo favorì appo il padre Re, come doveva
et avrebbe potuto: da che provocato, l’ambizioso vecchio compose il Dialogo
dell’Ingratitudine, dove, introducendo un asino dilicatamente dal padrone
nudrito, fa ch’egli in ricompensa lo percuota co’ calci.
La nuova di questo inaspettato accordo come tutta l’Italia rallegrò, da
perpetuo corso di guerre travagliata, così rendé mesti il Sanseverino co’
Baroni; l’uno perché, non vi essendo compreso, di comandatore di un grande
esercito, uomo privato diveniva; e gli altri per vedersi, abandonati da
ciascuno, rimaner preda del vincitore: avendo massimamente sperato che
Innocenzio dovesse nell’accordo avantaggiare le loro condizioni di ciò
ch’elle erano nel tempo si congiunsero seco, e di quel che a Miglionico il Re aveva lor
conceduto. Sicché da principio bugiarda voce l’estimarono, e dagli Aragonesi
sparsa per invilirgli. Pur, venuto il breve del papa, portato da messer
Cesareo, suo uomo, ove a pieno del contenuto della pace gli ragguagliava;
incominciarono oltre modo a rammaricarsi et a temere, accusando l’incostanza
del pontefice, le infedeli promesse del Cardinal San Piero in Vincola,
l’infingardaggine di Loreno; e finalmente, dell’aver loro creduto, sé stessi
maledicevano; a tutti con le lagrime sovvenendo, l’alle loro speranze nel
prendere dell’armi, nel diporle, in disperazione di tutte le cose essere
convertite.
Ma la grandezza del male che gli minacciava, lasciate le doglienze, gli fe’
ristrignere insieme, e deliberare a ricevere l’accordo e farne ogni
apparente dimostrazione, ma non cessar perciò di procurare a romperlo: et
avvisati dal Cardinal San Piero in Vincola, il papa per estrema necessità
esservi condisceso, e ch’egli era di animo mal disposto più che mai,
pensarono con alcuna notabile azione di poterlo nella guerra mantenere; e
disegnarono, con notturno et improvviso assalimento, di gire a combattere la
gente e la persona del Principe di Capua, sotto Apici attendata; con
isperanza che quella vittoria avesse loro a recare tanta riputazione e
forze, che sebbene loro non riusciva di distogliere il papa dalla pace, da
per loro soli si potessero da’ nimici guardare; presuppostisi che il
Prefetto, non anche da Benevento partito, per li parentadi e comuni
interessi avesse nell’armi con esso loro a perseverare.
Publicarono, adunque, la pace e ne ferono segni di allegrezza; e a due uomini
venuti dal Re, che instavano che mandassero a Napoli a far nuova fedeltà et
a giurare l’omaggio, dissero che il Conte di Melito veniva in nome di loro
tutti a darlo. Ma deliberati, prima che il Conte si dipartisse, di porre ad
esecuzione il suddetto assalto, si avvidero tosto di quel che naturalmente
si traggon dietro i partiti audaci; cioè la difficultà dell’eseguirli.
Perché nel pesar le loro forze, vi conobbero tal debolezza pel poco numero
delle genti, che si diffidarono potesse loro prosperamente succedere. E non
volendolo lasciar intentato, giratisi attorno, e di uno in altro pensiero
pervenendo, non vedevano ultimamente altrove che nell’unione tante volle
desiderata del Duca di Melfi il potere allo sperato fine condurlo. Il qual
Duca, per molte sospette azioni che tra lui e ’l Re erano corse,
dimostrava anch’esso di prender grande isbigottimento di questa pace, tanto
più che poco prima si era occultamente condotto agli stipendi del papa.
VIII. Capitolazione del Duca di Melfi col papa
Aveva il Duca di Melfi a Roma un suo uomo, detto Vincentino, che il teneva
avvisato di tutti gli accidenti della guerra. Costui da Innocenzio e San Piero in Vincola contaminato, accrescendo i prosperi successi degli
avversari del Re e gli avversi
diminuendo, avea quasi piegato l’animo del padrone ad entrar con gli altri
nella congiura: oltre che il Prefetto, il Principe di Altamura e tutti i
Baroni a ciò fortemente lo sollecitavano. Ma i maggiori stimoli e più
assidui e meno tolerabili erano quelli che egli aveva dalla moglie e dalla
nuora, amendue Sanseverine; sicché il Duca, il cui animo, come si è detto,
dalla venuta di Loreno pendeva, per liberarsi un tratto da tante molestie,
prese occasione dalla povertà de’ Baroni e lontananza d’Innocenzio a
trattenersi, e capitolò col Prefetto di venire con queste condizioni a’
servigi del papa: ch’egli fusse de’ Baroni generale; gli fussero pagate,
delle genti che aveva ad ordine, dugento uomini d’arme, quattrocento fra
balestrieri e cavai leggieri, e quattrocento fanti; fusse la sua provisione
di quattro mila ducali l’anno, e mille pel figliuolo; promettesseglisi che
il Principe di Altamura torrebbe per donna la figliuola; e dopo la vittoria,
la signoria di Manfredonia, della Montagna di Santo Agnolo e di più altri
stati: ma che non si dovesse publicar uomo del pontefice ‘insino che non
venisse l’imprestanza (così chiamavasi lo stipendio che da’ capitani a’ loro
soldati si pagava); la quale al numero di dieci mila ducati ascendendo, e
bisognando da Roma provederla, prima succedé la pace ch’ella ne venisse.
IX. Diceria del Conte di Melito al Duca di Melfi
Giudicarono adunque i Baroni da questi maneggi, e dall’aprirgli di nuovo i
pericoli comuni e certi, e l’agevolezza di conseguire la vittoria
congiugnendo le loro armi, ch’egli con poca fatica a quell’assalto
intervenisse: e per disponerlo, ne diedero la cura allo stesso Conte di Melito. Il quale di notte condottosi a lui, con quelle ragioni che seppe
addurre migliori, s’ingegnò di proporgli l’ultima et irreparabil rovina che
per quella pace a tutti ne veniva: dicendo che Innocenzio, per non aver
presa de’ lor pericoli da’ padroni altra sicurtà che il giuramento, già
ciascuno, per isciocco che fusse, scorgeva, ch’egli disarmato, il Duca di Calavria et il Re gli arebbono
disfatti: né doversi dubitare n’avessino volontà. Perciocché se, non anche
di alcuna offesa tocchi, si era per essi cerco di rovinargli; ora che li
avevano così acerbamente ingiuriati, posti in pericolo dello stato e della
vita, in mille trattati beffati e scherniti, violati i patti, ogni fede
rotta e spezzata, come potrebbono senza il loro distruggimento posar
giammai? Esser più tosto da credere che la cupidità e la vendetta avranno
maggior luogo in uomini avari e crudeli, che le promesse o i giuramenti;
massimamente a coloro non attesi, che per prima non li hanno osservati. La
quale considerazione non meno ad essi che a lui conveniva farsi; perciocché,
sebbene non si era dimostro col nome contro a quelli, con gli effetti più
che loro gli aveva dannificali. Sicché nel loro petto l’odio suo
ragionevolmente doveva esser maggiore di quello degli altri; essendo altrui
più nimica e più nociva la guerra occulta che la palese: conciossiaché l’una
ha per oggetto l’inganno, l’altra la forza. Ma però che l’offenditore usa
molto prima dell’offeso dimenticarsi l’ingiuria, egli non dovrebbe aver a
male, se a beneficio di lui se gli ricordasse alcuna delle cose in tra di
loro seguite.
«Signor Duca – disse il Sanseverino –, evvi per avventura della memoria
fuggito, che quando il Re prese a far
la guerra con noi, voi ci faceste la pace? e col non volervi congiugnere con
le sue genti a Barletta, ci apriste la strada ad acquistare i suoi luoghi?
Non vi sovviene che, venendo il Principe di Capua a difesa della dogana, e
richiesto da lui che vi uniste seco, glielo negaste? rifiutando anche
l’officio di Gran Siniscalco, che perciò vi appresentava? Non avete voi, con
armata mano, di vostra autorità prese le terre del contado di Avellino,
possedute da lui e dal Conte di Consa suo fedele, anzi tutto lo stato di
quel signore corso e predato? Quante ambasciate e lettere avete voi udite e
lette di noi, del Duca di Loreno e del papa? in quanti trattati con tutti
costoro sète stato? che sebbene non sono venuti ad effetto, sono venuti a
luce, et han reso palese l’animo vostro; che in simili peccati non men del
fatto vien punito. E se diceste, per evitare li danni del vostro stato avere
ciò operato, e che il Reha ammesso le
vostre scuse; vi rispondo che la ragione contradice a far nocumento altrui
per conservare il suo: et i principi allora affermano di aver perdonali i
falli quando non han potere di castigarli; ma se sopraffatti da’ pericoli
maggiori differiscono la vendetta, non perciò la cancellano. Ma posto che
così fusse, e, noi tutti distrutti, voi rimaneste solo, per insino a quanto
durereste voi? o che condizione sarebbe la vostra? Per trarvi di errore,
dirovvela io. I padroni, per non aver voi voluto correre l’ultima lor
fortuna, e per esser di doppio parentado al sangue nostro congiunto,
sarebbono de’ vostri fatti sempre in sospetto, e cercherebbono
assicurarsene; e voi, dall’altro canto, di gelosia e d’inquietudine
vivereste ripieno. Le quali cose non guari appresso sicuramente di rovina vi
sarebbero cagione. Ora noi nella nostra perdita (se pur così è il piacere
d’Iddio) avremo questo contento, che per colpa di altri fie proceduta, et
appo ciascuno ritroveremo compassione et onore; ma voi nella vostra sareste
dal flagello della coscienza tormentato, et in odio e dispregio a tutte le
genti. Sicché una via sola alla salute di amendue, signor Duca, rimane; e
quella è, congiugnere le nostre genti, e di notte assalire il campo del
Principe di Capua, per la pace fatta e per la nostra disunione licenzioso e
disordinato, e ad ogni altra cosa disposto che al combattere: il quale
vinto, come ben vedete, non solamente faremo ritornare la voglia del
guerreggiare a’ nostri confederati, ma diventeremo assoluti padroni del
Regno, e de’ nostri nimici vendicati».
Non volle il Duca udire le verissime ragioni del Conte di Melito, allegando
che le sue offese contra il Re non erano di
qualità che, in ogni evento delle cose, ei dovesse disperare il perdono.
Oltre che, le condizioni della pace assicuravano tutti: le quali sebbene i
nimici non volessino osservare, stando eglino armati come allora si
ritrovavano, non vi era di che temere; perché arebbono tempo a difendersi et
a chieder soccorso a’ medesimi che allora gli avevano aiutati; i quali, per
li propri interessi e per il loro onore, in tal caso non potrebbono loro
mancare: ma che, se l’assalto non riusciva, come leggermente poteva
avvenire, e’ verrebbono a perdere le genti e gli stati, senza speranza di
altrui sovvenzione, avendogli per loro sola leggerezza avventurati.
Seguì adunque per Napoli il Conte, accusando la lor malvagia fortuna, il suo
cammino. Ma i Baroni, agitati ad un tempo dalla gravezza dell’obligo che
mandavano a fare; dal timore, se nol facevano; dalla speranza di Loren; e,
più di ogni altro, dall’odio che portavano al Re et al Duca:
ciascun dì a nuovi consigli gli animi applicavano, ciascun dì gli
rifiutavano; né conoscendo li migliori, a’ peggiori si volevano attenere.
Credettero pure di aver ritrovata la strada di assicurarsi; la quale come
allora per breve spazio appagò i loro animi, così poi altamente i loro
peccati aggravò: perciocché mandarono in Benevento di segreto a chiedere al
Legato, e l’ottennero, una plenaria assoluzione di tutti i futuri oblighi
che facessero col Re, come da paura e da forza e non da libere volontà
precedenti.
X. Giuramento di fedeltà mandato a fare da’ Baroni al Re
Inviarono anche dal papa messer Palmiero, per il medesimo impetrare; e per
supplicarlo ancora, che, conoscendosi evidentemente per gli articoli della
pace, essi stare de’ loro stati e delle vite a discrezione del Re, gli
volesse almeno Sua Santità, a tenerli armati, aiutare. Il che si farebbe,
concedendo loro il censo del Regno, che ciascun anno si credeva alla somma
di quaranta mila ducati dover ascendere; non facendosi meno per lui e per la
sede apostolica, ch’eglino fussero suoi soldati, che ti facesse per lo Re
stipendiare Colonnesi et Orsini. Imposero anche al Conte di Melito, che,
potendo con licenzia del Re farlo, egli
similmente a Roma andasse, e le stesse cose trattasse: il che non ebbe
effetto. Perché pervenuto a Napoli il Conte, né questa né altra grazia poté
ottenere da Ferdinando: il quale di tanta guerra che contra gli avevano
concitata, e di tanti inganni che gli erano stati usati, si doleva fuori
della coperta sua natura, e più di ciò che ad animo pacifico o riconciliato
non sarebbe richiesto; mordendo tutte le loro dimande, come di malignità
ripiene e che di sotto avessero nascosto il veleno: et erano molto minori di
quelle che l’anno innanzi sì largamente aveva loro concedute. Il perché
credettero molti, considerata la sua naturale simulazione, con cui
gl’impetuosi affetti dell’animo per tutto il corso della vita
maravigliosamente ricoperse, che ei prorompesse in siffatte querele per
accrescere sospetto a’ Baroni; acciocché ultimamente disperati della venia,
si precipitassero a qualche novità, e gli prestassino giusta occasione col
nuovo errore di punire il vecchio. Sicché il Conte di Melito, dato ch’ebbe
l’omaggio (il quale il Re coronato, con
lo scettro in mano e col pomo, sedendo in real solio, circuito da
moltitudine infinita di signori, severissimamente ricevé), se ne ritornò,
riportando della mente del padrone pessimi indicii a’ compagni. A che si
aggiugneva la perseveranza del Principe di Capua d’intorno Apici, senza
punto diminuire le sue genti. Oltre a ciò, era in que’ di morto il Gran Siniscalco,
per lo dolore conceputo della pace, e per lo beneficio del fato
che il liberò dalle seguenti calamità: et il suo stato spontaneamente si era
dato al Re; et egli, non ostante le condizioni del l’accordo, come di
rubello, l’aveva ricevuto. E sicuramente, né appo l’animo del Duca di Calavria era in altra guisa accettata la pace, che come del vinto al
vincitore; non potendo egli sofferire che il papa lo soperchiasse negli
accordi senza averlo nell’armi avanzato. Sicché si dispose a rovinare
affatto i Baroni; li quali, per avere nella successione del Regno preposto a
lui don Federigo, con implacabile odio perseguiva, et acciocché lor mancasse
ogni aiuto forestiere, pensò primieramente disfare le genti di Roberto Sanseverino,
che, licenziate e mal contente del papa, verso il paese
veneziano tenevano lor cammino; contra delle quali pareva che giustamente e
con grado di ciascuno potesse volger l’armi, non essendo nella capitolazione
da veruna delle parti comprese; e giudicandosi che, rimanendo intere, fusse
in arbitrio del Sanseverino taglieggiar l’Italia, riempiendola di nuovi
turbamenti e scandoli. A che sebbene l’animo di lui non fusse inchinato, la
forza ve l’avrebbe stretto; perché, volendo mantener senza stato la
riputazione, e da que’ soldati dipendente, conveniva con l’altrui rovina
sostentarli.
XI. Sconfitta delle genti di Roberto Sanseverino
Ma per non porgere il Duca sospizione al papa et ai Baroni di non aver ad
osservare le convenzioni, sparse fama essergli venuta nuova, Roberto gire a
difesa de L’Aquila: la quale rendendosi certa, per la pace dover raggravare
nella servitù, ostinatamente l’aveva rifiutata; vantandosi voler prima il
distruggimento della città, che della libertà il perdimento. Sopra il quale
avviso, il Duca incontanente se gli pose alla coda, e già in Romagna l’aveva
pressoché raggiunto.
Roberto, presentendo la venuta del nimico, si era sollecitato a gran
giornate; ma vedutosi in grado che gli era di mestiere o combattendo
avventurare l’ultima sua fortuna, o fuggendo perdere e macchiare l’esercito
e l’invecchiata sua riputazione, e terminar con fine vergognoso quella
impresa che con tanta fama aveva cominciato, s’imaginò, con militar
prudenza, né valore né timidità dimostrare. Adunque, chiamati sul far della
sera i soldati, publicò loro a quale partito l’aveva condotto l’ingrato
pontefice; a cui non era stato assai il non premiarli de’ disagi sofferti,
militando ne’ suoi servigi, ma l’aveva anche voluto gittare sotto le spade
de’ suoi persecutori; e che per camparne non v’era altro riparo, che udire
il suo comandamento, e con ogni rattezza eseguirlo. Appresso, sulla terza
vigilia della notte, in più stuoli dileguò l’esercito, incamminandolo a
varii luoghi di Lombardia, di Romagna e della Marca Trivigiana: et egli, non
più che con cento altri, come fuggendo, si ricoverò a Ravenna. Di tutto il
numero di cavalli, alcuni si sottrassero dal pericolo con la celerità;
altri, assaltati dalle genti ducali e paesane, svaligiati e disarmati
furono: essendo quella milizia di Roberto ragunata di soldati di ventura et
a’ contadini odiosissima, e anto perseguitata, che fin da Bologna, et altre
più lontane parti, popolarmente le castella e le ville correvano, et ove le
vie da’ fossati, laghi, o fiumi s’attraversano, gli fermavano e
combattevano, et accadde spesso, gente inerme e vile, per malagevolezza di
passi, uomini valorosi armati aver superato.
XII. Parole de’ soldati di Roberto al Duca di Calavria
Pare alquanti di loro, di migliore o di più fortunato giudicio, sbrancatisi
dalla torma, pria la clemenza del Duca di Calavria
che la crudeltà de’ villani vollero sperimentare; e preso sito vantaggioso e
da poter sostenere li primi empiti, subito che videro sopragiugnere il Duca,
gli mandarono alcuni di loro a favellare; i quali, con sembiante miserando e
prigioniero, discesi da cavallo e prostrati in terra, gli dissero:
«Gloriosissimo Principe, quella schiera d’uomini armati che dinanzi ti si
para, ha mille fiate fatto prova nell’armi della prodezza del cuor tuo, e
della fortezza dell’animo: e perché ella spera che tua real persona abbia
anche a risplender di clemenza e di generosità, confessando di esser vinta,
viene liberamente a sottoportisi; anzi, abandonata dalla fortuna e dal suo
capitano, ha prima disposto prender morte dall’invitta mano tua, che per
l’altrui misericordia campare». Fu leggerissima cosa a muovere il Duca alla
lor salute, essendo amatore della virtù militare, e la benivolenza de’
soldati maravigliosamente procurando; oltre l’avere avuto compassione della
varietà de’ casi bellici, la quale in sì picciolo termine faceva di tanto
inferiori a sé li medesimi che dinanzi del pari l’avevano urtato. Fu,
dunque, perdonatore degli arnesi e della vita a coloro che poco prima lui
nello stato e nella persona arebbono voluto offendere; anzi, tutti quei che
volsero (e non fur pochi), a’ stipendii di lui e sotto l’insegne sue
raccolse: azione in vero assai magnanima, e tanto più in esso laudevole,
quanto per l’innata ferocia e per le ricevute offese meno si aspettava.
Aveva Roberto, innanti la sconfitta delle sue genti, chiesto a’ Veneziani che
gli dessero potere di allogarle unitamente nel loro paese, quasi indovinando
che non molto ponerebbono ad esserne bisognosi. Ma eglino, che credevano il Re non si tenere
offeso da essi in questa guerra, glielo negarono; pensando con questa nuova
dimostrazione di nuovo il Re in quella
credenza confermare.
XIII. Congregazione de’ Baroni alla Cedogna
Disperse le squadre Sanseverine, il Duca di Calavria,
ringraziati gli aiuti de’ confederati, e di fede e di valore a’ lor signori
commendati, gli accomiatò; et accompagnato dagli Orsini, rientrando nel
Regno mandò l’assedio a L’Aquila: et egli, avuto certo ragguaglio che i
Baroni, commossi dalla occupazione dello stato del Gran Siniscalco e poi
dalla rovina di Roberto, si ristringevano e munivano, non gli parve di
soprastar quivi e dar loro tempo et agio a farli fortificare; ma pensò,
lasciata stretta più che si poteva L’Aquila, con una parte delle sue genti e
degli Orsini correr egli a spezzare i disegni di quelli. E per colorire il
movimento, che pareva che dritto venisse a guastare le convenzioni fatte,
maculasse la propria fede e de’ confederati, publicò di non gire a ritrovare
i Baroni per offendere le lor persone o gli stati, ma per voler far guardare
le loro fortezze da’ suoi soldati: la qual cosa, per li sospetti e pericoli
delle signorie, la ragione civile e delle genti consentire; né dover il
pontefice per beneficio di altri dannare quella legge che per propria
utilità egli approvava. Conciossiaché nell’istessa guerra esso, per
assicurarsi dagli Orsini, aveva tolte loro le ròcche. E benché il papa non
rimanesse sodisfatto di queste ragioni, allegando egli essere il dritto
padrone del Regno, e che non sofferirebbe mai, sebbene avesse a commuovere
l’universo, che sotto queste rivolture e colori si distroggessino i Baroni;
nondimeno il Duca, non curante né di autorità né di minacce sue, per la
strada dell’Abruzzi e della
Puglia alla volta loro si dirizzò. I quali, ciò prevedendo, furono presi da
quel timore che va compagno dell’inganno e della impotenza: e per rinvenire
alcuno schermo alla procella che loro si appressava, da capo si ragunarono,
et alla Cedogna, (ivi indarno i loro passati errori pianti e lamentati)
convennero null’altro scampo la loro estrema sorte aver lasciato, salvo lo
stare uniti, empiere le rocche di buone genti, e sino al tempo nuovo
mostrare il viso alla fortuna; mandando trattanto uomini diligenti a Roma,
Vinegia e Francia, a convocare aiuti. Né mancarono di quelli clie dicessero
che mandassero ambasciadori al Turco; il quale potrebbe somministrare loro
più pronto soccorso di quello che aveva già porto a’ Fiorentini. Pure
pensando che l’asprezza della stagione che già si avvicinava, stando essi
con la spada in cinto, e senz’altre forze, avrebbe cacciato il Duca dalla
campagna, da sì empio rifugio si astennero: il quale salutifero partito al
Regno et a tutto il nome cristiano senza fallo si può giudicare dalla divina
mano essere proceduto; considerata la disperazione et estrema necessità de’
Baroni. Perciocché non era alcun dubio che Baiazette, fra’ principi turchi
prudentissimo, con dar loro aiuto non avesse distese le mani a sì felice e
propinqua occasione; la quale non altrimenti all’imperio dell’Italia a lui
apriva le porte, che altra simigliante ad
Amuratte quelle della Grecia
avesse aperte. I Baroni dal suo ambasciadore, a Vinegia dimorante, di già
n’avevano un saggio; offerendo colui, volendo essi aver ricorso dal suo
signore, ventimila valorosissimi soldati.
XIV. Appuntamenti presi da’ Baroni a resistere al Duca di Calavria
Ordinarono sì bene i Baroni, per accender maggiormente il pontefice alla
contravenzione dell’accordo, che la Marchesana del Vasto, già moglie del
Gran Siniscalco e figliuola del Principe di Altamura, n’andasse a Roma, e
gravissimamente del Re si dolesse,
che non avendo riguardo alla sua fresca calamità né alla giurata pace,
ingiustamente dello stato del marito l’avesse spogliata. Pensarono ancora a
fortificare Venosa e Bisegli; perché con l’ostacolo della prima giudicavano
porre in sicuro gli stati di Puglia e di Basilicata, e col rifugio
dell’altra aver facultà di usare tutti i beneficii del mare. Disegnarono
eziandio, avendo a difendere una infinità di luoghi, di quattrocento lance
la gente d’arme accrescere: e compartito il peso, cento cinquanta n’aveva a
ragunare il Principe di Altamura, altrettanti quel di Bisignano, sessanta
Salerno, quaranta il Marchese di Bitonto. Di più, la speranza, che dagli
afflitti non si scompagnò giammai, gli faceva sperare da Roberto Sanseverino,
rotto e fugato, quel che intero e saldo non avevan potuto
asseguire: cioè che, rifatte quaranta squadre di cavalli, ritornasse al loro
soccorso; come per uomo a posta egli, giunto che fu a Ravenna, avea
profferto loro, purché di quaranta mila ducati lo sovvenissero,
concedendogli anche di Troia, Nocera e Foggia il dominio; terre dal
principio della guerra da lui desiderate, più per aver le mani su la dogana
di Puglia, che per altra qualità o importanza loro. E tutto che i Baroni
mancassero de’ danari chiesti, gli promettevano, entrato che fusse nel
Regno, delle fiscali contribuzioni fargliene pagare da’ lor sudditi. Benché
il Conte di Morcone et il Cardinal San Piero in Vincola, o per nudrirli in
isperanza, o perché in verità così maneggiassero, significavano potersi
Roberto per molto minore somma ricondurre; la quale per essi si
provvederebbe: e che, per divertire il Duca di Calavria
dalla Puglia, operavano che il Fracasso, tornato già nella sua pristina
sanità, senza dimora o aspettamento del padre, con cento cinquanta lance si
conferisse a’ confini di San Germano; ove accozzato col Prefetto e col Conte di Morcone, di là si rinnovasse la guerra. Oltre a ciò il Cardinale
indubitatamente affermava, il papa, come prima avesse potuto respirare,
dover per la loro salute rinnovar la guerra, e per ogni possibil via trarvi
il Duca di Loreno e’ Veneziani. In questa disposizione di animi, consigli e
speranze, si risolverono i Baroni nell’ultima e infelice lor congregazione:
la quale dee commendarsi più per la grandezza dell’animo e ‘l buon
divisamento delle cose, che per alcuna loro diligenza o costanza in
eseguirla. Ma acciocché le prese deliberazioni inviolabilmente si
osservassino, dubitando che, essendo il pericolo grandissimo, agevolmente si
verrebbono meno della fede, pensarono col mezzo della religione spaventarsi;
alla quale gli uomini, mancando loro gl’inganni e le forze, volentieri
ricorrono: onde che, agli undici di settembre, postisi nel tempio di Sant Antonio della Cedogna, avendo nelle mani il Sagramento, e d’intorno notai e
testimoni, sotto mille scongiuri all’una et all’altra fortuna si obligarono
gli stati e le persone scambievolmente: e poco da poi, con animi non
arrendevoli et intrepidi, alla difesa de’ loro luoghi si condussero. Tanto
in simili casi giova più la disperazione che la confidenza! la quale così
poté in loro, che non temerono armato e presente colui che disarmato et
assente aveano temuto. Al cui ardimento rivolta tutta l’Europa, non che
l’Italia, stava con gli animi sospesi, maravigliata che i Baroni volessino
attender quelle armi e contrastare, ch’erano in riverenza a tutti
gl’Italiani, e che nel Regno aveano spogliato dell’onor della guerra la
gente Franciosa, e de’ Turchi .abbattuta la potenza: sicché molte signorie
che dianzi gli aveano negletti et abandonati, o invidiavano il valor loro, o
a sovvenirli si disponevano.
XV. Perdita della baronia del Marchese di Bitonto
Facevasi al Duca di Calavria,
di Abruzzi in Puglia camminando, incontro la baronia del
Marchese di Bitonto; la quale non si dovendo per ragion di guerra lasciar
adietro, ciascun vedea che quella prima dell’altre egli andrebbe ad
oppugnare. Onde che il Marchese e gli altri s’avevano posto in animo di
fornirla di ogni difesa, acciocché sino al cuore del verno indugiasse il
nimico; e per un gran riparo agli altri loro stati se la preponevano. E per
avventura sarebbe lor venuto fatto, se la celerità del Duca non gli avesse
impediti: il quale, assalendola alla sproveduta, leggermente la costrinse a
rendersi. Né mai fu che la dimora nelle guerre giovasse: anzi i Baroni dalla
perdita di questi luoghi e de La Cerra e poi di Venosa appararono, che prima
si dee munire e poi guerreggiare. Questo disordine, venuto fuor de’ disegni
loro, fieramente gli turbò; ma non perciò si smarrirono o ferono segno, dal
quale il Duca di Calavria
avesse potuto sperare altro che per viva forza, disagiosamente e con gran
dispendio, gli altri loro stati occupare. Laonde pervenuto a Venosa, la
quale senza far difesa egli ebbe, rattenne il corso, e stavasi sospeso.
Perciocché dall’un de’ lati aveva alquante delle fortezze del Principe di Bisignano,
dall’altro lo stato del Duca di Melfi; il quale sebbene, come si
è detto, nel publico avea voluto osservare neutralità, nondimeno egli sapeva
celatamente aver prestato consigli e favori a’ Baroni congiurati: di maniera
che, per far sicura risoluzione a’ suoi progressi, si pensò di affatto
scoprirlo, temendo che, nell’andare innanzi senza assicurarsene, e’ lo
potesse in ogni sinistro che gli avvenisse, danneggiare nelle vettovaglie
almeno. Per il che gli mandò Diego Vela, pregandolo che, non avendo esso
Duca di che sospicare nel proprio stato, essendo egli alla campagna al
disopra, non gli fusse grave co’ cavalli che teneva venirlo ad aiutare:
della qual cosa non minore obligo gli avrebbe avuto, che l’essersi da sé
solo in tutta la guerra da tanti ribelli saputo guardare.
XVI. Gita del Duca di Melfi al Duca di Calavria
Fu questa gita molto prima pensata e disputata dal Duca di Melfi e da’
parenti: e per lo consiglio della Contessa di Sanseverino e di quella di
Capaccia, era risoluto che il Duca, non potendo far di meno, vi gisse; ma
che per niuno partito menasse con seco la persona di Traiano; anzi,
scusandolo che la moglie per essersi di fresco maritata non lo lasciava
partire, lo ponesse con parte delle genti a guardia dello stato: e come fu
divisato da quelle donne, dal Duca di Melfi fu eseguito. Nondimeno al Duca di Calavria, avuto i cavalli et il padre, parve senza il figliuolo esser
sicuro; e si spinse innanzi addosso le ròcche del Principe di Bisignano;
nelle quali ritrovando resistenza maggiore di quello che da prima si era
persuaso, si dispose ad imporre fine a quella guerra, che, se non pericolo,
almeno danni infiniti gli arrecava. Perciocché i Baroni in ciascheduna
provincia avendo stati e fortezze, per tutto scorrendo predavano, e le
rendite reali o impedivano perturbavano: oltre al vedere che la principale
ròcca de’ Sanseverini, siccome sempre interviene negli antichi e mansueti
dominii, era cuore de’ sudditi, né si poter espugnare senza grandissima
strage. Nel cui danno veniva anche congiunto il suo, per li diritti e
pagamenti che ne traeva.
XVII. Pace tra’ Baroni e il Duca di Calavria
Pensossi adunque di usare le sue arti, e deposte le forze corporali, avanzare
li Baroni con quelle dell’ingegno: e profferse al Principe di Altamura e
Bisignano e compagni, che, se gli consegnassero le fortezze, egli lascerebbe
goder loro in pace il rimanente degli stati; e se, per essere privi di
quelle, non si credessino sicuri dentro del Regno, dava loro facoltà che si
dimorassero ove fusse loro più a grado; con farli ricòrre senza alcuno
impedimento tutti li fratti degli stati. Que’ Principi, considerando la
rovina delle terre loro e de’ sudditi dover essere, nell’allungar la guerra,
grandissima; la poca speranza della sovvenzione da cui si era mandato, et in
ispecie da Loreno, che al primo strepito della pace, mesto e da tutta la
Francia vituperato, si era riposto in casa; e l’avere a perdere ad ogni
modo; deliberarono, acconsentendolo la maggior parte de’ compagni, di
arrischiare, et avvegnaché, col rimettersi nelle braccia del nemico, eglino
prendessino partito pericoloso, pure lo giudicarono necessario.
Accettarono adunque le condizioni, e dissero voler prima far prova della fede
che della forza de’ padroni; sebbene l’altro di avessino a rimanere senza
stato e senza capo; essendosi da essi partiti più per inganno altrui che per
propria volontà. Dalla quale assai tarda generosità credettero quelli
signori potersi salvare; o, quella non bastando, qualunque altra dover loro
riuscir vana. La qual cosa ottimamente compresa dal Duca di Calavria,
e sperando nel lusingar costoro gli altri ingannare più al sicuro, li ricevé
con ogni qualità di amorevolezza; lor concedendo tutti i loro stati, dalle
fortezze in fuori; data loro ancora speranza di restituirgliene in
brevissimo tempo. Pari e più umanità provarono que’ principi nel Re a Venosa, ove
per confermare i patti e dar autorità al figliuolo era venuto.
XVIII. Partita del Principe di Salerno dal Regno
Commossero le condizioni dell’accordo, ma più le predette accoglienze, tutti
gli altri Baroni, di natura vezzosi a sperar bene del Duca e del Re, e più
atti ad essere abbagliati con l’apparenza della mansuetudine che piegati con
gli ‘effetti delle forze; in modo che a gara si affaticarono di porre nelle
lor mani gli stati e le persone.
Solo il Principe di Salerno, a cui le prosperità e l’avversità le forze più che
l’animo cambiavano, benché dopo tutti gli altri accettasse anch’esso le
condizioni, si dispose ad uscire del Regno, non vi si stimando senza le
fortezze sicuro, e sospicando la clemenza de’ padroni avere a durare sino
che il Regno fusse totalmente quieto: oltra che sperò con la presenza sua
far ripigliare la guerra al papa et a’ Francesi. Giunto pertanto a Napoli
come gli altri, poiché il Re con nessuna
sorte di persuasione lo poté ritenere, se ne andò a Roma: ove dal pontefice
fu ricevuto e onorato, come uomo che più tosto gli avesse dato che tolto il
Regno; e dimorò seco, finché ebbe l’animo rivolto ad innovare. Ma quietatosi
Innocenzio, il Principe se ne passò in Francia: la cui gita benché per
allora per vari impedimenti non facesse grandi effetti, non però passarono
molti anni che, col favor francese, non solo il Re et il Duca,
ma tutta la loro progenie insieme con l’Italia afflisse e disertò. Scrive
l’Argentone, autore assai leale, e dalla bocca del Principe, quello, prima
della gita di Francia, a Vinegia co’ figliuoli di Bisignano essere andato e
alla prudenza di quel senato suo amico aver chiesto consiglio, sotto a quale
de’ tre che al Regno pretendevano, si dovesse raccòrre (erano questi il Re di Spagna,
quel di Francia e ’l Duca di Loreno); e che il senato, ponderate bene le
loro condizioni, lo esortò a girne a Carlo, sprezzato Loreno come impotente,
e di Spagna temendo, se alla Sicilia il reame di Napoli avesse aggiunto.
XIX. Resa de L’Aquila al Re
L’Aquila anche, in questi tempi, abandonata da ogni speranza, si rese al Re:
il quale, fatti morire i capi della ribellione, e fra essi l’Arcidiacono e
due suoi nepoti, gli altri meno possenti conservò. Ma pare certamente a
molti, che fusse cosa contra la ragione degli stati e contra il consueto del
Re e del Duca di Calavria, l’avere in quel tempo voluto osservar la fede a’ Baroni; e più che
agli altri, al principe di Salerno, che si partiva con animo nimico, e con
pensiero di suscitare così gran fuoco che potesse ardere il regno loro et
incenerire. La quale opinione acciocché manchi, abbiamo minutamente cerche
le cose di quel tempo, e trovatane la cagione.
I Veneziani, veduto il cattivo fine di quella guerra, cominciarono ad
avvedersi di esser caduti in perniciosissimo errore; e come non aveano
sovvenuto il papa, et il Re offeso, et al
Duca di Calavria,
battuti i Baroni, aggiunto tant’animo e ricchezze, che alla prima occasione
gli avrebbe molestati senza freno; e, quel ch’era peggio, temevano da lor
soli dover sostenere tutto l’impeto della guerra, essendo collegati col Re
Firenze, Milano e Ferrara. La qual cosa si recarono a cotanto sospetto, che
parea lor soprastare un gravissimo pericolo: per lo quale fuggire,
deliberarono, prima che il Duca si riavesse della guerra, confederarsi col
papa, e l’animo di lui sollevare in isperanza di migliore fortuna. Ma
veggendolo stanco e in abandono, e che difficilmente ad instanza loro
avrebbe riprese l’armi, pensarono di far gagliardissime provisioni, e dar
tutto il carico dello error passato ad Antonio Loredano loro ambasciadore a
Roma: il quale rivocarono dalla legazione, e come avesse la republica
ingannata, lo bandirono dalla città per dieci anni, ricoprendo l’error
publico con l’ingiuria privata. Mandarono da poi al papa Antonio Vinciguerra
loro secretario, per lo cui mezzo seco si scusarono, mostrandogli non
doversi maravigliare se la città, travagliata di acerbissima pestilenza e
stanca dalla guerra ferrarese, non si era apertamente collegata con lui
nella guerra del Regno; e che con tutto ciò gli avea mandati quelli aiuti
che sì travagliato tempo comportava, e di molto più si sarebbe sforzata se
il suo oratore l’avesse fedelmente tenuta avvisata: ma intendendo allora, al
Duca e al Re non bastare
di averlo offeso, ma che eziandio sotto nome della pace lo volevano
ingannare et ischernire, si era la sua republica, come cristiana, disposta a
difendere la maestà del pontefice, e, posti da parte i rispetti, entrar seco
a’ danni del comune nimico, et a qualunque perigliosa fortuna esporre le sue
forze.
XX. Lega tra’ Veneziani e il papa
Queste grandi profferte, aggiunte al castigo dell’ambasciadore, poterono
tanto appo l’animo del papa, per le novelle ingiurie del Re e del Duca
fieramente sdegnato, che senza indugio conchiuse la lega; et i Veneziani,
acciocché con maggior dignità della republica si raffermasse, mandarono a
Roma due oratori; che furono Bernardo Bembo e Sebastiano Badoero. Et
affinché il papa dall’opere cominciasse a vedere i loro animi, si diedero ad
apprestare l’armata et a rassegnare le genti di terra; e dell’una Francesco Priuli, dell’altra Roberto Sanseverino pronunciarono generali. Consigliarono
ancora, che sotto pretesto di ricuperare alla Chiesa la città di Osimo posta
nella Marca, e da Boccalino Guzzone suo cittadino occupata, togliesse
Innocenzio l’occasione di riarmarsi: e per meno gli Aragonesi insospettire,
invocasse in quell’impresa gli aiuti di Ludovico (lo cui stato amendue
machinavano che, all’apparire dalla primavera, fusse riassaltato dagli
Svizzeri congiunti co’ Vallesi, popoli anch’essi alpigiani e sudditi del
vescovo di Sion); acciocché, se in Ludovico lo sdegno di essergli il Duca di Calavria nella fede mancato non fusse sufficiente a rimuoverlo dalla sua
compagnia, almeno il proprio pericolo ne lo distogliesse.
Adunque questa lega e questi trattati et apparecchi, sebbene si dicesse in
palese che si facevano a difesa di que’ stati, pure il Duca di Calavria
et il Re ebbero ferma
credenza che contro a loro si ordinassero; e per avere minor briga, se
fussero assaliti, cercavano più presto con gli accordi addolcire il papa e
trattenere li Baroni, che con nuove ingiurie l’uno e gli altri irritare.
Operarono adunque quel bene per fuggire un maggior male: et avverrà sempre
che il timore più che le scritture faccia osservare a’ principi gli accordi.
XXI. Trattato del Renella presa
del Secretario, del
Conte di Sarno et altri
Prima che il Re tra lui et i
Baroni in quella guisa avesse composte le cose, tolse a disfare il Conte di Sarno, e il Secretario co’
figliuoli; conciossiacosaché i Baroni tutta la colpa della guerra riponevano
in sulle spalle di coloro. Ma perché a qualunque di essi avesse
primieramente posto le mani addosso, era sicuro di non aver gli altri, si
andò avvisando un modo di congregarli tutti insieme, e con gran parte delle
lor ricchezze che si sarebbono potute celare: e fu si fatto.
Erasi il Conte di Sarno
dal principio della guerra insino a questi tempi ricoverato nella fortezza
di Sarno con tutti li suoi arnesi e figliuoli, la quale, come si è detto,
contra l’onde di qualunque avversa fortuna avea mirabilmente guernita; e di
rado si conducea al cospetto del Re. Pure quello stimolava con ogni
sollecitudine a mandar ad effetto il maritaggio tra lo figliuolo e la
figliuola del Duca di Melfi nipote del Re, volendo che, dove non potea
essere più amicizia, vi fusse almeno parentado: il quale, oltra l’essergli
stato promesso, il richiedea il Conte, come che Ferdinando, per esser lui
rimaso dalla sua parte, avesse ottenuta quella vittoria sopra del papa e de’
Baroni. Il Re, che si vedea tentare con l’arti sue, e che sotto questa
speranza imaginava la rovina del Conte, mentre il Duca di Calavria
era alle mani co’ nimici, per cagione della guerra si scusò: ma avendo ora
per sicuro il tutto, non volle differire più l’occasione di mandare ad
effetto li suoi disegni; et operò che il Duca di Melfi si contentasse del
matrimonio.
Nutriva il Re in sua casa
la fanciulla; e perciò conveniva che quivi ancora si celebrassero le nozze.
Ma non per questo il Conte sospettò d’inganno; anzi, per parergli di
stabilirsi affatto col parentado, n’era sì preso et invaghito, che, senza
altro pensare, menò sé, la figliuola e li figliuoli a Napoli. E per far più
celebre la festa, quasi che vi condusse quanto argento, oro e gemme avea
ragunato in tutto il tempo della vita; e forse con alto giudizio di Dio,
acciò che quello che il Conte in tanti anni avidamente avea faticato e
custodito, in un di disavvedutamente perdesse. Benché in partendo di Sarno,
et a Napoli, diede manifesti segni della sua disavventura; perché a’ soldati
e vassalli, quasi ne gisse alla morte, raccomandò lo stato, e il dì delle
nozze come commosso da tenerezza lagrimò.
Fe’ in quel giorno il Re dentro il
Castello Nuovo, dove posava, apparecchiamenti grandi e a tanta festa
corrispondenti: nel quale il Conte, come in fedel ricetto, pervenuto, mentre
con tutta la brigata et una pompa eccessiva attende ne venga fuori la sposa
et il Re, e diasi alla sua letizia principio, uscì Pasquale Carlone, castellano, a cui si era ordinato che facendolo prigione desse agli ultimi
suoi guai cominciamento, e lo facesse ravvedere che si aveano a temere i
padroni, e non a dispregiare. Ove, adunque, il Conte di Sarno
sperò di ritrovare il porto, ivi ruppe et affondò: così sempre i nostri mal
misurati desiderî ci sogliono ingannare. Furono incarcerate seco insino le
sue donne: nè più né meno avvenne del Secretario, de’
figliuoli e delle loro mogli; che, come conoscenti e dimestiche del Conte,
con abiti pomposi e ricchi erano venute allo sponsalizio.
Anello Arcamone conte di Burello, e cognato del Secretario, con
messer Impoù nel medesimo naufragio si ritrovarono; apponendosi loro che,
dimorando l’uno ambasciadore a Roma e l’altro a Salerno per lo Re, avessino
avute occulte intelligenze co’ Baroni congiurati; e che perciò l’Arcamone,
risapendo dal pontefice che il Secretario era
nella lega, non l’avesse al padrone notificato. E fu sì ingordo Ferdinando
delle lor robe, che sino alle mule che i prigioni avevano menate, quasi
partecipi della congiura, fe’ condurre alla sua stalla.
Ma in tanta varietà di fortuna non apparve cosa più degna di memoria che i
movimenti degli animi della sposa, e di quei signori e signore che alla
festa erano adunate: perché nel cominciamento con balli, suoni e canti
festeggiavano; e poscia; seguita la cattura, e che la maraviglia diede luogo
al dolore e al timore, non si udì altro che doglienze di amici, pianti di
parenti, lamenti di servidori, rammarichi di donne, tumulto di soldati: la
cui insolenza cresceva in tanto, che ugualmente manometteano quei che
s’aveano a lasciare, come quei che s’aveano a ritenere; chiudevano le porte,
alzavano i ponti, et il tutto empievano d’armi, di strepito e di confusione.
La fama ancora pervenuta nella città, rese attonita la plebe, timida la
nobiltà, e disperati li Baroni. Perciò che si diceva, il Re non solamente
avere imprigionato que’ di dentro, ma mandare anche per altri fuori, come
volesse estinguere il nome de’ Baroni, che dianzi l’aveano così altamente
travagliato: sicché ciascuno scorreva, dimandava, s’affliggeva; e, come
nelle grandi e subitane cose si costuma, tenevano gli occhi e l’orecchie
intente ad ogni cenno, ad ogni voce si muovevano o si fermavano.
XXII. Resa di Sarno al Re
Il quale sollevamento non posò mai, sino a tanto non si disserrarono le porte
del castello, e che, da’ prenominati in fuori, tutti gli altri furono
licenziati. Avresti allora veduto gli usciti co’ colori pallidi, con le
membra tremanti, con le voci interrotte, come a coloro avviene che da
grandissimi pericoli sono campati. Avea ciascuno dintorno mille che lo
sforzavano a narrare il fatto: il quale i benevoli de’ prigioni accusarono,
lo lodarono gl’invidi; ma il modo dell’inganno tutti dannarono ugualmente,
come per esso il Re li parenti,
la fede e l’ospitalità avesse violata. Il quale mandò incontanente a
spogliare le case loro di Napoli, et a Sarno molte genti per averlo: dove i
soldati che vi erano a guardia, come allievi del Conte, feciono nel
principio gagliarda resistenza; ma risaputa dapoi la rovina del padrone e
de’ figliuoli, non aspettando veruna aita, né sapendo in tanto turbamento di
cose che farsi o di cui fidarsi, avuto Pietro di Ligoro lor capitano il
contrasegno del Conte, per lo meno reo partito la rocca e la terra dierono
ai mandati del Re: i quali conducendo a Napoli le sue ricche spoglie, resero
a’ riguardanti una sembianza di trionfo antico. Perché di quanto vi fu di
bello e dì buono e di prezioso nelle provincie del mondo, ove per alcun
tempo si navighi, n’ebbe il Conte abondevolmente la sua casa ripiena.
Ma quel che in que’ tempi diede più da parlare, e spaventò più di altra cosa
gli animi della minuta gente e de’ grandi, furono quarantasette pezzi di
artiglieria, militarmente ne’ carri collocati. Che se nell’altre rocche de’
Baroni fusse stata la metà provvisione, il Duca di Calavria
non gli avrebbe giammai per virtù vinti, né per accordo ingannati. Si narra
che accompagnando, quel giorno, il Conte al castello di Capovana la Duchessa di Calavria che gli veniva ad onorar le nozze, la Duchessa, mossa a
compassione del trattato che contro l’incauto vecchio si ordiva, gli avesse
fatto cenno a non venire innanzi; ma egli, spinto dal fato, aver creduto
quei segni ad altro fine farsi. Il che io non riprovo, né men ci aggiungo
fede; perché non mi si lascia credere che donna alcuna sapesse del trattato,
assente il Duca di Calavria dalla città. Stimo bene che degli uomini, salvo
il Re et il
castellano, niuno altro ne avesse notizia: conciossiaché, se il trattato non
fusse gito occultissimo, non fora stato difficile a’ prigioni di scoprirlo;
praticando ad ogni ora dentro la casa reale, e per lo rimordimento delle
preterite azioni sospettando. Furono rinchiusi costoro nelle più sozze e
spaventevoli carceri del castello, con tanta strettezza e rigidezza del
prigioniero, che scambiò al Secretario un
servo moro datogli a recare il cibo, perché colui, intendente alquanto della
favella italiana, lo ragguagliava della moglie e de’ figliuoli; et un ve ne
pose del nostro parlare ignorante. Di che si dolse il Secretario
amarissimamente, come che, avendo a tanti liberi uomini comandato, la
fortuna allora di favellare ad un servo gli negasse.
XXIII. Giudici che condannarono i predetti signori
Pure il Re, potendogli castigare con la giustizia, non volle usare l’imperio:
anzi, perché altri non sospicasse il loro maggior fallo essere nella lor
grande ricchezza, procedé nel giudizio con non poca circospezione. E
primieramente, non diede loro giudici dottori, né quei che agli altri suoi
sudditi rendevano ragione, ma tutti Baroni; così disponendo antica legge del
Regno posta da Federigo imperatore e di amendue le Sicilie Re, ad onore del
baronaggio, il quale in que’ tempi, o per merito suo o per debolezza de’
padroni, era in somma riputazione. Furono i giudici, Iacopo Caracciolo
cavaliere, conte di Burgenza e del Regno gran cancelliere; Guglielmo Sanseverino cavaliere, conte di Capaccio (il quale solo di tutta quella casa
dopo la presa dell’armi gli era rimaso in fede); Restaino Cantelmo
cavaliere, conte di Popoli; Scipione Pandone cavaliere, conte di Venafro. Né
stimi alcuno de’ nostrali, alle cui mani capiterà la presente scrittura, il
titolo di Cavaliere, di che i predetti signori e gli altri di quel tempo sì
volentieri s’onoravano, esser quello che molti degli odierni nobili si
usurpano nel favellare. Imperò che il primo era dignità che per grazia o per
merito si conseguiva, e dalle mani reali; il moderno da ambizioso abuso
procede, non si nascendo cavaliere, ma, come si è mostro, acquistandosi:
anzi, per esser testimonio di virtù, né anche i Re si sono
sdegnati a collocarlo fra le loro gloriose insegne; come si legge del nostro Re Luigi di Taranto, fattosi far cavaliere da un capitano tedesco; e di Francesco primo Re di Francia,
che nella giornata di Marignano l’ottenne da monsignor Baiardo.
Quelli adunque, dopo che fu formato un ampio e gravissimo processo de’ loro
peccati veniali e mortali, condennarono nella testa li Conti di Sarno, di
Carinola e di Policastro, col Secretario: li
primi tre per aver confessato essere stati nella congiura; l’ultimo per
averne avuto notizia dal Conte di Sarno e non l’avere rivelato al Re: per lo
quale mancamento è opinione di Bartolo giureconsulto potersi condennare il
conscio alla morte. E quantunque da altri giuristi ella non sia approvata, o
come non vera o come troppo rigorosa, è nondimeno da’ principi moderni
inviolabilmente custodita. Fu letta la sentenza al cospetto de’ condennati
nella sala del castello, c’ha nome dal Trionfo, sedendo pro tribunali i
sopradetti Conti con tutti i giudici della città ch’egli aveano consultati.
Il Conte di Burello e messer Impoù, non ostante non fussino trovati
colpevoli, non furono, quale se ne fosse la cagione, né assoluti né
condennati.
XXIV. Lode di Anello Arcamone
E di vero, Anello Arcamone, nell’età sua, per lettere e destrezza d’ingegno
fu uomo sopra ogni altro della nostra città singulare; per le cui buone
parti fu nella sua legazione caro a Sisto pontefice, e carissimo ad
Innocenzio: né l’indignazione del Re procedé seco
da altro (se vogliamo riguardare il vero) che dal sospetto dell’affinità
ch’egli avea col Secretario. Il
quale Secretario di
tutti li rei fu solo collato, non tanto per farlo affermare sé essere stato
de’ consapevoli della congiura, quanto acciò palesasse ove fosse la sua
moneta: per la quale avere, non solamente il Re adoperò il
martorio, ma scrivendogli anche di sua mano lo persuase che, essendo uomo di
quella età e di quella prudenza, non si volesse per cagione de’ danari
esporre a tormenti, e perder la speranza della clemenza sua; in tanto
quel Re la utilità
più che la dignità ebbe in prezzo. Il bramato tesoro non passò ottomila
ducati; conciossiaché l’altra sua pecunia in vari tempi l’aveva convertita
in compre di stati, in superbi edifici, et in grandissimi doni al poco grato
suo padrone.
XXV. Morte del Conte di Policastro e del Conte di Carinola
Data la sentenza, non ordinò Ferdinando che in un dì morissero tutti; o
perché dividendo quella rigida giustizia, venisse in più fiate a spaventare
gli uomini, o perché volle mostrare venirvi forzato. Sicché, a’ tredici di
novembre dell’ottantasei, fe’ morire li Conti di Carinola e di Policastro,
senza aver punto riguardo alla dignità che tenevano, o all’essere stati suoi
servidori antichi e famigliari. Perciò che il Conte di Carinola, gridandogli
avanti il banditore la qualità del suo fallo, fu per li più frequenti luoghi
della città da una coppia di buoi strascinato; e poi, in sul mezzo del
mercato scannato et in più pezzi diviso, lungo tempo avanti le principali
porte di Napoli obbrobriosamente rese testimonianza della leggerezza et
infedeltà sua. Né poté in guisa alcuna la procurata affinità degli Orsini
non che campargli la vita, ma né l’infamia della morte alleggerirgli: i
quali, intenti col Re per li
freschi servigi a nuovi meriti, l’uno e l’altro dovettero trascurare: e rade
volte avviene oggidì che l’obligo del parentado al proprio comodo prevaglia.
Al Conte di Policastro fatta che fu mozzar la testa, fu conceduto a’ frati
Domenicani che alla capella del padre lo riponessino. Morirono costoro assai
timidamente e come uomini di poco valore; perché, oltre a’ prieghi et alle
doglianze che ferono, il Conte di Policastro dava tutta la colpa a Carinola,
e ’l Conte di Carinola a quel di Sarno.
XXVI. Lodevole severità del Conte di Fondi
Ma fra tante pusillanime azioni e distorte, un raro esempio avvenne e
virtuoso, indegno veramente che fra questi si trametta. Onorato Gaetano, conte di Fondi,
fu uomo di singular prudenza, e più per fede chiaro. Egli in
tutta la guerra presente, non risparmiando né la roba né la grave età, aveva
fedelmente servito li padroni, nonostante che il Principe di Bisignano gli
fusse genero, e tutti gli altri ribelli di parentado congiunti. L’opposito,
come si è detto, aveva operato il figliuolo, Conte di Morcone. Nondimeno il
Re lo
dissimulava, disposto totalmente a volere che il merito dell’uno il demerito
dell’altro cancellasse. Ma il padre, incrudelito nel proprio sangue, nol
sofferse, e persuaselo a carcerare il figliuolo, e del commesso peccato
inquisirlo, con sì fatta severità, che poco appresso fe’ vituperevolmente
giustiziare un soldato del castello che intendeva farlo fuggire: dicendo, se
l’offese dai servigi si potessino sgravare, niuno di que’ colpevoli meritar
castigo; perché non solamente i loro padri, ma eglino stessi avere alcuna
volta il Re giovato.
Arrossi Ferdinando nella magnanimità del Conte; e risoluto in ogni modo di
volerla superare, chiamò il primogenito di Morcone ancor fanciullo, e fegli
sposare madama Sancia naturale figliuola del Duca di Calavria,
promessogli in dote la vita e lo stato del padre; a tanto l’emulazione della
virtù forza gli animi quantunque depravati.
XXVII. Morte, e qualità del Secretario
Seguita de’ due fratelli l’acerba morte, ed: al Conte di Sarno e
al padre Secretario
pervenuta, l’uno incominciò a disperare la vita, e l’altro a anto poco
curarsene, che con preghiere sollecitò la morte. Pure il Re la soprassedé
da sei mesi: ne’ quali più volte, per tentare la costanza del Secretario, con
agevolarlo di prigione, lo pose in isperanza di perdono; ma tuttavia lo
ritrovò più fermo e duro nel suo proponimento: dicendo, che sebben era
d’opinione, per l’incostanza della fortuna, i felici non dovere aborrir la
morte né gl’infelici bramarla, nondimeno agli uomini savi, a sì grande età
pervenuti, il voler vivere senza onore, mancare de’ figliuoli e di tanta
dignità, ubidire a chi avevano comandato, dover esser morte e non vita. Di
maniera che, venuto il lor supremo giorno, e fatto loro, secondo il costume,
da’ sacerdoti confortatori la sera innanzi assapere, il Conte di Sarno a
quel che n’andò da lui disse, non gli portar cosa nuova: ma il Secretario,
abbracciato il suo, lo ringraziò, affermando interamente, in quei tempi non
gli aver potuto arrecare più lieta novella; molto lodandosi del Re, per
provarlo verso lui di miglior animo che non si era presupposto. Sicché
subitamente de’ suoi commessi errori chiese perdono, e divotamente ricevè il
Sacramento; et avendo la lunga carcere sordidati e logori li suoi
vestimenti, si fe’ venire degli altri nuovi; et ornatosi come se a nozze e
non alla morte dovesse andare, con animo tranquillo, e fermo viso, tutta la
seguente notte impiegò in orazione; e venutane la luce, che fu a’ quindici
di maggie dell’ottantasette, col medesimo andar di prima al luogo del
supplicio si condusse. Aveva il Re dentro della
porta del castello, in mezzo il piano, fatto fabricare un palco tanto alto,
che dalla città si potesse vedere; sopra del quale asceso il Secretario,
avendo all’incontro a vederlo morire tutto quel popolo che per tanti anni
aveva corretto con prudenza et umanità, levata alta la fronte, il venne
guardando: donde che quello, corsagli prestamente alla memoria più la sua
passata autorità che la presente miseria, discopertosi il capo gli fe’
riverenza; con tanto silenzio, attenzione e timore, che pareva quel di non
un solo, ma tutti dover morire. Era il Secretario, per
la lunghezza della prigionia, per li tormenti dell’animo e del corpo,
cotanto contraffatto, che, conosciuta la virtù dell’uomo, avrebbe indotto è
compassione sino a’ sassi. Nondimeno, per dimostrare che l’innocenza della
vita preterita non gli faceva temere la sopravegnente morte, lietamente il
collo sul ceppo adattò; e con migliore fama che fortuna, dipartendosi da
questa dolente vita, in due pezzi rimase.
Fu Antonello Petrucci, Secretario, uomo
scienziato e di alto intendimento; ed, ove si conveniva piacevolezza,
umanissimo; e, dove rigidezza, severissimo: amatore de’ buoni, e persecutore
de’ cattivi; studioso tanto de’ letterati, che da tutti come Mecenate era
osservato; grave et eloquente nel parlare, nel consigliare risoluto e
giudicioso, acuto nel ritrovare i partiti, e diligente in eseguirli; talché
non fia maraviglia, se di Alfonso e Ferdinando, due Re, fra gli altri che
s’abbia memoria, prudentissimi, fu nel regno come in compagno ricevuto. Né
dopo la sua morte apparve minore la gloria di lui: perciocché destituito
Ferdinando del consiglio di tant’uomo, e spiegate le vele al vento
dell’ambizione e dell’empito del Duca di Calavria,
nel primo tempo avverso oscurò quella fama del saper navigare fra gli umori
de’ principi d’Italia, che trentasei anni a tutto il mondo l’aveva fatto
venerando; anzi in modo lasciò scossa e sdrucita la nave al figliuolo, che
in minor corso di un anno laidamente la sommerse.
Dietro al Secretario ne
venne il Conte di Sarno
con un ufficiuolo in mano et una collanella al collo; e giunto sopra il
medesimo palco, voltosi a quelli che lo confortavano, disse loro ch’egli con
pazienza sofferirebbe la morte, se fusse loro a grado, prima che morisse, di
fargli vedere i figliuoli. Era stato detto al Conte, che il Re celatamente
gli aveva fatti morire. E benché l’età e l’innocenza de’ giovani ne lo
dissuadesse, pure, per volere quella ultima ora trapassare con contento,
desiava vederli; come che essendo vivi, egli anche in essi si perpetuasse:
unica consolazione de’ padri che muoiono. La qual cosa a coloro riferita nel
cui potere si ritrovavano, forse più per afflizione che per carità del Conte
furono contenti se gli menassino: i quali tremando e piagnendo n’andarono a
far riverenza al padre. Come prima il Conte gli ebbe veduti, vinto dal
paterno affetto, a falica sì poté reggere in piedi e verso loro distendere
le braccia: e nel vero, a’ riguardanti fu spettacolo oltre ogni usato
miserabile vedere il padre co’ figliuoli abbracciato e l’un fratello con
l’altro, essendo tanti mesi stati in disparte prigioni, e ciascheduno
temendo allora di dover morire.
XXVIII. Orazione del Conte di Sarno
a’ figliuoli
Di che avvedutosi il Conte, e calendogli più il timore de’ figliuoli che la
propria morte, come poté raccorre lo spirito e formar parole, così lor
ragionò: «Figliuoli, non senza cagione, prima che ponga il capo solto a
questo ferro, vi ho fatti chiamare; parendomi ragionevole che avendovi dato
l’essere, per quanto il tempo sostiene, v’insegni anche il modo di
conservarlo. Né mi biasimi alcuno, che, s’io fossi vivuto bene, ora non
morrei sì male; perché non sono il primo io, che saviamente operando abbia
sortito cattivo fine, essendo la fortuna in maggior parte arbitra e padrona
delle umane azioni: la quale apparecchiandosi di dare a questo Regno et alla
casa reale, per li peccati di amendue, una scossa gravissima, ne toglie di
mezzo me che mi preparava a contrastare a’ suoi disegni, e che voleva con la
prudenza umana far riparo agli ordini de’ cieli. Ma ne rendo grazie a Dio,
poscia che vecchio e con fragil legno dovea solcare questa imminente
tempesta: duolmi di voi, figliuoli, che vi ci troverete assai giovani, poco
pratichi, e, quel ch’è peggio, ricordevoli della vostra buona fortuna. Pure,
se a mio senno farete, in nulla vi offenderà: e lo dovrete fare, non essendo
solo ufficio di buon figliuolo piagnere la morte del padre, ma ricordarsi
del suo volere et eseguirlo. Credo, da altri e da me più fiate abbiate udito
come non nacqui abondante di ricchezze né in signorile stato, ma per venire
a maggior fortuna mi posi agli esercizi del mare; e ci divenni d’assai, e
talmente riputato, che fui chiamato dal Re, et in luogo ragguardevole
collocato. Che se da per me andava dietro al cominciato lavoro, per aventura
fora giunto allo stesso grado onde son caduto; ma, vinto dall’ambizione, lo
volli anzi con pericolo presto, che tardi con sicurtà: di maniera che
nell’altra opinione ciò che ho avanzato è stato del Re, e quello che ho
perduto, mio. Dicolo affinché conosciate di non essere in peggior grado di
quel ch’ero io; e che apprendiate, quelle sole ricchezze esser sicure e
durabili che col proprio ingegno e valore altri sì acquista. Ché sebbene il
Re, per amore, per compassione o per vostro merito, vi riconducesse nel
grado primiero, fia sempre suo, e non vostro; anzi sottoposto a’ medesimi
pericoli ch’è soggiaciuto il mio. Fate adunque, figliuoli, di dipendere
dalia virtù sola: e gioveravvi assai più il poco avuto da lei, che il molto
dall’altrui liberalità. Ella non è per mancar mai a’ suoi seguaci del
necessario e dell’utile, per essere del bene oprare larghissima
rimuneratrice. Il prender gli onori, i favori e l’autorità quando altri ve
li porge, sarà meno invidioso che il volergli da per voi procacciare. Né
abbiate a schifo che ieri dovevate esser parenti di un Re, e dimane sarete
de’ vostri pari: perciocché fia con più vostra lode e contentezza, dovendo
coloro onorarsi con voi, come voi con lui vi sareste onorati. Questa
avversità dell’irata fortuna fate v’abbia ad essere sprone alla fortezza et
al bene, e non alla disperazione et al male, e che v’instighi a guadagnare
giustamente quant’ora iniquamente vi toglie. Siate sempre nelle felici e
nelle avverse cose uniti, più con timor di Dio che degli uomini; ne’ quali
quando si fonda tutta la speranza, accade altrui quel che a me vedete esser
avvenuto. Di che acciocché abbiate memoria, prendi tu, Marco, questa collana
in vece di quello stato che dopo la mia morte ti si perveniva; e tu,
Filippo, che alle grandi prelature eri destinato, togli quest’ufficiuolo:
pochi presenti alla indole vostra et alle fatiche mie; ma convenevoli a chi
ha il carnefice al lato e la mannaia sul collo, e molto più alle pessime
condizioni in cui rimanete. Perciò che, non vi disponendo a strignervi
insieme con catena di amore, e con l’orazioni e buone opere farvi amici di
Dio, né tu lo stato ricupererai mai, né tu altro nella sua chiesa onesto
luogo conseguirai».
XXIX. Morte, e qualità del Conte di Sarno
Furono le parole del Conte con tanta pietà ne’ cuori degli ascoltanti
ricevute, che non vi fu persona che del suo grave infortunio altamente non
si sentisse commuovere: il quale, ribaciato ch’ebbe li figliuoli e
benedetti, come se fusse libero da tutti li debiti di questo mondo, fattosi
intrepidamente troncare il collo, all’altro ne passò. Questo infelice fine
ebbe Francesco Coppola, conte di Sarno; barone certamente di non poca
prudenza, di alto cuore e di elevato ingegno, avventuroso ne’ traffichi, e
nell’arte marinaresca espertissimo: le quali buone parti non furono da altro
che dalla sua alterezza alquanto macchiate e guaste. Quella sola dannabil
qualità, stimolata da giusto sospetto, lo fe’ prima partire dal suo signore;
quella poi, irritata da nobile sdegno, dai congiurati lo disgiunse; quella
finalmente, accecata dal parentado reale, lo poté trarre negli agguati di
Ferdinando, e ne’ suoi lacci farlo incappare.
Decapitati costoro, e per tutto il giorno in vilipendio sopra terra tenuti,
il Re permise che
con l’esequie alle loro sepolture fussero portati, e morti si onorassero
coloro che vivi avea cotanto odiati. Nel qual tempo, per quel che ritroviamo
scritte, accadde cosa degna di molta considerazione: e fu che il Conte di Maddaloni,
del Conte di Sarno
perpetuo nimico, non più che quattro giorni sopravisse a lui.
Afferma qualcuno che il Re non si
sarebbe bruttate le mani nel sangue di costoro, ma, lasciatili vivere, si
sarebbe contentato di prigione perpetua, se in quel tempo non si fusse
divulgato, il Duca di Loreno, instigato dal Principe di Salerno, insieme col papa muovergli la guerra: e che però era
venuto a Genova il Bastardo di Loreno, e ad Osimo nel campo si erano
congregati a far dieta il Cardinal San Piero in Vincola et il Cardinal Colonna, e Savello con altri usciti dal Regno, di fazione angioina. Per la
qual cagione il Re, con lo spavento della morte di questi due, aver voluto
rendere gli animi del rimanente de’ Baroni più fermi alla sua ubidienza. Il
che mi caperebbe nell’animo, e per vero lo terrei, se, non anche un mese
compiuto dopo la lor morte, il Re, o per arte o per fortuna, con più certo
modo non si fusse assicurato della maggior parte de’ Baroni pacificati.
Perché, publicata che fu la lega tra ’l papa e i Veneziani, ricuperata
Osimo, e gli Svizzeri co’ Vallesi di già entrati nel territorio di Milano,
nacque da Germania contra a’ Veneziani, per cagione de’ fini e de’ dazii, un
non pensato assalto, fatto loro da Federigo e Sigismondo d’Austria; l’uno
imperadore, e l’altro signor de’ Reti e paesi convicini. Contra i quali
essendo la republica astretta di rivolger l’armi, rimise a più convenevoli
tempi la guerra del Regno, e per allora pensò più a difendere il suo che ad
occupare l’altrui. Di che avvedutosi il Re, che attentamente dimorava alla
vedetta, e innanzi ad ogni uomo fu paratissimo in valersi delle occasioni,
si pensò che mentre quella guerra durava, a lui conveniva, per non temere
più né di Loreno né de’ Veneziani, di far due cose: l’una guadagnarsi il
papa, e l’altra assicurarsi de’ Baroni.
XXX. Lorenzo de’ Medici riconcilia al papa il Re
E per aver la prima, ebbe ricorso a Lorenzo de’ Medici, e lo pregò che come
le sue genti gli aveano racquistato il Regno dalle mani de’ nimici, così la
sua prudenza dall’ira del papa glielo conservasse. Era Lorenzo, oltra
l’esser principe della sua città, per senno e per ingegno stimato il più
saggio uomo del mondo, et in cui parea che fusse riposta la guerra e la pace
di chiunque possedeva stati nell’Italia: il quale, avendo riguardo all’odio
che il papa di natura portava al Duca et al Re, et al fresco sdegno che
giustamente dovea aver concetto per la guerra et inganno che contra gli
avevano adoperato, stimò non mai potersi stabilire intra di loro sincera
amicizia; e risolvessi, per tenerglì fermi, ottenere in sé quel che in
persona del Re non si potea:
cioè di restrignersi tanto col papa, che ne avesse disposto a suo senno. E
per ben prendere l’animo suo, udendo l’amor grande che portava al figliuolo,
e come buona parte delle cose addietro erano seguite per aggrandir lui,
congiunse seco la Maddalena sua figliuola; e fece ancora promuovere alla
dignità del cardinalato Giovanni suo figliuolo, che fu poi Leone decimo: per
li cui mezzi divenne quasi arbitro delle differenze che correvano tra
Innocenzio e Ferdinando, essendo confederato dell’uno e parente dell’altro.
XXXI. Presa di molti Baroni congiurati
Posto giù, adunque, il Re per questa
strada il timore del papa, si volse contro i Baroni, e fatti decollare ‘li
prenominati, attendeva agli altri. Dimoravansi allora a Napoli il Principe di Altamura, quel di Bisignano, il Duca di Melfi, il Duca di Nardò, i Conti
di Lauria, Melito, Nola, e la Contessa di Sanseverino. Altamura vi era, però
che il Re avea data per
donna, dopo l’accordo, a don Federigo Isabella, primogenita sua figliuola,
la quale per mancamento di maschi allo stato succedea; et a lui che vedovo
era, avea promesso donna Lucrezia sua figliuola naturale: e non avvedendosi
il Principe che né per lo Re né per
don Federigo faceva ch’egli procreasse altri figliuoli, inconsideratamente
quello matrimonio sollecitava. Il Principe dî Bisignano e ’l Conte di Melito
trattavano che si restituisse loro le fortezze, senza le quali parea loro
star poco sicuri dal Re, e da’ vassalli vilipesi. Gli altri tutti vi stavano
forzati: conciossiaché il Re, per aver loro rilasciate le rocche, non
altrimenti che in ritenendo le persone appresso idi sè, diceva di starne
sicuro. Tutti adunque costoro, aggiuntovi Sigismondo Sanseverino,
Berlingiero Caldora e Salvatore Zurlo, a cui si era tolto Salice e Guagniano castella, il decimo di giugno, fattili nel castello il Re chiamare,
come che volesse ultimar le lor dimande e farne loro grazia, gl’imprigionò;
tolse gli stati, e le mogli e’ figliuoli fece a Napoli menare, sotto
pretesto ch’eglino, fattasi venire una fusta da Sicilia, mandata loro dal
Marchese di Cotrone, s’apparecchiavano a fuggire, et unitisi poi co’ nimici
ritornare a’ suoi danni, maneggiando ancora di far partire la Principessa di Salerno col figliuolo, Conte di Marsico: li quali il Re facea
guardare in Napoli, o per essersi avveduto di aver follemente lasciata
andare la persona del Principe, oppure perché dal principio se gli fusse
presupposti come pegni della volontà di quello. Ma parendogli che per questa
cattura si avesse a concitare in odio et abominazione tutto il mondo, e
sperando ancora che gli uomini avessero a dare più fede a’ suoi scritti che
non davano a’ fatti; fe’ porre in istampa il loro processo, e non per tutta
l’Italia, ma sino nell’Inghilterra da Giuliano Bucino suo oratore lo fe’
publicare: il quale, oltre questa fuga, contiene molte altre cose
nimichevolmente contra di sé commesse, e dopo la pace col papa, come in
questo ultimo libro sparsamente abbiamo racconto.
Stimolato poi Ferdinando dal Duca di Calavria,
spense nel detto castello in vari tempi e con diverse generazioni di morti
tutti li prigioni: le cui signorie i loro eredi, per insino a Carlo ottavo Re di Francia, che con mirabil corso di vittoria il Regno conquistò, non conseguirono
giammai; tuttoché Innocenzio, punto dallo sprone della vergogna e della
pietà, per due suoi ambasciadori agramente ne avesse instalto. Benché
Michele Riccio da Napoli, nel libro de’Re di Sicilia,
testifichi che li predetti signori non furono lasciati vivi più che quattro
mesi dal giorno della presura: e che nella lor morte destossi in Ferdinando
non solo la cupidità di vendicar le fresche ingiurie fattegli da Baroni, ma
anche l’antiche; e che perciò facesse morir con quelli Giovanni Antonio Marzano, che dintorno a trent’anni era vivuto prigione: e che solamente
Mandella Gaetana, principessa di Bisignano, non meno di animo che di origine
romana, con sei figliuoli fuggendo a Roma si salvò.
XXXII. Parole della Principessa di Bisignano, e sua fuga
Questa donna, degna veramente di esser annoverata fra le più celebri del
mondo, nascondendo sotto l’abito donnesco un alto valore, e riputando il
marito senza le fortezze esposto a qualunque ingiuria; anzi, che il Re,
comunque avesse sospetto di guerre, per non fidarsi di lui, l’avrebbe
imprigionato; era di opinione che il Principe con tutta la famiglia, pet
virtù dell’accordo fatto, si avesse a cacciare fuori del Regno, e, come il
Principe di Salerno, aspettar l’occasione di riaver lo stato interamente.
E per adagiare il marito alla esecuzione, s’infinse cagionevole alquanto
della persona, e sparse voce di volere andare a Pozzuolo a tòrre i bagni, il
quale soprapposto alla riva del mare, d’indi a Roma lievemente sì potean
condurre. Ma, o che l’irresoluzione del marito ne fusse cagione, o che
il Re gli avesse
discoperti, il Principe fa prima prigione, che il pensiero di lei si eseguisse.
Ma non per questo intoppo la fortuna poté rintuzzare la saldezza dell’animo
della Principessa, né l’altezza del suo cuore abbassare; anzi in tanto più
l’accrebbe quanto troppo maggiore vide il bisogno, e quanto che l’onore
della salvezza di sé e de’ figliuoli, senza che altri ne partecipasse, dovea
esser tutto di lei. Ma proibita dal Re di dilungarsi
dalla città, e ciascuna ora rassegnata dalle sue spie, si ritrovava ancora
assai più scarsa di partiti: pure, aguzzato l’ingegno, così la si ordinò.
Napoli da occidente, lungo il lito del mare, ha una contrada nominata
Chiaia; nel cui mezzo, dentro dell’onde, è una chiesuola a San Lionardo
dedicata, ove per un ponte da terra sì varca. Hassi da’ cristiani questo
Santo in somma venerazione, per istimarsi ch’egli sia il protettore de’
prigioni. Prese la Principessa a frequentar quel tempio, come se il Santo
invocasse per la libertà del marito: e poich’ella vide che con lo spesso
andare avea tolto di sé ogni sospetto; per mezzo di un suo segretissimo
famigliare, si fe’ trovare an brigantino, che solto nome di un’altra donna
la levasse per Roma. Lo quale ritrovato e messo ad ordine, alla Principessa
cominciò a rivolgersi per la mente, se la fuga non riusciva, che la sua
condizione e de’ figliuoli ne peggiorerebbe d’assai. Oltre a ciò temeva la
tempesta, li corsali e la fede de’ marinari: ma vinse, dopo lungo contrasto,
nel generoso petto il desiderio di campare li figliuoli; stimando, quanto
fusse più grande il pericolo, tanto dover essere la gloria maggiore; e che
dagli uomini, non che dalle donne, non si fe’ mai cosa grande senza gran
difficultà. Sicché fermò l’animo al partire; e cacciata via ogni paura, si
levò una mattina di buon’ora, e chiamò a sé certe poche donne che per cura
de’ bambini più che per servigio suo s’era pensala di menare: e trattasi da
parte, con sommessa voce loro disse, ch’esse sue sorelle vedevano a qual
termine la fortuna aveva condotto la casa Sanseverina, che, da’ suoi
fanciulli in fuori, tutti gli altri si tenevano per morti; e quelli più per
beneficio della sorte che non gli aveva fatti nascer prima, che per carità
del Re esserle
lasciati: i quali, avendo perduti gli amici, i parenti e ’l padre, a lei et
a lor sole distender le tenere braccia e chiedere aiuto; né altro in quel
tempo il lor sesso potergliene prestare, che, menandogli in più sicuri
luoghi, camparli dalla crudeltà de’ padroni; e che avverrebbe poi, salvate
lor le persone, che e’ ricupererebbono gli stati. Soggiunse anche, aver il
papa amico, et un ben guernito legno che quella mattina le leverebbe a’ suoi
lidi; né altro desiderarsi che la franchezza dell’animo loro, la quale gran
tempo prima ella aveva conosciuto in esse, et in sé sperava non dover
mancare: ma che, se pur il fatto riuscisse contra il disegno, raccordava
loro ch’erano allieve sue, e che avessero più timore della vita che della
morte; poiché l’una termina, e l’altra prolunga le miserie di questo mondo.
Mentre la Principessa favellava, spandevano abondantemente lagrime le povere
donne, e le promisero di seguirla, se bene n’andasse all’inferno. Ordinò
loro adunque che, senza farne parola a persona, presisi per mano li
figliuoli, le andassero dietro; et ella, con alquanti di casa, a San
Lionardo nella maniera usata se ne venne; ove postasi a far orazioni, mandò
gli uomini in diversi servigi. Fattosi poi dal suo famigliare menare il
brigantino, acciocché i marinari non la conoscessero, in un velo, al costume
delle donne napoletane, aviluppò il viso; e voltasi all’imagine di San
Lionardo, disse: «Divotissimo Santo, tu vedi la purità della intenzione mia,
e come la carità di questi fanciulli infelici mi fa gittar nel mare. Sia
pregato il tuo altissimo nome di volerli da qualunque avversità custodire, e
me e loro a più lieta fortuna conservare». Salita poi in barca, fe’ dar de’
remi in acqua. Parve che quel legno fusse spinto da sopranaturali forze:
perché non solamente lasciossi lungo spazio addietro quelli del Re, che poco
da poi rattamente lo seguirono; ma in brevissimo tempo a Terracina, luogo di
Roma, e d’’indi alla terra de’ Colonnesi, stretti parenti de’ Sanseverini,
la Principessa condusse. La quale fatta sicura e lieta, non si rimase di
rimproverare al marito et a’ compagni, per la grandezza dell’animo suo, la
sciocca dapocaggine loro.
XXXIII. Segni di gran calamità nel Regno
Ma nel vero, fu cosa fatale nello stesso tempo a’ Baroni quasi di tutta
l’Europa l’esser travagliati e vinti: perciocché, oltre a’ regnicoli e que’
della Chiesa e stato di Milano, i francesi ancora nella giornata di
Sant’Albino furono da Iacopo Galeota napolitano, e di Carlo ottavo generale,
con memorabile rotta sconfitti e presi. Ma lo sventurato accidente de’
nostri fu accompagnato da portenti orrendissimi: perciocché nel principio di
questi movimenti oscurò il sole, e per ogni lato del Reame sopravenne
infinito stuolo di piccioli grilli di vari colori, che danneggiarono gli
alberi e le biade fortemente. Da venti poi, piogge e terremoti, molti
edifici commossi rovinarono, e non poca gente sotto loro oppressero. Una
saetta che percosse l’arco di San Niccolò al Molo, uccise messer Filippo Palombello, con la mula che cavalcava. La Zecca di Napoli cadde dalla parte
di Sant’Agostino. Da’ quali segni e prodigi, come evidentemente si potette
stimare che la calamità de’ Baroni era a Dio non men che agli uomini
dispiaciuta, così si dee congetturare indubitatamente, che, rovinato il
luogo ove si battono i danari, che sono i nervi delle guerre et i custodi
delle paci, quell’imperio, come avvenne, si dovea tosto spegnere et
annullare.