Libro secondo
I. Presa dell’armi de’ Baroni
Si è per lunga esperienza conosciuto, le guerre che commuovonsi con le forze
di molti capi, arrecare agli assaliti più spavento che danno; conciossiaché
la moltitudine, l’egualità e la diversità de’ fini che gl’induce a
guerreggiare, possono infra di loro agevolmente produrre differenze. Il che
si è confermato ampissimamente dall’esito della presente guerra, indebolita
prima da’ dispareri del Conte di Sarno
col Principe di Salerno, e poi rovinata da quelli del papa con Roberto Sanseverino.
Sparsa per tanto la voce della cattura di que’ signori, che fu del mese di
giugno, l’anno MCCCCLXXXV, si venne nell’opinione di ciascuno a confermare
che il Duca di Calavria
volea spegnere i Baroni et i loro stati occupare: sicché il Principe di Salerno e gli altri cospirati, mossi dalla paura et invitati
dalla presente occasione, con la quale credevano appo il mondo di potersi
giustificare, tolsero dagli animi loro qualunque rispetto; e non più
celatamente si armarono, ma soldarono genti alla scoperta, e le loro
fortezze fornirono.
II. Turbamento del Regno
Il quale movimento fu cagione che in un tratto tutto il Regno andasse
sottosopra, e di mirabil quiete cadesse in grandissimo travaglio. Perché i
Baroni che non erano nella congiura, da’ congiurati si guardavano: le terre
demaniali del Re amendue
tenevano a sospetto: sicché ciascuno s’armava, muniva et affortificava. Per
li popoli poi discorrendo la fama della nuova guerra, gli Angioini si
rallegravano, gli Aragonesi si dolevano: quelli si apparecchiavano a
ricuperare le robe perdute nelle guerre adietro, questi a difenderle. Furono
rotte le strade, e tolti i commercii, serrati i tribunali: ogni luogo si
riempié di speranze, di timore e di confusione. E i Baroni, acciocché dal
canto loro fossero adempite col papa le condizioni della lega,
sottoscrissero la scritta mandata da messer Bentivoglio; e cominciarono a
pensare a cui di loro convenisse il carico di andar a Roma. E volendo il
Principe di Salerno sopra ciò col Conte ragionare, da capo fu con lui
alla Trinità; e fattogli, come gli altri, fermare la capitolazione, lo
richiese ch’egli s’ingegnasse che anche il Secretario la
sotto scrivesse. Ma il Conte, sapendo la disposizione di quello, ricusò di
farlo, escusandosi che per esser persona timida, non mai si soscriverebbe a
sì fatte scritture: di che il Principe non piccola noia senti, e cominciò
aver dubia la fede loro, tanto più che il Conte faceva grande instanzia di
esser lui quello che si doveva in nome degli altri mandare a Roma, dicendo,
il pontefice per li sospetti di Rodi poterlo senza gelosia impetrare dal
Re.
III. Cagioni della discordia del Conte di Sarno e
del Principe di Salerno
Ma il Principe che, come si è detto, della sua fede sospicava, né fuori del
comune pericolo lo volea trarre, gli fe’ rescriver da messer Bentivoglio,
che il papa desiderava appo di sé uno de’ signori antichi. Questa risposta
la riconobbe il Conte come da bocca del Principe, giudicando che ad
Innocenzio nulla rilevava se vi gisse più una che un’altra qualità di
signori: e parvegli che con essa il Principe non solamente lo schernisse
delle sue speranze, ma con rimproverargli la sua novità anche lo
svillaneggiasse. Indi uscirono i semi della loro nimistà; i quali aggiunti
ad altri sospetti, ivi a non molto tempo ad amendue generarono calamitosa
rovina.
In vece del Conte di Sarno,
si deliberò che il Gran Siniscalco ne andasse a Roma, nato di nobilissima
stirpe, e che avendo il marchesato negli Abruzzi ai confini
della Chiesa, poteva passare agevolmente: il quale da Venosa sua terra
venuto a Salerno, il Principe gli comunicò tutti i suoi disegni et ordini,
gravandolo che, soprastando loro un sì grave pericolo, come prima potesse si
affrettasse alia volta di Roma.
Era il pontefice, commosso dagli andamenti del Duca di Calavria,
fortemente insospettito, temendo che innanzi rovinassero i compagni ch’egli
fosse apparecchiato: laonde con molto studio ne mandò ai Veneziani Nicolò Franco, eletto vescovo di Trivigi, acciocché loro persuadesse che si
collegassino seco al conquisto del Regno, profferendo loro dopo la vittoria
buona parte di esso.
IV. Roberto Sanseverino condotto dal papa
La città di Vinegia dimorava allora travagliata da gravissimo morbo, e dalla
guerra ferrarese per anche non riposata: et i suoi cittadini, se bene verso
del Duca e del Re erano di
pessimo animo, né avessino caro ch’essi, rovinando i Baroni, d’armi e di
ricchezze diventassero maggiori; pure sovveniva loro le infinite volte che
gli altri papi gli aveano beffati, e la mala riuscita che avevan già fatta i
Baroni contra il medesimo Ferdinando. Di modo che, dopo molte consulte
fatte, deliberarono con la via del mezzo, agli stati perniciosissima, né
abandonare il papa né in aperta lega entrare contra il Re: ma pensarono
rimuovere da’ loro soldi Roberto Sanseverino loro generale, come che la
Republica, da ogni lato in pace ritrovandosi, non avesse più del suo
mestiere di bisogno; e poi segretamente in tanto aiutarlo, ch’egli potesse
armare due mila cavalli e due mila fanti. Licenziarono adunque Roberto; il
quale, considerando che questa impresa gli dovea esser utile et onorevole,
per gire all’acquisto di un Regno, alla difesa della Chiesa e de’ suoi
Sanseverini, dal cui legnaggio egli discendea di natura, prestamente in
punto si pose con una fiorita cavalleria, con la quale e quattro figliuoli
fu dal papa condotto a’ suoi stipendii. Solevano in que’ tempi buoni le
repubbliche et i principi italiani, con sì fatti modi colorati, senza
guastar le paci o romper le triegue, attaccare le guerre, e gli amici
sovvenire.
Avutosi dal papa questo capitano, e discoperto il partito preso da’
Veneziani, il Re et il Duca
incominciarono a rivolgersi per l’animo la pericolosa tempesta che si moveva
loro dentro il Regno dai soggetti, e fuori da’ loro collegati; e come
nocchieri prudenti cercarono, pria ch’ella crescesse, di tranquillarne
alcuno: e per mezzo del Conte di Sarno,
tentarono in Sarno medesimo essere insieme col Principe di Salerno; e n’ebbero promessa da lui. La qual cosa risaputa da
Innocenzio, egli sopra modo se ne sdegnò, e con messer Bentivoglio altamente
se ne dolse, imponendogli che scrivesse al Principe, per quello ragionamento
lui venire ad insospettir gli amici, dare animo a’ nimici, e nella loro
sentenza confermare i dubii; per lo qual rispetto troncò il Principe le
pratiche, e di venire a quel colloquio si rimase.
Fu opinione che il Conte, pervenuti il Re et il Duca in
Sarno, avesse lor fatto quel che altra volta consigliò al Principe, cioè
d’imprigionargli; e che il Conte di Carinola con molte ragioni gliene
confortò; ma Salerno, ora spinto dall’onore or dal timore, et in casa sua et
in quella di altri avergliene tolto il potere. E credo ancora io, come molti
credono, che sopravennero questi impedimenti per non esser giunto il termine
della loro rovina, et acciò che i Baroni de’ proprii falli avessin condegno
gastigamento. Si conobbe nondimeno a quali pericoli soggiacciano i principi
per dominare; poiché coloro che da tante guerre e battaglie valorosamente
erano campati, poterono in questa impresa più fiate, vilmente e senza verun
pericolo de’ lor nemici, essere rovinati et oppressi.
V. Capitolazione chiesta de’ Baroni al Re
Disperando adunque il Re della pace,
recatosi in sé gagliardamente, si preparò alla guerra: e nel distribuire i
carichi dell’impresa, deliberò che due eserciti si facessero: l’uno sotto di
sé, per stare all’incontro de’ Baroni, e perciò minore; l’altro maggiore,
sotto del Duca di Calavria,
che a’ confini della Chiesa occorresse alle forze del papa e di Roberto.
Spedì ancora uomini a chiedere instantemente aiuti a Firenze e Milano,
collegati seco, et a Ferdinando Re della Spagna
suo cognato. I quali apparecchi con sollecitudine fatti, furono cagione che
i Baroni ricorressino a ragionamenti di accordo; sì perché vedevano il
nimico apparecchiato e propinquo, gli amici disarmati e lontani; sì ancora
perché, essendo di agosto, intendevano con questi trattati far passare il
rimanente del tempo che il Duca potea soggiornare alla campagna, e
danneggiargli. E tanto più questa risoluzione abbracciarono, quanto che il
Principe di Salerno e ’l Conte di Sarno
si erano del tutto inimicati. Il Principe, persuaso da’ provedimenti e dalle
promesse d’Innocenzio, era tanto enfiato et in tanta insolenza salito, che
non prezzava più né il Secretario né il
Conte di Sarno:
al qual Conte in que’ dì furono ridette molle cose della mala volontà di
quello, e come di lui parlava vituperosamente, dicendo ch’egli s’ingannava
di grosso a credere ch’esso arrischiasse la vita e lo stato per assicurare i
suoi furti o lui ingrandire. Di maniera che, venendosi alle strette della
guerra, il Principe non gli poté, secondo le convenzioni, trar dalle mani
veruna quantità di danari, chiedendo il Conte che prima effettuasse colla
figliuola il parentado: dalla quale contesa gli animi di amendue di già
erano grandemente conturbati, quando, per buona ventura de’ lor nemici,
occorse un altro inopinato accidente che accrebbe i lor maligni umori, e gli
finì di scompagnare.
Era allora, a sorte, morto l’Arcivescovo di Salerno; dalla qual occasione
prese speranza il Conte di Sarno
di fare smascherare il Secretario, e la
loro parte apertamente seguire. Trattò pertanto col Principe, che egli col
papa intercedesse che quella dignità fosse in uno de’ figliuoli del
Secretario
collocata: ma essendo il Principe seco sdegnato et obligato al Vescovo di Melfi,
uomo dello stato di Urbino, volle che colui prima l’ottenesse, e per
compiacerne ancora il Duca di Melfi, desideroso che uno de’ Caraccioli nella
città di Melfi lo spirituale padroneggiasse. Questo dispregio per sì sconcio
modo trafisse il Conte, che tra lui e ’l Principe seguirono un giorno in
Salerno sopra ciò di sconvenevoli parole; et a tale il Conte si lasciò
trascorrere, che con giuramento affermò, mai più in tal luogo né a tal
persona rivolgersi: dolendosi che ben si era avveduto, i Baroni voler in
quella guerra usare i danari e gli stati suoi e del Secretario, per
avergli dopo la vittoria in peggior modo a guiderdonare che il Duca di Calavria non gli avea minacciati.
Questi dispareri adunque, a notizia degli altri pervenuti, accelerarono, come
si è detto, che i Baroni sotto nome della pace dessino tempo a’ collegati di
armarsi: cotale superbia gli animi loro avea accecati, che più tosto
volevano sottoporsi all’armi esterne, che, umiliandosi a quel nuovo signore,
delle proprie valersi. E perché il Re non avrebbe
prestato più fede al Principe di
Salerno, gli ferono chiedere la pace da quel di Bisignano: il
quale ritrovò Ferdinando in ciò assai più disposto di prima, non avendo egli
animo, cessati quei sospetti, di loro attenerla. E per conchiuderla, con
ogni sollecitudine mandò alla terra di Miglionico, dove
la maggior parte de’ Baroni era convenuta, il Conte di Sarno,
il Secretario, e
messer Giovanni Impoù catalano, suo consigliere.
Il Secretario e ’l
Conte, per le cose narrate, non confidando più ne’ Baroni, caldamente si
sforzavano che seguisse la pace, e con essa si celassino i loro occulti
andamenti; tanto più che il Re, avutone di già sentore, un di col Secretario
ragionando, si era doluto che il Conte di Sarno
usasse co’ Baroni sospetti. Il che egli non negò; anzi rispose che, per
esser la paura sua maggiore di quella degli altri, non era maraviglia se
pensasse le stesse cose: onde che Ferdinando, dimostrando con l’adoperargli
di fidarsene, cercava ad un tratto et assicurare loro, e porgli in sospetto
agli altri congiurati. Il che gli succedette sì felicemente, che, giunti
quelli a Miglionico,
furono da’ Baroni ricevuti con ambigui volti, e Sarno più fiate della vita
sua sospettò; perciò che que’ signori, veggendolo, di lor compagno,
del Re fatto
partigiano, doppiamente l’infamavano. Pure, per dar segno d’uomini pacati,
non solamente celarono questa loro indignazione, ma anche richiamarono il
Gran Siniscalco: il quale verso Roma camminando, s’era condotto in
Abruzzi. E venuti poi con esso loro a discutere gli
articoli della pace, dopo l’esser rimasi d’accordo di tutti, gli
risolverono, per menar la pratica più in lungo, che volevano il Re venisse da sé
a promettergliene, e che altrimenti mai non ne sarebbono stati sicuri.
Videsi allora quanto il Re desiò,
pacificando i Baroni, di scemare l’orgoglio di quel torrente che rovina gli
minacciava: perché, posposto ogni riguardo della dignità e della persona,
agli dieci di settembre postosi in via, s’andò confidentemente a cacciare
nelle mani di costoro, seguito dalla moglie, e poco da poi dal Duca di Calavria ancora. Le principali domande, sopra delle quali i Baroni fingevano
col Re voler
pattuire, furono queste: che non volevano nelle sue richieste personalmente
comparire, essendoché con quel colore molti di loro v’erano imprigionati e
morti: che fosse loro permesso di tener gente d’armi per difesa de’ loro
stati: che potessero custodire le fortezze proprie co’ loro soldati: che non
dovesse il Re gravare i loro sudditi di altra che dell’ordinaria
imposizione: che le sue genti di armi non dovessero ne’ loro stati
alloggiare, volendosene per le proprie servire: e finalmente, che fosse loro
lecito, senza tòrre licenza da lui, prendere soldo e sotto qualunque
principe militare, purché l’armi non s’avessero a maneggiare contra del
Regno. Le quali domande m’è giovato di raccordare, non tanto perché si
conservino alla futura memoria, come perciò che i viventi d’ora nel Reame,
moderati dal presente giusto imperio, riguardino quale fosse l’insolenza di
quegli antichi signori del Regno, in maggior parte causata da un continuo
esercizio dell’armi.
VI. Parole del Gran Siniscalco al Conte di Sarno
Ma mentre il Re ne viene e
da’ Baroni s’aspetta, il Gran Siniscalco, che di già era rivenuto, come più
congiunto in amistà col Conte di Sarno,
di pari consentimento degli altri ch’avevano caro chiarirsi del suo animo,
gli palesò l’inganno della pace: e parvegliene tempo allora, per nuovo
turbamento venuto nel Conte.
Erasi dianzi a Roma passato ad altra vita il Cardinal di Aragona, uno de’
figliuoli di Ferdinando; e ’l padre tostamente il governo delle sue terre,
che Vico furono e Massa e San Bartolomeo del Guado, comparti fra ’l Conte di Maddaloni
e quel di Marigliano: di maniera che, riputando il Conte di Sarno
discrescimento suo ogni accrescimento di coloro, la liberalità del Re verso di
quelli in propria ingiuria convertiva. Dissegli adunque il Gran Siniscalco,
la pace non dovere avere effetto, e che da essi si maneggiava affinché
Roberto, Loreno e ’l papa si potessero armare: ma perch’egli vedeva che
questa pace si appetiva da lui fieramente, lo pregava a volergli manifestare
se intendeva con esso loro perseverare, o pure per occulta cagione disegnava
ritrarsi e ne’ servigi del Re continuare;
però che di leggieri avverrebbe che anch’egli, lasciati i Baroni, si
disponesse a seguire l’opinione sua.
Queste parole di tal confusione ingombrarono il Conte, che rimase come
stupido, e soprastette a rispondere; anzi apparve in lui dispiacer grande:
conciossiaché tutte le sue speranze nella presente pace aveva collocate. Ma
poiché alquanto in quella perplessità fu dimorato, rispose ch’egli rimaneva
forte ingannato, avendo creduto che l’accordo seguisse per comune beneficio:
ma ch’avendo ad esser guerra, egli non mancherebbe a quanto aveva
sottoscritto. Per lo cui coperto parlare temé il Gran Siniscalco che s’egli
nell’impresa intervenisse, avverrebbe più per timor della soscrizione che
per volontà: et essendo intendente et ingegnoso, né volendo con dubio animo
in compagno di tanta qualità fondarsi, deliberò sperimentare se nell’animo
del Conte prevalesse la generosità sua all’offesa di Salerno. Sicché
subitamente, lasciatolo, n’andò colà ove le scritte avea riposte; e quella
del Conte presa, venutosene da lui con fronte oltre l’usato lieta e
confidente, e recatasela in amendue le mani in atto di stracciarla: «Signor
Conte – disse –, ho sempre giudicato, ove ne va la roba e la vita e l’onore,
com’è ciò che noi trattiamo, non doversi prendere gli uomini con la forza,
ma dalla lor libera volontà; e parimente ho persuaso a questi altri signori.
E se pensai mai, alcun di noi in questa impresa spontaneamente venire e
senza rimordimento veruno, tenni per fermo sempre che voi fuste desso, che
commosso dal pericolo delle cose vostre l’avete consigliata e ritrovata: ma
veggendovi era sospeso, e rispondermi di oblighi e di scritte, eccovele.
Tolga Iddio che il timor di pochi versi v’abbi a condurre ove l’amor della
roba e della persona non vi conduce». È così dicendo, quel foglio lacerò: di
che avvegnaché il Conte sentisse nell’animo maraviglioso piacere, parendogli
di non poter essere più convinto del suo errore, come più volte il Principe di Salerno
l’avea minacciato, nondimeno né con gesti né con parole lo
dimostrò. Anzi rispose non si tenere sciolto per la rottura di quella carta,
e che egli solamente n’aveva fatto menzione per non obligarsi ad altre
condizioni ch’ella non racchiudea; ma che, quando pur fosse di altra
maniera, e’ si sentiva alla magnanimità del Gran Siniscalco sì obligato, che
quantunque il Principe di Salerno
l’avesse offeso et ingiuriato, non verrebbe giammai
meno all’impresa. Onde che, cresciuto l’ardire al Gran Siniscalco, procedé a
più caldi prieghi e confortollo a far buon animo, dimostrandogli non istar
bene per ogni leggiero sdegno le grand’imprese interrompere; come avverrebbe
a quella, togliendosene lui, da tutti loro amato e riverito, e che
grandemente si sarebbe ingannato s’e’ venisse in isperanza di vivere
col Re e col Duca
mai più sicuro: sicché fedelmente seguisse la fortuna di tutti, e ’l
somigliante al Secretario
persuadesse. Finse il Conte di Sarno per le costui parole ripigliare
l’impresa: il che venuto a notizia degli altri, l’incominciarono a
carezzare; e ’l Principe di Bisignano per cagione del parentado entrò seco
in lungo ragionamento, e promisegli in ogni modo mandarlo in esecuzione:
così altri leggermente si crede quel che vuole.
VII. Gita del Re a Miglionico a ritrovare i Baroni
Intanto il Re giunse a
Miglionico, e da tutti quei che vi si trovarono fu con ogni
generazione di onore ricevuto. E venuto con esso loro agli accordi,
quantunque dal Duca di Nardò, per gratificarlo, pel mezzo di Ramondo,
maggiordomo di esso Duca, gli fasse aperto tutto il segreto di questo
trattato; nondimeno non si rimase di concedere loro ciò che gli chiederono,
così dintorno alle gravezze come agli oblighi personali; riprendendogli
amorevolmente, che per ottenere quelle cose avessino più tosto voluto tòrre
l’armi, che nella sua benignità confidare. Esortòlli di più a gire dal
Principe di Salerno e fargli la pace accettare, promettendo loro ch’egli
il terrebbe per figliuolo, e ’l Duca di Calavria
per fratello. Ferono sembianti i Baroni di rimanere sodisfatti di ciò che
al Re era piaciuto
concedere loro: e per rendernelo più sicuro, lo vollero accompagnare fin a
Terra di Lavoro, per di là poi poter andare unitamente da Salerno, e, come
aveano promesso, fargli accettare le convenzioni.
VIII. Ribellione de L’Aquila
Ma essendo per via, seppero L’Aquila esser ribellata, et i cittadini avere
ucciso il Cicinello e il Pappacoda insieme col presidio, e per tutta la
città gridato il nome del papa. Il che come inestimabilmente contristò il
Re, così empié i Baroni di maraviglioso diletto; perché, oltre al vedere con
felice cominciamento la guerra appiccata, gioivano che il Principe di Salerno,
senza macular la loro fede, per questo nuovo accidente potesse
rifiutare la pace, e l’impresa seguire: in sì fatta guisa quelle genti
aborrivano il disonore, che volevano che gl’inganni ancora apparissero
onorati.
Il Re, piegando quelli verso Salerno, mandò con esso loro il Conte di Sarno e
’l Secretario e
messer Impoù, commettendo loro con ogni iniqua condizione a dover fermare il
Principe. Costoro v’andavano mal volontieri; come che, essendo L'Aquila
ribellata, indarno sì tenterebbe che abandonasse il papa: e ’l Conte di Sarno,
vedutosi sciolto e sapendo la verità del maneggio, giunto a Sarno, dove
riccamente albergò tutti i Baroni, né per prieghi né per minacce vi si poté
condurre; ma postosi dentro di esso, la fortezza e le foci di quello munì
maravigliosamente.
IX. Descrizione della terra di Sarno
È Sarno in sulla costa di un monte edificato; soggiacegli nel piano il borgo;
e nel più alto giogo siede la fortezza, che il borgo insiememente con la
terra riguarda. Quindi in camminando a Napoli forse mille e cinquecento
passi, favvisi incontro il fonte del fiume Sarno; sopra del quale è una
porta guardata da una torre, naturalmente dal fiume e dal monte
affortificata. Questo luogo dagli abitatori della contrada veniva detto le
foci di Sarno; che venticinque anni addietro dalla gravissima rotta di
Ferdinando era stato nobilitato.
X. Chiamata di don Federigo d’Aragona a Salerno da’ Baroni
Rimaso il Conte, gli altri co’ Baroni giunsero dal Principe: il quale,
tuttoché, mentre queste cose si trattavano, egli avesse fermo, nella Serra di Paterno
col Conte di Carinola, di non voler condescendere ad accordo
alcuno, nondimeno con allegra vista gli ricevé; e pensò con questa occasione
tenere anche il Re più a bada. E
perciò dal Secretario e
messer Impoù gli fece riscrivere, come volea si racconciassero certe cose
nelle condizioni, e cert’altre se n’aggiugnessero; e per osservanza di esse
chiedeva che don Federigo in presenza gliene venisse a promettere. Ma
dall’altro canto manifestando col Secretario il
suo animo, lo strinse che, come il Conte di Sarno
avea promesso, e’ si dovesse accompagnare con esso loro alla scoperta: alla
qual cosa per niuna maniera volendo il Secretario
acconsentire, anzi tuttavia rammaricandosi che il Conte l’avesse tradito, fu
con messer Impoù onestamente fatto guardare. Non m’è nascosto aver detto
molti tutto ciò essere stato procurato dal Secretario, per
trattenersi a Salerno et attendere i successi della guerra, per, secondo
quelli, governarsi: ma è cosa manifesta, egli avere significato a don Federigo
che non venisse, perché l’arebbono fatto prigione.
XI. Diverse qualità di don Federigo e del Duca di Calavria
Era don Federigo persona per cognizione di molte scienze e per varie
legazioni prudente, e dalla natura del Duca di Calavria
molto lontano, come uomo delle lettere più che dell’armi vago. Laonde i
Baroni, per l’odio che portavano al Duca, disegnarono di dargli il nome di
Re, e, per lo natural desiderio che i fratelli hanno del dominare, infra lui
e ‘l Duca suscitare guerra intestina; e sperarono che il pontefice, veduta
la dimora del Duca di Loreno, facilmente avesse a condescendervi. Ma noi che
le cose di molti anni poi abbiamo udito e letto, giudichiamo questo pensiero
anche dalla divina providenzia essere stato impresso negli animi di coloro:
e che perciò fu loro agevole con presaga mente di prevedere quello ove
discorso umano per niuna cagione potea trapassare; cioè, che don Federigo
dovesse, quando che fusse, ascendere al Regno, essendo allora vivo il padre,
il maggior fratello, e di lui più figliuoli. Ma perché non so se altrove mi
debba far menzione di questi due fratelli, avendogli la fortuna con uguale
avvenimento creati Re, spogliati del regno e fattigli in esiglio morire; sia
per avventura dilettevole che anch’io racconti in che la natura gli produsse
dissomiglianti.
Era il Duca di Calavria
persona che con l’astuzia, con l’audacia e con la forza, alla gloria et
agl’imperii oltre modo intendeva. Fu don Federigo uomo che, con l’equità,
modestia et umanità, procurava la grazia e ’l favore degli uomini. L’uno per
la potenza volle esser temuto, l’altro per la virtù amato. Commendavasi nel
Duca l’ardire e la prontezza: in don Federigo l’ingegno e l’eloquenza era
stimata. A quello rifuggivano tutti gli audaci: a questo tutti gli umili
ricorrevano. Appariva nel primo, severo l’aspetto e mediocre la persona: nel
secondo, grande il corpo si scorgeva e graziosa la presenza. Finalmente, il
Duca era vario con gli amici, crudele co’ nemici, amatore di cacce, di fonti
e di orti; e fu di tant’avarizia notato, che regnando non donò presso che
mai, e fuggendo portossene quanto potette. All’incontro don Federigo diede
quanto potette nel dominare, e nel partire, ciò ch’ebbe; con qualunque sorta
di gente fu stabile e benigno, amator di lettere e premiatore delle virtù;
sicché meritevolmente l’uno lasciò desiderio di sé a’ sudditi, e l’altro
terrore.
Don Federigo adunque, non ostante l’avviso del Secretario,
acconsentendolo il padre, si risolvé a girvi: tanto confidò in quei signori,
e cotanto bramò usurpare egli la gloria di avere ferma la pace con la
prudenza sua, che al Duca per timore dell’armi parea che dovesse venire.
Sicché, giunto a Salerno, fu da’ Baroni ricevuto e salutato non altrimenti
che a Re si conveniva: di che egli insiememente ne stava lieto e maravigliato, non avendo sperato
di ritrovare si fatta umiltà e sommissione ne’ Baroni; e credette, contra
l’opinione di ciascuno, potergli col padre a concordia ridurre. Ma
cominciando di essa a trattare, gli trovò tutti alieni dall’intenzione sua:
perché esso volea che stassero sicuri sotto del Re e del Duca; e
quelli lo richiedevano ch’egli la corona accettasse, acciocché dall’ingiuria
di amendue li avesse a difendere. Dicono ch’ei commosso dalla novità della
richiesta, fu vicino ad uscire del sentimento: pur, essendo prudente, e di
concordia inespugnabile col fratello, riprese cuore, e si dispose a far loro
conoscere l’errore in cui dimoravano; sicché tolse tempo a rispondere tutta
la notte vegnente, e disse che l’altro dì nel cospetto di ciascuno, e udite
prima le loro ragioni, egli voleva d’intorno a quella materia ragionare.
XII. Orazione del Principe di Salerno
Aveva il Principe, venuto il giorno, fatto ordinare di molte sedie nella sua
casa, convenevoli a’ gradi di ciascuno; ma sopra modo assettò eminente e
pomposa quella di don Federigo, non solo per onorarlo, ma acciocché gustasse
qualche parte del fasto e della grandezza regia, e che quelle preminenzie
almeno gli apportassero tanto spirito nell’animo, che fusse capace di un
regno. Seduti adunque per ordine, il Principe rivoltosi a lui, e tacendo
ogni uomo, così disse: «Signor mio, non perché io sia il più prudente degli
altri che son qui, tolgo a persuadervi che di privato divegniate Re, e di
suddito padrone; ma perché la cosa è così agevole e da sé stessa tanto
apparente, che non merita che questi signori d’intorno vi s’affatichino;
trattandola massimamente con quel signore ch’è ricco e compiuto di tutte le
scienze che l’uomo rendono a Dio somigliante: e per ciò né anche adornerò il
mio dire di parole magnifiche o di colori rettorici; essendo di natura tale
la verità, che più bella e più candida a’ riguardanti appare schietta e
pura, che ornata e lisciata. Né meno entrerò ad accusare il padre o ’l
fratello vostro: perché, oltreché non convenga a’ gradi nostri con le parole
far vendetta delle offese, ciascun di loro porge legitima occasione al
fatto; perché il Re, essendo vecchio, le cose trascura; e ’l Duca corre con
quei peccati che gli dà la natura: la quale fu forzata a produrre lui
superbo e rapace; avendo a voi, signore, tanta umanità e liberalità
riserbata. Niuno è di questi compagni ch’avete all’intorno, che non si senta
offeso da lui; niuno che da voi non si trovi beneficato: ognuno teme ché,
succedendo lui alla corona, abbia a vedere perduti gli stati, morti li
figliuoli e svergognate le mogli: ciascuno spera che, ascendendovi voi,
sabbia a fare più ricco nell’avere, più beato ne’ successori e più onorato
nelle donne. Non è adunque maraviglia se, in tanta disparità, l’uno per
padrone desideriamo, e l’altro per tiranno odiamo; né che l’uno si privi del
regno, e l’altro vi s’esalti: perché quella causa è giusta ch’è necessaria;
quell’armi sono pietose e sante, mediante le quali ciascuno difende la roba,
li figliuoli e l’onore. E come non dobbiamo noi con ragione temere di essere
rovinati et estinti da colui che ha voluto spegnere la chiesa d’Iddio, e li
suoi ministri in tanti modi ha vilipeso, tradito li parenti, ingannati gli
amici, e li nimici con ogni sceleraggine perseguitati? Ogni animale,
quantunque irrazionale e privo d’intelletto, fugge dalla morte e cerca vita:
non altrimenti noi, dall’empie mani sue scampando, ricorriamo a te, e ti
preghiamo a tòrre il dominio de’ cuori e delle volontà nostre, et a
liberarne da questo timore che perturba e opprime gli animi nostri. Né ti
escusare che sei del Re secondo nato;
perché i regni non pervengono sempre a coloro che le leggi hanno ordinato,
ma a quei che gli sanno con prudenza reggere, e con fortuna mantenere.
L’avolo tuo, di ottima memoria, privò il Re Giovanni, cui
di ragione questo regno perveniva; et a tuo padre, che non v’aveva a fare,
il concedette, estimando che per l’uno in continua guerra, e per l’altro in
perpetua pace dovremmo dimorare. Oltra che, non si può né anche dire che la
giustizia non sia dal canto tuo e dal nostro; attesoché questo regno è
beneficiario di Santa Chiesa, et uso da’ sommi pontefici concedersi in censo
a’ suoi benemeriti: da’ quali oggi vien donato a te, come degno di tanto
dono, e negato a colui che ha scorso, predato e rovinato li paesi, le città
e li templi loro. Ma posto che il Duca con l’armi, poiché con la ragion non
puote, se ’l voglia difendere; con quai danari e con che soldati il farà
egli, negandogli noi gli uni, e gli altri in sua rovina armando? La potenza
de’ Re non nasce con essi, ma viene loro data e tolta da noi sudditi: perché, ove non è chi
ubidisca, nulla giova il comandare. E se Firenze e Milano avessino pur
voglia di sovvenirlo, come le loro genti da lui potranno passare? avranno
forse ali a saltare tante provincie della Chiesa, tra loro e noi frapposte?
o come, dentro di quelle racchiuse, sosterranno la potenza di tatto il
rimanente dell’Italia, con mirabile consenso collegato? né meno dèi credere
che il tuo vecchio padre non abbia a secondare la volontà degli uomini e
d’Iddio: anzi non si terrà del tutto padre infelice, avendo tra’ figliuoli
alcuno giudicato degno dello scettro e della real corona. Rammentati adunque
di esser nato con noi; e che questo cielo e questa bellissima parte d’Italia
ti ha nel mondo prodotto per uno scudo e per un porto, alle percosse et a’
naufragii suoi. Vinca nel cuor tuo la pietà delle miserie nostre; abbraccia
li nostri innocenti fanciulli; solleva le spaventate madri; ferma quel
sangue, di cui il tuo natio terreno, le domestiche case e li divini altari
vedrai sozzi e bruttati: e finalmente, non sofferire che cacciati dalla
necessità, vivente te, corriamo per salute nel grembo di gente barbara,
aliena di lingua e varia di costumi; come senza fallo avverrà, non
accettandoci tu per servi tuoi».
XIII. Orazione di don Federigo
Favellò il Principe, invero uomo ben parlante, con tanto ardore, che i
circostanti giudicarono don Federigo non poter rinvenire cagione alcuna di
rifiutare cotale dono; e perciò ciascuno s’empieva di speranza, non
dubitando punto delia gratitudine sua. Ma egli, messosi pure in anime di non
volerlo, non penò molto che così rispose: «Signori Baroni, potrebbe altrui
parer dubio a chi io mi debba avere obligo maggiore, al Duca o a voi;
perché, come dite, s’egli non vi avesse offesi et oltraggiati, io, che né
l’uno né l’altro ho commesso, per avventura non vi parrei si buono e si
lodabile: ma io sono pur risoluto di essere a voi più che a lui di gran
lunga debitore; tanto è grande l’onore che mi fate, e prezioso il presente
che mi profferite. Pur piacesse a Dio, che il concedermi questo Regno con li
effetti, fosse in vostra mano, siccome egli è il darmene abiti et ornamenti,
co’ quali non un Re, ma un modello di lui verreste ad adornare: non essendo
vere insegne reali i scettri o le corone, ma la riputazione e l’armi; poiché
l’une nelle pompe vanamente ti onorano, e l’altre nei pericoli utilmente ti
conservano: e que’ dominii s’hanno grandemente con la forza a mantenere, che
con la fraude si sono conquistati. E potrebbesi egli usare inganno maggiore
che usurpare il fraterno stato, contra il voler del padre, delle leggi e del
costume? Ripieno poi di tante fortezze e presidii, che appena la vita di
dieci Re, tutti valorosi e sempre vittoriosi, basterebbe a vincerli et
espugnarli, massimamente che buona parte de’ Baroni avvezza all’armi siegue
il Duca: il quale, avvegnaché da’ popoli sia mal voluto e odiato, manifesta
cosa è, da’ soldati, co’ quali sarebbe a far la guerra, essere amato e
adorato; avendo per arricchire l’uno, impoverito l’altro. Dalle quali cose
leggermente si comprende quel che in casa contra di lui possiamo. E
d’altronde, che potrei io sperare? Indarno cerca aiuto o fede negli strani,
chi co’ suoi è disleale. Oltraché il papa, vostro primo fondamento, è
vecchio, povero, e co’ confederati in discordia, appetendo egli per li suoi
la vittoria; Loreno per sé; Roberto né per l’uno né per l’altro, disegnando
con continova guerra amendue signoreggiare. E pur non vi regnando
dissensione, le guerre adietro de’ pontefici non dovrebbono altrui aprir gli
occhi, e 'l fin della presente far prevedere? Essi, divenuti in poco tempo
grandissimi per quell’affezione e riverenza che alla religione giustamente
si deve, persuadonsi alcuna volta di potersi del mondo insignorire, e perciò
ne corrono all’armi: nelle quali poco pratichi et instrutti, non potendo
tosto, come credevano, prosperare, e veggendo presso alla lor morte di
consumare il tempo in paure e molestie, volgonsi agli accordi, senz’aver
punto riguardo a’ compagni de’ travagli. Le altre potenze dell’Italia, con
le parole, vi esorteranno tutte a seguire l’impresa; ma, per il fine
dubioso, co’ fatti si staranno a vedere; e spereranno, con gli affanni
nostri e vostro pericolo, accrescere le forze loro, e l’imperio distendere.
Veggo anche, signori, che poco prudentemente le maniere mie con quelle del
Duca agguagliate: però che, qual proporzione volete voi che sia dal Re ad un
privato, o dall’officio mio a quel di lui, né è maraviglia me aver con gli
studii delle buone lettere fatta piacevol natura et umana, e lui con
l’esercizio dell’armi terribile e feroce. Perciò che le qualità diverse
delle discipline richieggono così, e così furono sempre mai: e se dimane mi
faceste Re, sarei forzato a dimenticarmi le usanze mie, li suoi costumi
apprendere, e sommamente assomigliarlo in conservando il grado reale, in
maneggiando le guerre, in ponendo nuove gravezze, in assicurandomi de’
malcontenti; et in somma, in adoperando tutto quello per lo che egli viene
ad essere da voi odiato e temuto: in modo che non molto andremmo che vi
ricondurreste a deponer me vecchio Re, et un altro nuovo cercarne. Le quali
mutazioni, credete a me, si faran sempre con poco vostr’ onore et infinito
danno. Perché al principe nuovo fa mestieri prima della roba a trarne il
vecchio, poi a premiar chi ve l’ha posto, et a mantenersi lo stato: ma colui
che v’è anticato, ha passate le due prime difficultà, e con necessità minore
sente l’ultima. Sicché, signori, da queste ragioni consigliati, apparate
oggimai a tolerare gl’incomodi che naturalmente soprastanno a’ sudditì:
vincete con la vostra liberalità l’altrui necessità: recatevi eziandio a
bene, ch’io non riceva il dono profertomi, e che prima vi rimanghi amato
compagno che odioso padrone».
XIV. Don Federigo fatto prigione
Venuto a capo don Federigo del suo ragionare, si videro in un momento quasi
tutti i volti degli ascoltanti cambiati: et in vece di quell’allegrezza e
confidenza che da prima mostravano, destossi in loro un mormorio et un
timore, presago del male che per la presente congiura dovea loro avvenire;
et i più savi giudicavano, scompagnato da loro Sarno, don Federigo
contrario, il papa disarmato, Loreno e Roberto non anche in assetto, essere
in loro poca unione, e ne’ collegati per vincere minor ordine. Del qual
disordine fattisi avveduti il Principe di
Salerno e gli altri capi, che bramavano di terminar con
l’armi la loro mal cominciata impresa; e per rendersi anche riputazione con
le opere, come con le parole s’erano ingegnati di diminuire e riprovare le
cose dette per don Federigo; feronlo di Re prigione,
levando il velo alle adulazioni di tanti onori che per loro particolari
interessi, più che per lo dovere, gli avevano fatti. La qual cosa fu di
tanto maggior biasimo degna, quanto che Ferdinando, udita la gran confidenza
che essi dimostravano avere in don Federigo, e ’l desiderio di aggrandirlo
nel Regno, l’aveva di già dichiarato Principe di Taranto, e permessogli di
unirsi con esse lore, qualunque volta il Duca di Calavria
contrafacesse all’accordo.
Ma nel mezzo tempo che queste cose in Salerno seguivano, in Napoli e nella
corte reale si divulgò, il Secretario
essere in lega co’ Baroni, e, di carcerato, tra’ capi della congiura
divenuto. La cui fama i piccioli e’ grandi ad una voce lacerando, e come
ingrato e perfido accusandolo, parve a’ figliuoli di avere anch’essi
occasione a porsi in sicuro. Pregarono pertanto il Re che non
volesse credere le voci sparse dagl’invidi contra il padre; il quale, con
sua buona grazia, andrebbono a vedere e sprigionare, acciò che della leanza
di lui la Sua Maestà e tutte l’altre genti rimanessero sodisfatte. Il Re,
che avea caro di scoprire l’animo di tutti, et a cui non calea de’ figliuoli
avendo il padre perduto, diede loro licenza, raccordando loro che al
Secretario
narrassero quanto per fama si udiva.
XV. Parentado del Conte di Policastro
Costoro a Salerno pervenuti, come di letizia i Baroni riempierono per essere
intimi del Re, così dicono essere stati cagione che il Secretario, non
dubitando più delle loro persone, si scoprisse in pregiudizio del Re in alcune
cose: tra le quali la maggior fu, che procurò che il Conte di Policastro
menasse per donna la figliuola di quel di Lauria. Eragli questo parentado a
cuore, perché lo Stato del figliuolo in mezzo delle terre de’ Sanseverini
ritrovavasi; la cui grandezza parea in ogni tempo dovergliene far sicuro: ma
desideroso che si divulgasse di non essere stato suo pensiero, maneggiollo
in guisa che parve che per ubidire v’acconsentisse. Era, come si è detto,
tra’ custoditi messer Impoù, timidissima persona. Ferono a costui da un
certo Fra Ludovico dire, che se don Federigo col Secretario si
adoperava che egli si congiugnesse di parentado co’ Sanseverini, i Baroni il
farebbono libero, e poste giù l’armi, a qualche giusta condizione
col Re si
ridurrebbono: tale fidanza nel presidio e favore di quello riponevano. Parve
a messer Impoù, più alla sua libertà che all’altrui inganno intento, con
don Federigo tantosto comunicarlo: il quale essendo sagace, dubitò che fusse
pensiero del Secretario; ma
trovandosi prigione, prepose il pericolo alla fraude: et al Secretario
ricusante comandò efficacemente che per lo servigio del Re dovesse col
figliuolo quel parentado effettuare: e così le nozze, quantunque in
malagevol tempo e più ai dispiaceri che alle feste convenevole, furono
magnificamente celebrate.
XVI. Provvedimenti del Re contra i
Baroni
Rizzarono da poi i Baroni, veduta di don Federigo l’ostinazione, e per
porgere maggior animo al papa, le bandiere con le insegne pontificie. La
qual cosa come poté rallegrare il pontefice, così il Duca di Loreno debbe
altamente sdegnare, non dovendo in faticando per altri pregiudicare le sue
ragioni. Dal che, e da altri andamenti, vedutosi il Re aggirare con
le parole e co’ fatti assalire, e profondamente gravandogli la fraudelente
cattura del figliuolo, pensò, per necessità più che per volontà, di venire
all’armi, et ordinarsi in modo in mare e in terra, durante il verno, che a
primavera potesse opporsi al papa e superare i Baroni. E prima che ogni
altra cosa, si diede a disunire le forze di quelli, et in più maniere io
tentò e l’asseguì.
Solevano allora i vassalli de’ signori del Regno, per l’impotenza del Re, con
più libero et assoluto dominio che al presente non si fa, da’ loro padroni
essere signoreggiati, et in alcune cose fuor del dovere aggravati: onde che
sotto a molti di essi vivevano mal contenti et infedeli. Con assai terre di
questa qualità, a’ congiurati sottoposte, aveva il Re intendimenti,
e trattava di farle partire dalla loro ubidienza: e gliene successe di
alcune, et in ispecie di quelle del Principe di Altamura, signore poco
liberale, e ne’ suoi stati più temuto che amato. Sprigionò anche il Conte di Montorio, pregandolo che, posta in oblivione la presente offesa procedente
da vera necessità, e de’ suoi molti beneficii facendosi ricordevole, volesse
far forza di ricuperare L’Aquila. E così la perdita del L’Aquila fu la
libertà del Conte; e, quel ch’è peggio, il Re liberò il
Conte e non riebbe L’Aquila: singolar documento per quei che non contenti
della parte, arrischiano il tutto.
XVII. Presa de La Cerra fatta dal Re
Dapoi, presentendo i disegni de’ nemici, e volendo Napoli e Terra di Lavoro
liberare da ogni sopravegnente pericolo, non ostante che fusse decembre,
campeggiò La Cerra, da Napoli otto miglia discosto: la quale, posta in luogo
paludoso, in quella stagione arebbe avuto tediosa espugnazione. Ma trovatasi
la terra mal proveduta di presidio, e ’l castello di munizione, né potendo
il Principe di Salerno per la via di Sarno, come da prima aveva disegnato,
soccorrerla, cento fanti, che v’erano a guardia, più cupidi di vita che di
gloria, senz’aspettare assalto, di notte si fuggirono; lasciato al Re senza pugna
un luogo allora inespugnabile, e che altra volta, difeso da Santo Parente,
egregio capitano di
Sforza, per più mesi avea sostenute l’armi di Alfonso primo, e di Giovanna seconda, e molti loro ferocissimi assalti vigorosamente
ribattuti. Nella quale diversità apparve, la virtù degli uomini più che i
naturali munimenti esser la difesa delle città.
Sbrigato il Re da La Cerra,
si volse a raddoppiare le sospizioni del Conte di Sarno
contro a’ Baroni: perciocché, non polendolo vincere con l’armi, lo volse con
l’industria e con le promesse temporeggiare. Significògli adunque, i Baroni
partitamente avergli dato contezza ch’ei s’era collegato con esso loro e
avevagli a congiurare istigati; ma, perché il Principe di Bisignano non
s’avea voluto da poi apparentar seco, s’era spiccato dall’impresa. Il che da
lui non era stato creduto, come quello ch’avea veduto ch’esso Conte, con
fede e prudenza governandosi, non era con gli altri dentro Salerno voluto
convenire: e poich’essi lo giudicavano di un principe indegno parente, egli
degno di sé Re lo voleva
fare, promettendo dar per moglie a Marco, primo figliuolo di lui, la
figliuola del Duca di Melfi, per linea naturale sua nipote. Pregollo ancora,
che, per esser sì presso al pericolo, volesse con diligenza custodire le
Foci; e Sarno rinforzare. Con le quali dimostrazioni e promesse, affatto da’
Baroni lo svolse, e per tutta la guerra il mantenne ne’ suoi voleri.
Non s’appagò già Ferdinando per aver acchetata Terra di Lavoro, ma senza
intermissione addosso al papa si rivolse, e per la prima, cercò di
giustificare la guerra; la quale dovendosi maneggiare contro al pontefice,
sbigottiva gli uomini, allora più dediti all’onore de’ sacerdoti che al
presente non sono. Oltra che credeva che il papa lo dovesse assaltare, senza
alcun riguardo, con l’armi temporali e spirituali: dubitava ancora degli
Orsini, sì perché Virginio era messo in sospetto dal Conte di Carinola che
il Re gli volesse
torre il contado di Albi e di Tagliacozzo; come perché a guerreggiare contra
la Chiesa non si disponevano, benché gli offerissero di difendere il Regno.
Per le quali cagioni, un giorno, nella chiesa cattedrale di Napoli, in
presenza del popolo, della nobiltà e di molti capitani e baroni, fe’ leggere
una protesta, come col papa e con la Chiesa non voleva né avea differenza
alcuna; e che tutto il suo apparato di guerra era per guardia di sé e dello
stato suo, e non per offendere o occupare l’altrui; promettendo anche di
dover essere sempre della sede apostolica figliuolo ubidiente. Né più né
meno scrisse a’ potentati del cristianesimo, richiedendo gli amici,
confermando li dubbii, e li nimici trattenendo: e per far risolvere gli
Orsini, e con l’armi de’ suoi sudditi Innocenzio travagliare, operò coi
Colonnesi e Savelli, de’ quali Mariano militava a’ suoi stipendii, che
rompessero guerra agli Orsini; acciò che l’odio della fazione: facesse loro
sfoderare quelle: armi che il rispetto della patria non lasciava adoperare.
Era la famiglia Colonnese da Sisto e dagli Orsini, come dicemmo, gravemente
stata offesa; perché, oltra l’esserle stato tolto nel Regno Tagliacozzo, in
Roma anche le avevano bruciate le case, e mozzo la testa a Lorenzo Colonna protonotario.
Sicché, tra per li conforti del Re e la voglia
di vendicarsi, non parve loro in questa novità perdere l’occasione. Ebbero
già queste due parti tra le loro usanze un iniquo costume, cioè di non
perdonar mai le ingiurie: anzi, nella varietà de’ tempi e nella mutazione
de’ pontificati, non solo l’hanno rese del pari, ma nel modo stesso che
l’hanno ricevute. Sicché, prima i Colonnesi, capi de’ quali furono Prospero
e Fabrizio, che ne’ tempi avvenire riempierono della gloria de’ loro nomi
tutta l’Europa, cercarono porre in sospetto ad Innocenzio Batista Orsino, cardinale,
e gli altri prelati di quella casa. Ma, veduto che il pontefice,
per la sua facilità e per la speranza ch’avea che Virginio si stesse di
mezzo, non dava loro orecchie, si ristrinsero insieme; e co’ Savelli e con
gli Anguillari conchiusero, venuto che fosse Roberto Sanseverino, di
prendere l’armi e li nimici assaltare.
XVIII. Assalto dei Colonnesi contra gli Orsini
Giunto adunque Roberto, per la città seminarono, Virginio venire a’ danni del
papa et a saccheggiar Roma. Né molto da poi tardarono, che una notte, andati
a Monte Giordano, là dove erano le case di quello, e sforzate le porte, le
predarono e v’appiccarono fuoco. Al qual rumore destasi la parte Orsina, si
levò in arme, corse in aiuto delle case, e per le piazze e per le vie prese
con gl’incendiarii sanguinosa battaglia, con tale rabbia, che da ogni lato
ne morivano molti, et infiniti se ne ferivano. Era la notte, che a’ buoni
suole recar timore et a’ malvagi audacia, e le cui tenebre come
spaventavano, così la licenza del mal fare accrescevano: di maniera che in
poco di ora Roma fu tutta in iscompiglio; e quale eccitava all’armi i
Colonnesi, quale in aiuto degli Orsini chiamava. Gli armati che per le
strade s’incontravano, se non gridavano tutti un nome, fieramente
s’assalivano: et era loro tanto adentro l’amore delle parti, che quello
delle sorelle vinceva e delle mogli, le quali né con prieghi, lagrime o
forza, i fratelli, i figliuoli o i mariti potevano ritenere. Non si udiva
altro che stridi, non si vedeva altro che splendor di armi e di fiamme: in
un tratto da ciascuno il sacco, il fuoco e la morte si temeva. Ma a tutte le
rapine, agl’incendii et omicidii, l’apparire del giorno pose fine. Perché i
capi rioni e i ministri di giustizia armatisi, e sotto le loro insegne le
genti ragunate, ogni disordine acquetarono. Ma quanto fu fermo dentro la
città, tanto più di fuori in campagna si accese; dove gli Orsini per
vendicarsi, et i Colonnesi per difendersi, erano usciti.
Quella oggi vien detta Campagna di Roma, che si ristrigne fra le fiumare del
Tevere e del Teverone, fra la Palude Pontina, il mare e l’Apennino, che fu
già l’antico Lazio. Poco men che tutte le castella e terre che son racchiuse
dentro di questo paese, e le poste all’intorno, ubidiscono a’ baroni Romani;
ma più degli altri i Colonnesi e gli Orsini ne posseggono, capi delle
fazioni, ove per li tempi adietro molte volte arrabbiatamente la loro
ambizione hanno sfogata: siccome più che mai allora avvenne, che si
guastarono le biade, si uccisero gli animali, si tagliarono gli alberi, e le
case spianarono. Né bastò giammai Innocenzio con promesse a placare l’ira di
Virginio, uomo di natura pertinace, e che in Roma non poté tolerare né
superiori né pari. Alle quali cose aggiunta la cupidità della vendetta,
pareva che dalla sua ferocia né i luoghi forti né i deboli né gli alti né i
piani potessero campare; e perché nell’Abruzzo e nella Sabina aveva stati,
acciò che in avendo libero il passo e’ si potesse servire in campagna delle
forze di tutti, occupò il ponte alla Mentana, posto sul Teverone. Il
Teverone, detto già Aniene,, discende dal Monte Trebulano, e, da’ laghi
accresciuto, mette capo al Tevere, a Roma tre miglia vicino: le cui acque
dicono sopra tutte l’altre dell’Italia le cose postevi imbiancare. Ma perché
nell’entrar del Lazio e’ profonda cotanto che non si può valicare, gli
antichi Romani vi fabbricarono disopra quattro ponti: uno de’ quali, più
intiero, posto sulla via Nomentana, presso la città di Nomento, oggi
La Mentana detta, occupò Virginio, e di trincee, artiglierie e soldati
ottimamente forni; di modo che il papa, pieno di sdegno e di timore, stimolò
Roberto, non ostante fusse nel più aspro verno, ad uscire alla campagna, e
le correrie di Virginio raffrenare.
XIX. Brevi del papa al Duca di Loreno
E per sollecitare anche il Duca di Loreno, mandò a Genova il
Cardinal San Piero in Vincola, che apprestate di molte navi attendesse la venuta di lui,
disegnando per la via del mare, come già fe’ il Duca Giovanni di Angiò,
farlo entrare nel Regno. E non contento di accenderlo con tanti
provedimenti, ebbe anche ricorso alle persuasioni, e più brevi gli scrisse:
ne’ quali gli significava, ch’esso, costretto dal voler divino, veniva a
spogliar del Regno un uomo malvagio, per privilegiarne lui, principe di
bontà, di valore e di religione a null’altro secondo: e come i progressi di
quella guerra erano tutti guidati dalla divina mano, poiché, senza sfodrar
la spada, si erano con esso lui accompagnate quasi tutte le ville, castella
e città del Reame, tutti i Baroni, amici, parenti e servidori di Ferdinando:
e come L’Aquila, terra possente, e dopo Napoli la prima, con la morte aveva
puniti i suoi scelerati ministri, e di suo volere si era sotto il suo
imperio ricoverata; anzi, che di tanto gran Regno, da Napoli in fuori, una
pietra o un palmo di terra non era al Re rimaso; e che
quella città ancora, con ogni violenza ritenuta insino allora, al primo
giugnere suo gli aprirebbe le porte, e nelle mani gli porrebbe il comune
nimico: sicché lo pregava, ch’avendo con seco la giustizia e l’equità, la
Chiesa et i Regnicoli, anzi buona parte di tutto il rimanente degl’Italiani;
lo pregava, dico, che s’affrettasse, e non volesse con l’indugiare perdere
l’occasione, ingannare il favore degli uomini, fraudare i suoi figliuoli di
sì grande eredità, e, quel che era più, alla volontà del sommo pontefice e
dono di Dio ripugnare.
Pur questi brevi et esortazioni non poterono essere bastevoli che Loreno
nell’Italia si conducesse; perché Rinato, come non era se non mezzo del
sangue di Angiò e mezzo Francese, così né anche il Regno appetiva con quel
desiderio e quella fiducia di conquistarlo ch’ebbero i veri duchi di Angiò.
Aggiugnevasi che gli mancava la maggior parte delle forze con le quali gli
Angioini trattarono le guerre del Regno; perché, oltraché possedevano la
Provenza, usarono sempre l’armi dei Re di Francia
loro congiunti: le quali il Duca presente di Loreno, oltra al non potersene
servire, l’avea anche in questa impresa contrarie; conciossiacosaché, per lo
lascito di sopra detto, la corona di Francia aspirava ella a quest’acquisto;
e di già ne’ consigli del giovane Re Carlo ottavo si trattava di far la guerra che otto anni dapoi i Francesi con comune
rovina eseguirono. E benché quel Re poco da poi,
mosso dalla riverenza dei prieghi d’Innocenzio e dal pericolo della sede
apostolica, mutasse proponimento, promettendo al Duca, volendo lui calare in
Italia, cavalli e danari e favori appo Ludovico, Genovesi e Fiorentini, suoi
amici; nondimeno l’animo di quel signore per fatale irresoluzione era sì
gelato, che il più ardente fuoco sarebbe stato insufficiente a riscaldarlo.
E quale sprone più acuto poteva un cuor magnanimo a utile e gloriosa guerra
affrettare, che il vedersi attorno i nunzii del papa, gli ambasciadori de’
Baroni, e di tutti gli altri malcontenti della grandezza degli Aragonesi?
Qual più certa speranza di vittoria se gli poteva appresentare, che dargli
Genova per iscala, Innocenzio per guida, i Veneziani per compagni, e tutto
il Regno rivolto al suo nome per ricetto? Ma era nel cielo ordinato che quel
principe, per altro valoroso, fuor di ogni debita ragione procurasse
perpetuo biasimo a sè, et a’ congiurati irreparabile, benché meritato,danno.
XX. Assalto del ponte alla Mentana
Ma trattanto che si eccitava il Duca di Loreno, Roberto con picciolo numero
di fanti e trentadue squadre di cavalli, ne venne fuora incontro a’ nemici.
Primieramente deliberò, per disgiugnere le forze di Virginio, il ponte alla
Mentana espugnare; et appressatosegli, tolte via le difese, vi piantò
l’artiglierie: e come vide la testa del ponte esser battuta in guisa che vi
si poteva salire (volendo, con l’esempio di questo luogo, che gli altri
senza contrasto gli aprissero le porte; e sapendo quanto nelle guerre i
primi successi delle cose alzino et abbassino gli animi umani), chiamò a sé
Guaspari suo figliuolo, detto per sopranome il Fracasso, e preposelo a’
fanti che lo dovevano assalire, ricordandogli ch’ei gli dimostrasse, la
madre in generandolo non l’avere ingannato; e che quel dì, quel luogo e
quell’assalto gli dovevano recare o una perpetua gloria o un’eterna infamia.
Et esso, dall’altro canto con la cavalleria si prese la campagna a guardare,
acciò che da niun lato potesse venire soccorso: però che l’ardire di
Virginio era tale, e tanta la cognizione del paese, che i nimici in assenza
et in presenza ugualmente lo temevano.
Fracasso, essendo giovane che co’ fatti corrispondeva al nome, e che alla
gloria paterna aspirava con ogni gran pericolo, in un tratto fe’ dare il
segno dell’assalto; et egli prima di tutti, presasi un’arma alle mani e
voltosi a’ soldati: «Fratelli – disse –, i figliuoli di Roberto Sanseverino
hanno prima apparato a fare, e poi a comandare: venitemi dietro, e mostrate
al vostro capitano che i suoi soldati non cedono di valore a’ figliuoli. Non
ispendo più tempo in persuadervi; perché, se i miei fatti non vi daranno
animo, molto meno ve ne darebbono le parole». E avviatosi incontro al ponte,
bravamente lo investi. I soldati, che amano più i capitani che sottentrano
a’ comuni pericoli, che quei che standone lontani in guisa di testimoni gli
riguardano, con uguale corso et ardire lo seguirono, appiccando mortal zuffa
con que’ del ponte: i quali, come a prodi soldati degli Orsini conveniva,
anch’essi vigorosamente loro occorrevano.
Ma sebbene gli animi de’ combattenti erano pari, le forze erano dispari:
perché i pontificii nella prima giunta non avevano potuto occupare sul ponte
se non pochissimo luogo, e gli Orsini il tenevano tutto; sicché i pochi
contra gli assai combattevano. Nondimeno la battaglia era terribile; perché
i soldati più a ferirsi che a difendersi pensavano. Incitava la speranza
quei del papa e di Roberto di dover prendere il rimanente del ponte, come il
principio avevano preso; il timore che non fusse loro stato più vergogna
ceder quel luogo che onore a guadagnarlo. Agli Orsini aggiugnea fiducia il
non aver fatto passare innanzi i nimici, e che quei che combattevano erano
pochi, et essi assai: sicché fra tutti ei sentiva un grido misto di
esortazione, di dolore e di allegrezza. Udivansi formidabili tuoni di
artiglierie; vedevansi soldati pesti, feriti et ammazzati: e la contenzione
era tanto cresciuta, che nel mezzo di amendue le parti sorgeva quasi un
monte di membra, di armi e di morti; del cui sangue il Teverone, come di
acqua, abondava.
XXI. Rovina della Mentana
Ma mentre la pugna era in su questo maggior furore, e che non si scerneva il
vinto dal vincitore, e che gli assaliti speravano di non perdere e gli
assalitori di guadagnare; Fracasso che, trasportato da soverchio ardire e
caldo di gioventù, nella prima fronte francamente combatteva, fu trafitto da
una archibusata, e, passategli amendue le guance, poco men che morto: di che
nacque tanto timore a’ Sanseverini e tanto ardire agli Orsini, che tutto il
ponte riguadagnarono. Il quale disordine apportato a Roberto, dolente a
morte che si vil luogo gli avesse a torre le carni e l’onore, e desideroso
che quel terreno che dovea seppellire il figliuolo, anche il padre
ricoprisse; prestamente, lasciati i cavalli, si mescolò nell’assalto, et in
modo quello con la presenza, col consiglio e col valore rinfrescò, che vinse
la pertinacia nimica, uccise i difensori, prese il ponte; e col medesimo
impeto corse sopra la Mentana, quella rubò et arse; ove l’adirato capitano,
senza differenza di condizione, di sesso e di età, tutti i terrazzani fe’
gire a fil di spada; come se, spargendo ii sangue di coloro, la ferita del
figliuolo guarisse: tanto può negli animi nostri l’ira più che la
misericordia, e cotanto la fortezza della virtù va col vizioso furore
mescolata!
Il luogo certamente fu indegno di quella calamità, sì per essere stato ne’
tempi antichi nobilissimo, come perché ne’ più moderni produsse al mondo
Crescenzio, cittadino di Roma che non solamente ardi di concorrere
all’imperio con Ottone terzo, ma ad onta de’ barbari pensò ridurre la sua
città nell’antico splendore. Pur, che maraviglia ci dee recare la rovina di
Noménto, se gli stessi suoi rovinatori con più raro esempio insegnano al
mondo l’umana fragilità, et in qual più brieve spazio la fortuna e ’l mal
governo traggano l’altissime cose all’infima loro bassezza? Conciossiaché la
famiglia de’ Sanseverini, famosa allora per tutta l’Italia nelle guerre,
copiosa di personaggi, splendida di signorie, non ottant’anni poi si vegga
in ogni lato inesperta di armi, vuota di uomini, e quasi spogliata di stati.
Erano le genti del Sanseverino, aggiunteci quelle del papa, per isperanza,
per numero e per valore, a quelle degli Orsini e del Duca di Calavria,
che alla fama della venuta di Roberto si era con essi loro congiunto, di
lunga superiori: sicché, disegnando Roberto, con dispregio dell’asprezza del
verno e del nemico, di andare all’espugnazione di Monte Ritondo, il Duca di Calavria deliberò, per non perdere i cavalli e la riputazione, ritrarsi ne’
fini del Regno, et il proprio terreno, non potendo l’altrui, custodire;
lasciato con buona guardia que’ luoghi che giudicava dovessero impedire o
ritardare il corso de’ nemici: i quali guerreggiando con gran disagio nel
più freddo verno, sperava di state agevolmente poter superare.
XXII. Pace tra il papa e gli Orsini
Ma mentre Roberto si ordinava di andare a Monte Ritondo, il cardinale Orsino
non approvò il consiglio del Duca di Calavria,
parendogli con quella ritirata egli acconsentire che i loro luoghi, che non
voleva o non poteva difendere, fossero da’ nimici saccheggiati et arsi.
Sicché, quelli non potendo col favore dell’altrui arme campare, si propose
salvargli col mezzo della clemenza del papa: a’ cui piedi postosi,
supplichevolmente e sin con le lagrime, in nome de’ più congiunti, gli
chiese perdono, riversando sopra de’ Colonnesi e Savelli la colpa de’
tumulti seguiti; e rammentando ferventissimamente quante fiate la sua
famiglia per la sede romana e sommi pontefici alla fierezza dei barbari
opponendosi, aveva sparso il proprio sangue, tant’operò che il papa, di
natura mansueto, e come intento alla conquista del Regno, così dalla rovina
de’ sudditi alieno, concedette a’ suoi et a Giulio Orsino con queste
condizioni la pace: che gli dovessero assegnare tutte le fortezze de’ loro
stati, e centro non guerreggiargli.
XXIII. Accordo tra il Duca di Melfi e i Baroni
Questo accordo, quantunque da Virginio generosamente disprezzato, pur segui,
con peco contento di Roberto e delle sue genti; anzi fu il primo sdegno in
loro, e nel papa il primo sospetto, perché si gravavano che Innocenzio, per
conservar li nimici, gli amici della preda e della vittoria privasse. Fu
nondimeno costante opinione, che, se da prima Roberto, lasciata maneggiar la
guerra di Terra di Roma a’ Colonnesi, e’ si fosse senza indugio trasferito
nel Regno (come tutti i Baroni esclamavano), che al Re, di tutti gli
apparecchiamenti sprovveduto, sarebbe convenuto cedere la campagna, e dentro
di Napoli racchiudersi.
Travagliandosi con maggiori odii che forze la guerra sul paese di Roma, i
Baroni dentro del Regno non perdevano tempo; e tuttoché avessero pochi
danari, per lo sconcio spendere che più delle loro entrate usavano di fare,
pure ponevano in ordine de’ loro sudditi genti di arme, facevano scelte di
fanti per li presidii delle terre, e le loro fortezze di vettovaglie, di
armi e di qualunque altra munizione riempievano. E veduta La Cerra con loro
gran danno perduta, e rivoltato Sarno, presero partito, lasciata Terra di Lavoro, nella Puglia maneggiare la guerra; regione fertile, et al Re di frutto
grande.
XXIV. Descrizione della città di Salerno
Era in essa Barone di alto affare il Duca di Melfi, uomo maturo, e che dagli
eventi delle cose le sue azioni moderava: il quale, quantunque dal principio
di questi movimenti, come si è mostro, porgesse a’ Baroni speranza di
accomunare con essi la sua fortuna, nondimeno veggendo fuori di ogni
credenza gli Orsini esser col Re d’accordo,
Loreno non anche venuto, né confidando nella povertà e disunione de’
congiurati, non osava né amico né nimico del Re dichiararsi;
ma standosi queto, guardava il suo stato con buona cavalleria, et a’ Baroni
per la guerra di Puglia era di molti pensieri cagione; massimamente che,
oltre al suo potere, temevano che concorrerebbe ad ogni sua volontà la
maggior parte de’ Baroni convicini, tratti da parentado alcuni, altri dalla
speranza de’ soldi che profferiva loro, essendo in nome et in fatti uomo
danaroso.
Erano fra quelli il Conte di Sant’Agnolo, Camillo Caracciolo, Carlo di Sangro, Giovan Paolo della Marra, Iacopo e Giovanni Antonio Caldora. Sicché
il Principe di Altamura, suo più vicino, e che per l’età e per l’ufficio era
il maggiore de’ Baroni, dopo averlo con perduta opera esortato e pregato
alla loro unione, non poté da lui ottenere altro che sincera tregua durante
la guerra, e che ciascuno le robe e gli stati dell’altro riguardasse: della
quale tregua dimostrò il Re al Duca di Melfi
che con molte ragioni gliene giustificava, chiamarsene per contento.
Ma Altamura et il Marchese di Bitonto, detto poi il Duca di Atri, non manco
prode allora nell’armi che si fusse poi nelle lettere eccellente e chiaro,
non temendo più del Duca, saltarono incontinente alla campagna, e andarono a
campeggiare Rutigliano; luogo importante, e che ciascheduno giudicava che
senza venire alle mani non si sarebbe conquistato. Però che don Francesco di Aragona
un altro figliuolo del Re, e Cesare Pignatello, erano di già
entrati in Barletta, et avevano il modo a sovvenirlo: ma, o che avesser
sospetto del Duca di Melfi, o che pure fondatisi sulle genti di quello, e
venute lor meno, nol potessino fare, poco onorevolmente il lasciarono
perdere. Dietro al quale si perdé anche Spinazzola e Ienzano: e Berlinghiero Caldora,
seguendo la fortuna de’ vincitori, con sue genti si condusse a
servirgli. Fu nondimeno questo acquisto de’ Baroni dalla perdita di don Federigo contrapesato; il quale, mal custodito, ebbe facultà di
fuggirsene.
XXV. Fuga di don Federigo
Salerno, antichissima città de’ Picentini, è posta in un seno del nostro mare
di sotto, appiè di un braccio dell’Apennino: ha nella fronte fertili et
ispaziosi campi, dalle spalle e dal lato sinistro altissimi monti, dal
destro il predetto mare, a cui si fa tanto presso, che da quello le mura le
vengono bagnate. Lungi due miglia è un luoghetto, che sembra picciolo borgo,
nomato Citara, gli uomini del quale, avvezzi agli esercizii marittimi,
sovente con barche il paese d’intorno frequentano: e, come tra’ vicini
accade, co’ Salernitani avevano controversie; anzi con tutto il paese della
Cava erano stimati di fazione contraria, perché gli uni dagli Angioini e gli
altri dagli Aragonesi avevano nome. Con costoro il Re praticò che
tenessero mano a far fuggire don Federigo, il quale dimorava quasi in libera
custodia; perché i Baroni dall’uno canto si vergognavano di averlo ritenuto
e sotto nome di amicizia ingannato; dall’altro non pareva loro sicuro il
lasciarlo andare, come se il Re per rispetto
di quello non avesse lor fatto quanto male avrebbe potato: sicché, fra il
timore e la vergogna, non seppero né ritenerlo né lasciarlo.
Parve a’ Citaresi che se don Federigo poteva calarsi al mare, leggermente
l’arebbono levato nelle lor barche, perché, come se andasser pescando sin
sotto le mura, le potevano appressare: e fattogliene intendere da’ loro
uomini che per cagione di comperare e vendere convenivano dentro Salerno,
giudicò don Federigo sul primo incontro pericoloso il partito; perciò che,
se non si fosse calato di notte dalle mura, egli non poteva pervenire al
mare: e benché le mura non fussino alte, pur erano guardate. Dubitava
ancora, non riuscendo la fuga, che i Baroni giustamente lo avessero posto in
più grave prigione: e come allora con la pazienza e con le persuasioni
sperava di potergli indurre a lasciarlo, così, discoperta la fuga, fuor di
ogni speranza ne rimaneva. Pure, sollecitando li Citaresi, e li Baroni
soprastando, deliberò tentare la fortuna, la quale altre volte in simili
casi aveva provata favorevole: sicché fattesi venire sotto Salerno, una
notte determinata, due barche di pescatori, dalle mura calatosi, sopra di
quelle si sospinse; o non avendolo per le tenebre della notte le guardie
veduto, o avendole esso corrotte (come scrivono alcuni), o (come io stimo)
per lo freddo non vi dimorando, essendo di decembre, e dal mare non
temendosi. Il quale tre di dopo entrando in Napoli dalla porta al mercato,
fu dal padre, da’ fratelli e da tutti gli ordini della città lietamente
incontrato e salutato. Commendavasi la costanza sua, l’amorevolezza col
fratello, l’ubidienza col padre: dicevasi esser maggiore diRecolui che i
regni dispregiava: era finalmente il suo nome per le bocche di tutti celebre
et illustre.
XXVI. Fuga e ritornata del Conte di Carinola
Dopo la costui fuga, il Secretario
ottenne licenza da’ Baroni di rimandare al Reil Conte di Carinola,
si per il parentado del figliuolo iscusare, sì per renderlo
sicuro, egli a forza e non per volontà dimorare con gli altri. Il quale
giunto a corte, et umanamente inteso e con simulate parole ricevuto, ivi
alquanto si fermò, più per attendere la rovina del Re e goderne,
che perché avesse voglia di giovargli. La quale cosa da molli della corte
conosciuta, invidiando la fortuna sua et agli stati e rendite sue aspirando,
il diffamarono essere rivenuto a spiare gli andamenti del Re; et
ispaventandolo che come traditore l’avrebbe punito, furono cagione che,
mandate prima le sue più care cose nel castello di Carinola, egli anche
nascostamente di notte vi si rifuggisse. La cui dipartita al Renotificata,
et esso dubitando da quel lato, al dominio della Chiesa molto vicino, di
alcuna novità, gli mandò dietro il Mosca suo cavallerizzo, che lo
confortasse a ritornare, obligandogli la fede sua di non temere di cosa del
mondo: e per intendere di qual animo fusse, lo fe’ richiedere di potere
menar fuori di Carinola la razza de’ cavalli, la quale il Re nudriva in
quella terra, come in molte altre del Regno. Carinola, udita la richiesta,
assegnò la schiatta, ma di ridurvisi lui, per niuna condizione si lasciò
persuadere: onde che il Re fu costretto
minacciarlo di mandargli gente di guerra addosso, e così farlo nella sua
podestà rimettere. E come le minacce furono bastanti a farlo fuggire, così
furono sufficienti a farlo ritornare: tanta paura si ritrovò in quell’uomo,
e tanto timore ebbe de’ fatti, che dalle sole parole sbigottiva. Vantossi da
poi il Principe di Salerno, per aggravare la viltà del Conte, ch’egli, non più
che otto giorni tenutosi, lo avrebbe dal Fracasso, non anche ferito,
indubitatamente fatto soccorrere; sì per tener quel luogo alla divozione de’
Baroni, come per la voglia grande ch’era nel Fracasso di divenir possessore
di quella stalla reale, compiuta non solamente di cavalle ottime, ma di
smisurati corsieri e bellicosi.
XXVII. Parlamento del Secretario
Il publico grido di questa fuga e ritornata, giunto alle orecchie del
Secretario, lo
pose in pensiero che, s’egli non gisse a puntellare e sostenere la poca
fermezza del figliuolo, ogni altra leggiera percossa lo farebbe cadere:
sicché si mosse ad impetrare da’ Baroni che sotto colore di negoziare la
pace l’inviassero dal Re, lasciato per istatico il Conte di Policastro;
acciò che, l’accordo non avendo effetto, nella prigione ritornasse. Il quale
giunto al cospetto del Re, avendo in compagnia don Federigo e quasi per
testimonio, si purgò di qualunque imputazione gli era apposta;
rammentandogli come l’aveva mandato a forza a Salerno, donde, non ostante
che fusse nello carcere, e della vita in pericolo, avere significato a
don Federigo a non venirvi, perché l’arebbono imprigionato: e che coloro
ch’avevano affermato lui non essere stato prigione con verità, da questo
solo si ridarguivano, che, se i Baroni non hanno avuto rispetto al figliuolo
del Re, meno si dee credere che al Secretario
l’abbiano portato: e che il parentado di Policastro non doveva appo Sua Maestà sospetto generare; conciossiaché don Federigo, là presente, fu che lo
pensò, l’ordinò e lo volle, avendogli egli a suo potere e contradetto e
ripugnato. Soggiunse poi, della fuga di Carinola non voler ragionare,
essendo nota la timidità di lui più a Sua Maestà che ad alcun altro; e che
la presta ritornata faceva fermissima testimonianza del suo animo dintorno
alla fuga: e che se pure avesse commesso alcun fallo e fussegli dovuto il
castigo, egli confidava per li suoi molti e rilevati servigi potergli
impetrare perdono da un animo regio. Il Re, di natura ottimo simulatore,
l’udì, e gli rispose tanto benignamente, che don Federigo e gli altri
circostanti stimarono che non si dovesse procedere giammai ad atto indegno
di tant’uomo. Il che dal Re non solo con
le parole ma con l’opere fu dimostrato; riponendolo nel grado di prima e ’l
tutto seco comunicando: benché non mancarono di quelli (che intrinsecamente
conoscevano le qualità del Re, e dalle preterite azioni le misuravano) che
predicessero, quelle dimostrazioni dover essere brevi et infelici.
Il Duca di Calavria,
dall’altro canto, vedutosi a Roberto inferiore, e come senza l’aiuto de’
confederati a tempo nuovo non si sarebbe potuto difendere dalla congiura di
tanti nemici, badava a fortificare i confini di verso San Germano, et era
mezzo disperato: perché dal Re di Spagna,
bisognoso, lontano, e da’ Mori di Granata travagliato, null’aiuto si
prometteva; in Ludovico non confidava per la già cominciata discordia; ne’
Fiorentini poco sperava, perché si erano implicati in nuova guerra co’
Genovesi per cagione di Serezana; e Lorenzo de’ Medici, che moderava quella
republica, era da infirmità soprapreso. A che s’aggiugneva, gli Aquilani non
aver voluto ammettere nella città il Conte di Montorio; anzi co’ sassi dalle
mura l’avevano salutato: et al padre non solamente mancavano i danari ma il
credito, essendo stato dal Conte di Sarno
abandonato. Ferdinando anch’egli, non ostante avesse addormentato il
Conte di Sarno,
assicurata Terra di Lavoro, don Federigo riavuto, stava, come il figliuolo,
dalle cose predette angustiato: e di già amendue assaggiavano li frutti di
quella guerra nella quale la loro immoderata cupidigia gli aveva condotti, e
gli arebbono sentiti molto più, se Lorenzo de’ Medici non fusse stato loro
grato e ricordevole; che non gran tempo prima, nel somigliante frangente
trovatosi, era a Napoli dal Re stato
conservato, e contra l’aspettazione di ciascuno: talché, volendogliene
rendere merito, posposto il suo male e gli affari della sua republica,
largamente li sovvenne, e fedelmente li consigliò, siccome di sotto dirassi.
XXVIII. Il Principe di Capova fatto generale dell’esercito del Re
Aveva Ferdinando per lungo uso delle azioni umane assai bene appreso, colui
nelle tempeste rimaner al sicuro vincitore, che le può temporeggiare: però
che il ceder loro ti fa perditore, l’urtarle ti pone a rischio. Nella quale
risoluzione fermato, giudicò dovergli essere giovevole il trattenere la sua
persona dentro di Napoli, e l’esercito suo, in gran numero ragunato, dare a
reggere al Principe di Capova, primogenito di Calavria; postogli allato, per
moderatori della sua giovanile età, il Conte di Fondi, quel di Maddaloni e
il Conte di Marigliano. Col quale partito assicuravasi la città di Napoli,
et esercitavasi il giovane, che manifestava con arti contrarie a quelle del
padre voler giugnere al segno della vera gloria: come, per confessione di
tutte le genti, vi sarebbe giunto poi, se l’avverso fato del Regno in sul
fiorir degli anni non glielo avesse tolto. Mandò anche in Puglia il Re, a
custodia delle terre demaniali e per capo de’ suoi seguaci, don Francesco di Aragona;
non per confidare in alcuna estraordinaria virtù di quello, quanto
a ciò fare da ambiziosa qualità de’ nostri signori necessitato; che mal
volentieri cedonsi nelle maggioranze, sebbene per merito o per esperienza ad
alcuno di essi più degli altri convengano.
Ma la miglior provisione ch’egli pensò, come si è detto, fu supplichevolmente
volgersi a Lorenzo de’ Medici; il quale immantenente assoldò il Conte di Pitigliano
con mille seicento cavalli, e posegli ad ordine per soccorrerlo:
a’ quali si aggiunsero altri seicento capitanati da Giovan Francesco Sanseverino
e mandati da Ludovico, per non parere men cortese co’ parenti di
ciò che i Fiorentini erano stati con gli amici; benché promettesse da molto
maggior numero fargli seguire. Queste genti tutte insieme rendevano la forma
di giusto esercito.
XXIX. Passata e ritornata di Toscana del Duca di Calavria
Nondimeno nel Re, nel Duca e ne’ suoi capitani, per cagione di esse, varie
erano le opinioni. Perché alcuni sentivano che si dovevano far restare in
Toscana, e strignere in modo il papa di là, che Roberto fosse richiamato et
a loro opposto: altri contendevano ch’elle rattamente si dovevano far
passare, e con essi congiugnersi, perché colui che avrebbe vinto nel Regno,
in ogni lato sarebbe rimaso superiore.
Alla prima contrastava, che i Fiorentini non si volevano trarre in casa più
guerra di quella che avevano: all’altra la difficultà del passo e de’ viveri
si opponeva. Pure appo il Duca di Calavria
prevalse quest’ultima, dal padre e da Lorenzo approvata: e perché spesse
fiate aveva fatto prova dei soldati ausiliari, stimò capitane niuno, fuor
che esso proprio, con quella prontezza che la sua necessità richiedeva,
dover entrare in partito si dubioso, com’era con quelli pochi soldati
traversare tanto paese nimico e seco congiugnersi; e se pure vi
fuss’entrato, non poterlo guidare avventurosamente: sicché propose di
passarvi egli; e come in quelle genti la salute del Regno dimorava, così
quella della persona vi volle collocare, indegno giudicandosi della vita,
privo dello stato.
Presesi adunque alquante squadre di cavalli, e le rimanenti, insieme co’
confini del Regno, alla fede e virtù di Virginio raccomandate, travestito e
pieno di confidenza, da quelle genti ne passò; le quali sotto al Conte di Pitigliano
erano già entrate nello stato ecclesiastico. Ma elle camminavano
così adagio, taciturne e con tanto timore, che a qualunque picciolo romore
da loro medesime si sarebbono poste in fuga: perché pareva a ciascuno che
gli alberi, i sassi e le frondi fussero uomini armati; figuravansi dover
patire sete e fame; a tutti erano presenti le funi e i cruciati che
potrebbono da’ contadini patire: non confidavano nel Conte, essendo vassallo
della Chiesa; non isperavano nelle terre, per essere de’ nemici: in guisa
che né nella battaglia né nella fuga da veruno attendevano aiuto. Ma
sopragiugnendo loro il Duca di Calavria,
non altrimenti che se fosse stato un Dio venuto al loro scampo, s’empierono
di speranza: e li avreste veduti levar alte le mani al cielo, e far co’
gridi di allegrezza risonare l’aria e i monti, corrersi l’un l’altro ad
abbracciare. Non si stancavano di guardarlo, non di salutarlo: predicavano
esser venuto il figliuolo del Re, grandissimo principe, rarissimo capitano;
il suo nome non pur tra’ Cristiani ma fra’ Turchi esser tremendo e onorato:
sicché nel cammino volavano, ne’ pensieri desiavano i nimici; e ne’
discorsi, come se avessin vinto, l’armi, i cavalli e’ prigioni intra di loro
compartivano.
Ma rapportata ad Innocenzio questa passata e disegno del Duca, com’egli
conobbe nascer da grande necessità, così entrò in ferma speranza che se gli
fosse porta l’occasione di conseguire certa vittoria di quella impresa: e
deliberò mandar genti nel Regno, si per contentare i Baroni che con ogni
istanza gliene chiedeano, sì per parergli cosa facile l’occuparlo, essendone
assente il Duca di Calavria;
al ritorno del quale pose eziandio ‘l’animo di chiudere il passo. Di questi
due effetti il primo commise a Giovanni della Rovere prefetto di Roma,
fratello di San Piero in Vincola, giovane valoroso e di grande animo;
l’altro a Roberto Sanseverino raccomandò. Piacevano questi pensieri a
Roberto: ma temeva che, mandandosi il Prefetto, le forze se gli scemassino,
e debolmente si potrebbe al Duca di Calavria
opporre. Oltra che il Prefetto si sarebbe perduto; perché dalle genti di
Virginio e del Re potrebbe
essere combattuto e vinto: di maniera che, per voler rimediare amendue
quest’inconvenienti, né l’uno né l’altro adempì. Perché, per far sicuro il
passo al Prefetto e dare a credere altri disegni a Virginio, seco si
ristrinse e fe’ sembiante con tutto l’esercito volerlo assediare: dall’altra
parte, con quante minori genti poté, per di sopra a’ monti inviò il
Prefetto, con ordine che con ogni celerità possibile dentro di Benevento si
cacciasse, città grande, armigera et alla Chiesa fedele; onde comunicando
co’ Baroni i suoi consigli, facessero al Re da quella
parte quanta maggior guerra potevano: e che, per dare della sua entrata
indizio a’ collegati, et a’ nemici apparenza di condurre più numero di
genti, per il cammino le sue schiere allargasse, il paese danneggiando. Si
persuase ancora di poter essere a tempo ad impedire il Duca di Calavria,
e con l’opportunità di qualche forte sito al mancamento delle genti
supplire. Ma egli indugiò tanto in Campagna di Roma, che non poté farsi
incontro al Duca prima che di qua da Monte Fiascone parecchie miglia: il
quale velocissimamente il suo viaggio compiendo, Roberto fu costretto
pervertire il suo primiero proponimento, e facendo della necessità virtù,
presentargli una tumultuaria giornata; la quale non solamente non fu dal
Duca schifata, ma col mostrarsi nell’accettarla audace si pensò anche
vincerla.
XXX. Battaglia tra il Duca di Calavria
e Roberto Sanseverino
Scoperto adunque il Sanseverino dalle scorte, e per tutto all’armi gridatosi,
il Duca si fermò; e gran parte del giorno trapassando, mentre egli ordinava
le sue schiere, per lo mezzo di esse con reale ardimento cavalcando,
dimostrò loro, quelli che l’attendevano essere li medesimi che tante volte
in Lombardia rotti avevano e fugati; e che quando la lor timidità non
gl’inanimasse, li facesse almeno gagliardi la necessità, essendo posti nel
mezzo di un paese, ove, oltra che conveniva aprirsi la via col ferro, chi
avrebbe fuggito nel cospetto del suo capitano per man de’ soldati una morte
onorata, l’avrebbe poi nelle selve dalla crudeltà de’ villani vilmente avuta
a provare. Da’ quali conforti, ma più dalla fierezza della presenza sua gli
Aragonesi sommamente fatti animosi, abbassato le lance, con tanto empito
percossero nella cavalleria nimica, che dalla contraria parte inschierata
s’era mossa a ferire, che molti ne presero, et alcuni ne uccisero. Onde che
Roberto, di peggio temendo, lanciatosi nel più folto stuolo de’ combattenti,
con alta voce li suoi al vincere confortò, dicendo che si raccordassino a
difendere la Chiesa d’Iddio contra uomini paurosi e scelerati; e che la
vittoria recava loro nelle mani preda grandissima, facendo prigione un
figliuolo di Re, con capitani e Baroni senza numero. Si rincorarono i
soldati per le voci del loro capitano; et in breve non solamente il luogo
ritennero, ma di maniera adeguarono la pugna, che amendue le parti speravano
di vincere. E tutte che Roberto fusse vecchio e il Duca giovane, niuno di
loro fa perciò che mancasse di consiglio o di valore; anzi, come altre
volte, così quel di egregiamente si diportarono, l’uno e l’altro per la
vita, per la gloria e per l’imperio di un regno combattendo.
Era la faccia della battaglia paventosa e orribile; e la campagna vedevasi di
uomini e di destrieri coperta, non tanto morti quanto a terra gittati et
arrovesciati, e dalle gravi armi impediti in modo, che non si potevano
rizzare in piede. Lo strepito dell’armi poi, gli urti, l’annitrire de’
cavalli, le voci de’ combattitori che alla pugna si esortavano, col polverio
grandissimo, avevano in sì fatta maniera gli cechi e le orecchie di ciascuno
otturate, che non si udivano i comandamenti de’ capitani: né gli amici da’
nimici si scorgevano, ma indifferentemente gli uni e gli altri percotevansi.
E come il tutto era in potere della fortuna, così la vittoria ora da quel
canto ora da questo faceva sembianti d’inchinarsi; tanto che la notte la
divise, e i campi si ridussero in isteccati tumultuarii, ma con animi
diversi: perché i Sanseverini, sdegnati che il buio avesse loro i nimici
celati, allo spuntar del sole si preparavano di nuovo a menar le mani; ma i
ducali, gloriandosi di essere superiori, et al passare intenti, ristorati
alquanto della pugna, di notte, sotto grandissimo ordine e senza strepito sì
posero in via; e, con infinita gloria loro et infamia di Roberto, dentro del
paese romano e nelle castella di Virginio si condussero.
Questa coraggiosa ripassata del Duca di Calavria
fu con tanto grave sdegno ricevuta nell’animo del papa, che poco mancò non
si disponesse, lasciata la guerra, a tentare la pace; tenendosi da Roberto
quasi che tradito, come che non le forze, ma la volontà gli fosse mancata ad
impedire il Duca. Il perché Roberto, acciò che il papa non si abandonasse,
ne venne a Roma, e dimostrò come niuno avrebbe creduto che il Duca, che in
quella battaglia et in molt’altre adietro aveva dato segni più di
precipitoso che di codardo, con vantaggio di gente avesse preso partito a
capitano indegno, non che a generoso figliuolo di Re, come voleva esser
tenuto egli: e che nondimeno era stato a tempo a seguirlo, e l’aveva così
spaventato e danneggiato, che non avrebbe ardimento per difesa del Regno
farsegli incontro.
Dalla quale speranza mosso il papa e dalla venuta di Loreno che di prossimo
sì aspettava, e per non dimostrare anche per il primo sinistro avvenimento
di essere invilito, differì la pace, e permise che Roberto, ingrossato il
suo esercito, tentasse da capo la fortuna, e, potendo, si congiugnesse co’
Baroni e col Prefetto. La cui gita nel Regno non gli aveva arrecato più
giovamento dell’incontrata del Sanseverino col Duca di Calavria:
perché sebbene si era felicemente condotto in Benevento, e nel passare
avesse posto sin dentro le porte di Napoli terrore, avendo presi bestiami et
uomini che, come discosti dal furor della guerra, vagavano oziosamente;
nondimeno, intesosi chi egli era e le poche genti ch’aveva menate, quel sì
fatto consiglio tosto appalesò la fallacia sua. Però che i Baroni ne
rimasero mal contenti, i nimici ne presero animo, et i comuni co’
particulari, da quella passata offesi, di odio contro a’ congiurati et al
pontefice si riempierono; come che in mutar dominio avessino ancora a
peggiorare di condizione. Per li quali umori fermare, il legato del papa,
che col Prefetto era venuto a Benevento, ragunò a Venosa una dieta di molti
de’ signori, presente l’ambasciador del Duca di Loreno ad essi mandato.
Dolsensi quivi agramente i Baroni del poco numero delle genti venute, della
tardanza di esso Duca di Loreno: il che dicevano non solamente dar tempo a
ragunar le forze al nemico, ma raffreddare gli animi ferventi de’ loro
partigiani, e i volonterosi di cose nuove volgersi a più quieti pensieri.
Iscusò lo ambasciadore l’uno e l’altro inconveniente, affermando non la
volontà del suo signore, ma il sospetto avutosi del Re di Francia
essere stato dell’indugio cagione: ma essendo allora tolto via, Loreno esser
già capitato a Lione con non picciolo numero d’uomini di arme, e che in
breve udirebbono esser entrato in mare a Genova, e approssimarsi al Regno.
XXXI. Assedio della rocca di Sanseverino
Fu nondimeno nella congregazione per tutti risoluto, rispetto al numero
grande dell’esercito di Ferdinando, starsi a guardia delle loro fortezze
sino alla giunta del detto Duca di Loreno, danneggiando con repentini
assalti i luoghi reali, e la loro parte di quanti più signori potevano
accrescendo. Pure Corio, scrittore di que’ tempi, narra, fra il Re e’ Baroni
agli otto di marzo dell’anno ottantasei esser seguita giornata, e dopo varia
fortuna Ferdinando esser rimaso superiore; ma non ponendo né il luogo né
l’ordine, né noi da altri storici avendone ragguaglio, siamo forzati con
silenzio a passarla. Questo sappiamo di certo, che il Principe di Capova,
messe insieme tutte le genti reali, per comandamento dell’avo andò ad
occupare il paese di Sanseverino; il quale, per esser compartito in ville,
non ha altra sicura difesa che una sola ròcca posta in luogo erto, da ogni
lato dirupato, e come custodia delle abitanze circonstanti.
Erano gli uomini fedeli alla casa Sanseverina, per la lunghezza del tempo che
gli aveva dominati, e per esser ancor dubbio qual di lor due all’altro abbia
dato il cognome. Faceva da poi questa fortezza un propugnacolo a Salerno, et
agli altri stati del Principe che quivi incominciavano. Però che da Napoli
ad essi per due strade sole si poteva pervenire; l’una per le montagne della
Cava, angustissima et agli eserciti impenetrabile; l’altra per Sanseverino,
più agevole e quasi piana. Adunque pareva necessaria cosa, per infestar
quelli, e Terra di Lavoro assicurare, torsi quello stecco davanti agli
occhi: con la quale chiude vasi anche il passo a Sarno, quando per
volubilità di animo il Conte avesse fatto altri pensieri. Appressossegli
adunque il Principe di Capova, e con ogni qualità di offesa si affaticava
ridurlo in suo potere: ma il tutto riusciva indarno. Però che il luogo,
forte di natura, per fedeltà de’ guardatori e solerzia del padrone era
diventato fortissimo. Sicché, deposto il pensiero di espugnarlo, con dubioso
fine si rivolgeva l’impresa ad ossidione; il Re non
giudicando poter fare allora più importante acquisto; e ’l Principe di Capova,
ammaestrato solamente a vincere, affliggendosi sopra modo che le sue
prime azioni avessino vergognoso successo. Ma ad ambidue sospetto di perdita
maggiore aperse il modo a ritrarsi.
Era il verno non solamente declinato, ma totalmente alla primavera cedea: nel
qual tempo ritornavano a casa innumerabili greggi di pecore e d’altri
maggiori bestiami, che per fuggire l’asprezza del freddo, da’ montuosi
luoghi delli Abruzzi, costumano
ciascun anno ridursi ne’ piani della Puglia; paesi assai temperati et
erbosi. Questi, prima della dipartita, pagano al Re, ne’ cui terreni han
pascolato, un dazio; e chiamasi la dogana di Puglia: entrata (qualora
il Re non trae più
dell’ordinario da’ soggetti) delle maggiori del Regno, e per la quale
conseguire più di un esercito venuto al nostro acquisto ha insanguinate
l’armi; e quando l’assalitore non ha potuto ottenerla, ha avuto per vittoria
impedirla, dissipando le facultà e gli armenti de’ miseri popoli.
Avevano unitamente i Baroni fatto disegno, s’eglino potevano condurre con
esso loro il Duca di Melfi, virilmente soccorrere Sanseverino;
affaticandosene fuor di misura il Principe dì Salerno, parendogli per quella
perdita, oltre l’importanza del luogo, torsi l’animo a’ sudditi di
difendersi. Ma il Duca di Melfi, intento a ricuperare Chiusano, Santo Mango,
la Candida e Castello Vetere (terre, per antiche pretendenze e nuove
promesse del Re, spettanti al contado di Avellino, posseduto dal fratello),
non si lasciò mai rimuovere dalla sua neutralità; anzi disprezzò caldissime
preghiere della moglie e di tutti gli altri Sanseverini, che si sforzavano
ultimamente rimuoverlo dall’impresa ch’egli faceva, dimostrandogli per
quella non solamente non porger loro aiuto alcuno, ma esser anche cagione di
ristringere il Conte di Consa, posseditore di alcuno di que’ luoghi, col Re:
il qual Conte, speravano fermamente che, se ciò non fusse, avesse la loro
parte a sollevare, essendo di Salerno cognato, et antico e potente signore.
Sicché i Baroni, venuto lor meno questo appoggio del Duca di Melfi, per
mezzo di diversione pensarono il loro intento condurre ad effetto,
volgendosi di sopra la dogana di Puglia: e convenuti alla Guardia Lombarda
col Prefetto uscito da Benevento, si apparecchiavano occupare i luoghi ov’è
l’usanza di riscuotere il pagamento.
Ma il disegno fu compreso da Ferdinando; onde ordinò che il suo esercito,
lasciato l’assedio, con frettolosi passi nella Puglia si trasferisse,
ponendo suo alloggiamento a Foggia: e dubitando si venisse a fatto dì arme,
tentò anch’egli congiugnere seco il Duca di Melfi, o sospicando la tregua
esser fatta da lui co’ suoi nemici per più opportunamente nuocergli, o pure
per rinforzare delle sue genti il Principe di Capova, niuno accrescimento,
dove ne va l’ultima posta, soverchio giudicando. E per indurvelo, gli fe’
dono dell’ufficio di gran siniscalco, molt’anni stato dell’avo, et allora,
per la ribellione del suo possessore, pretendendosi di essere al fisco
ricaduto. Ma il Duca chiuse l’orecchie all’unione, et il presente rifiutò;
nel primo, per l’obligo della tregua escusandosi; e nell’altro, per esser
vivo il padrone e potersi ad ubidienza ridurre. Ma questo et ogni altro
provedimento del Re per niente
fu: però che di rado accade, due eserciti perdenti stimarsi, come questi,
amendue vincitori, avendo l’uno per lo suo movimento ricuperato Sanseverino,
e l’altro la maggior parte della dogana. Conciossiaché i Baroni, sebben
potevano con la morte o con la dispersione degli animali danneggiarla, lo
schifavano per non concitarsi l’odio de’ popoli, per lo cui giovamento
predicavano di avere indosso l’armi: anzi, sopravenuto il Principe di Capova
, un’altra volta si dileguarono, ciascuno nelle sue terre ritraendosi;
avendo fatta prima una notabile scaramuccia con gli Aragonesi, nella quale
rimase prigione e ferito Agostino da Campo Fregoso, del Prefetto
condottiere; delle quali ferite poco appresso morissi.
Questo seguì nel Regno: ma in Terra di Roma, Roberto, ragunato un poderoso
campo, e se non superiore a quello del Duca, almeno pari, se gli appressò
con proponimento di venire a giornata, volendola il nimico. Ma il Duca,
benché di natura impetuoso, per la considerazione del pericolo si era
deliberato non combattere, e col trattenere quella guerra vincere; stolta
cosa giudicando con una sola giornata il regno avventurare, senza aver
vantaggio nelle forze, e ne’ premii dell’acquisto disavantaggio grandissimo.
Perché vincendo il papa, guadagnava un reame; et esso non altro che
l’assoluto onore di poco cristiana vittoria, dovendo, posto che prendesse lo
stato ecclesiastico, restituirlo, o per timor d’Iddio o per forza degli
uomini; i quali giammai avrebbono sofferto ch’egli l’avesse occupato: tanto
più, che col differire al sicuro gli parea vincere, aspettando sussidio da
Milano, e sapendo la natura del pontefice non poter lungamente la guerra
tolerare. Sicché, congiunto con gli Orsini, egli si pose sopra di un poggio,
poche miglia da Roma lontano; ove, per la fortezza del sito, non poteva
essere sforzato a combattere. Ivi all’incontro fermossi anche Roberto,
sperando con le occasioni e con l’arti trarre il nimico a far prova
dell’armi; e perciò di ogni danno i sudditi e le terre di Virginio Orsine
affliggeva: per offesa e difesa de’ quali si veniva alle fiate alle mani, ma
erano assalti ignobili e leggieri. E tuttoché il papa, della dimora
impaziente, con mille doglienze sollecitasse Roberto a diloggiare il Duca;
nondimeno egli non ardì giammai tentare i suoi ripari dall’arte e dalla
natura muniti, et ove si giva a manifesta perdita. La quale cosa per
avventura da Innocenzio, del guerreggiare inesperto, fa poi in sinistra
parte interpretata.
XXXII. Soccorso di Montorio
Trattanto il Duca di Calavria
et il Re non
cessavano, per lettere e per messaggi, di dolersi con Ludovico Sforza per
l’indugio degli aiuti lor debiti in virtù della confederazione che avevano
seco; protestandogli tutti li danni et interessi che pativano. E perché egli
si scusava, per lo pericolo del cammino non gli mandare, il Duca si proferse
a mezza strada con tutto l’esercito andargli incontro: onde che Ludovico,
senza aver più scusa di ritardarli, spinse innanzi, sotto Marsilio Torelli e
Gian Iacopo da Triulzi, mille cinquecento cavalli. La quale cosa dal Duca
intesa, quando meno da Roberto s’aspettava, levò il campo, e per sentieri
aspri e dirotti a lunghe giornate sino nel mezzo della Marca si condusse; e
con gran letizia dell’una e dell’altra parte, s’accompagnò co’ Milanesi.
Roberto, veduta del Duca la mossa, congetturò ove s’indirizzasse; e disperato
di poter dare all’unione di quelle genti impedimento, venne in sospetto che
il Duca, ritrovandosi senz’alcun ostacolo dalle parti de L’Aquila, non
tentasse quella città occupare: di maniera che, per assicurare con la
presenza sua gli Aquilani, si mosse anch’esso verso quel paese, con gran
sodisfacimento del papa e grandissimo de’ Romani, entrati in isperanza dal
terreno loro in quello del Regno doversi trasferire la somma della guerra.
Poco spazio corse tra l’arrivata di Roberto in Abruzzi e la
ritornata del Duca: il quale, o dubitando che in Campagna di Roma
condottosi, Roberto entrasse da poi nel cuore del Reame, e gisse a ritrovare
li Baroni; o pure per le cose de L’Aquila tentare; n’andò all’acquisto di
Montorio: il quale, come luogo forte, da molti nobili aquilani, parenti del
Conte di Montorio, sin dal principio della guerra era stato guardato, e
riputavasi allora per la qualità del sito e per la vicinanza de L’Aquila
destro a disturbare la maggior parte di quella provincia.
È alla costa di monte situato: dalla parte di basso verso il piano, vien
guardato dal fiume Umano, che il borgo quasi gli batte; dalla parte soprana,
l’asprezza del terreno e la rocca il rendeva sicuro. Il fiume Umano
scaturisce da montagna alla terra di Montorio assai vicina: sicché dinanzi a
lui egli è povero di onde e leggermente si può varcare; ma il suo letto è
tanto tortuoso e di sassi sì pieno, che aggiuntoci l’impedimento dell’acqua,
a cavalli e fanti ‘ordinati si rende spiacevole a passare. Era presso
Montorio un luoghetto, con una torre da difendersi. Questo, prima che la
terra, assali il Duca; e vintolo, fortificollo, passatovi con tutto
l’esercito ad alloggiare: di dove non meno con le persuasioni che con le
forze tentava d’indurre que’ di Montorio a rendersi. Il che temendosi che
ciascun di potesse avvenire, gli Aquilani strinsero Roberto a soccorrerlo:
il quale, o volonteroso di combattere o per animar solamente gli assediati a
tenersi, si fe’ innanzi, e non più che due miglia lungi dal Duca accampossi.
Non parve al Duca di Calavria,
avendo il nimico sì presso, pensar più ad espugnare Montorio; acciocché i
suoi soldati, occupati nell’assalto o nel sacco della terra disordinati, di
predatori non diventassero preda al nimico. Volle più tosto, trovandosi da
mille cavalli di vantaggio, tentar la battaglia. Né da Roberto fu ella
fuggita; sì per non insospettir più il papa de’ suoi progressi, come che non
teneva conto del numero maggiore della cavalleria nimica; essendo di fanti
uguale, et in paese montuoso ritrovandosi, non solamente inetto a maneggiar
cavalli, ma ripieno di luoghi stretti e precipizii, et ove poca banda di
gente a qualunque numeroso esercito avrebbe potuto vietare il passo.
XXXIII. Discorso sopra l’ordinanza antica e moderna
Ma non fia inutile a’ presenti et a’ futuri, gli ordini e disordini di questa
giornata, et altre di quell’età, dimostrare alla distesa. Gli eserciti che
nel tempo di che io scrivo nelle guerre comparivano, formavansi di fanti e
di cavalli; mai fanti, detti allora provisionali, a petto a’ cavalli et
all’uso moderno, in assai picciolo numero si adoperavano: il qual disordine
non procedeva, se con sana mente sia riguardato, dall’inganno dei capitani,
come si ha alcun autore imaginato, ma dal difetto delle armi con che i fanti
offendevano. Però che, da’ nostrali non anco la picca conosciuta né
l’archibugio, né le fanterie con ordini densi combattendo, non potevano
gl’incontri degli uomini d’arme sostenere; i quali stretti e bene armati,
non prima le urtavano, che venivano aperte e sbaragliate. Sicché coloro, cui
conveniva guerreggiare, ammaestrati dall’esperienza, ottima insegnatrice
delle azioni militari, si guardavano a commetter la loro salute in gente et
ordini sì fragili.
Di qui, e non altronde, veniva negli uomini d’arme la riputazione; poiché non
da disordine o debolezza, ma da virtù maggiore e numero bisognava che
fossero sopraffatti. E tuttoché negli eserciti vi mescolassero fanti, il
facevano per contraporgli a quelli de’ nimici, e per scolte, guardie degli
alloggiamenti, per poter conquistare le terre, e conquistate custodire.
Nelle quali difese et offese, le rotelle, targhe, ronche e partigiane, che
allora erano in uso, giovavano pur alquanto: ma ne’ luoghi aperti, incontro
a’ cavalli, ove, senza fosso o muro o torre, le braccia, l’armi e gli ordini
non ti difendono, giammai vincevano la prova; ma ora che la picca e
l’archibugio, se pur non uccide il cavallo, lo rispigne e isbigottisce, così
non avviene. Oltraché que’ fanti, quando si appressavano per far giornata,
non in antiguardia, battaglia e retroguardia dividevansi, ma in molte
particelle; le quali, corrispondendo la verità al nome, appellavano schiere.
Erano quelle nelle fronti larghe, ne’ fianchi strette, e senza spalle;
sicché, abbattute le prime file, con lieve fatica le rimanenti si rompevano.
La gente d’arme, quantunque fusse molto meglio armata per portar lancia,
stocco e mazza di ferro, tuttavia pativa anche ella de’ difetti: perché,
come nelle fanterie l’eccesso era nella leggerezza delle armi, così nella
cavalleria la soverchia gravezza peccava; e pareva che l’una per troppa
cautela, e l’altra per poca non potessino far profitto. Conciossiaché le
loro armature sconciamente grosse e sode, i cavalli bardati, coperti di cuoi
doppii e cotti, appena la facevano abile a maneggiare: anzi i soldati, per
potere lo smisurato peso sostenere, procacciavansi cavalli alti e
corpulenti, e susseguentemente grevi e neghittosi, inetti a tolerare lunghe
fatiche, et alle penurie degli eserciti malagevoli a nudrire; erano
finalmente tali, che nel menar le mani ogni sdrucciolo, ogni fuscello di
paglia ch’a lor piedi si avvolgeva, poteva il cavallo o il cavalcatore
rendere inutile o impedire. Di qui nasceva che le guerre grosse e corte si
facevano: non erano prima a vista de’ nimici, che si azzuffavano: non si
campeggiava terra di verno; anzi i popoli a’ possessori delle campagne si
facevano incentro; e con impunità le porte aprivano. Sì mal condizionati
uomini d’arme distinguevansi in isquadre, i cui capi non capitani, come
oggidì (questa sol era dignità del generale), ma contestabili si chiamavano;
e comprendeva ciascuna di esse cento cavalli, quaranta balestrieri e venti
lance: però che un uomo d’arme menava seco cinque cavalli da guerra; un per
sé, due per li balestrieri, e gli altri per riserbo, se morti o feriti
fussero quei che cavalcavano. I balestrieri, per non aver a combattere il
nimico d’appresso, armavano più alla leggiera; ma per ornamento d’armi, per
bontà di cavalli, e per virtù di animo, in poco dagli uomini d’arme erano
differenti. E veramente i moderni soldati, benché nella qualità delle armi e
nella militar disciplina in molte cose vanno innanzi a quelli antichi,
nell’ornato del corpo di lunga sono loro inferiori. Perciocché i pennacchi,
i drappi, l’argento e l’oro, di che quei si guernivano, gli rendevano
splendidi fra di essi, et a’ nimici tremendi.
XXXIV. Parlamento di Roberto Sanseverino e del Duca di Calavria
a’ soldati
Adunque con sì fatte genti, ordini et armi, i due eserciti pieni di speranza
alla battaglia s’appresentarono. Alle schiere, dall’un de’ lati, Roberto e
due suoi figliuoli, Prospero e Fabrizio Colonnesi, furono soprastanti; le
contrarie guidavano il Duca, il Conte di Pitigliano e Virginio Orsino,
Giovan Francesco Sanseverino, Marsilio Torello, Gian Iacopo Triulzi: uomini
tutti allora pregiati in fatti d’armi, e capitani assai chiari e famosi; gli
animi de’ quali non che pregni di emulazione di gloria, ma per contrarii
umori delle fazioni, e vecchie e nuove ingiurie, erano intra di loro più che
fussin mai inacerbiti. Sicché, avendo temenza che agli lor odii non
corrispondesse l’ardore de’ soldati, con varie arti e persuasioni contra il
nimico l’accendevano. Roberto agli occhi de’ suoi rappresentava la timidità
degli avversari fuggitisi poco innanzi vituperosamente dal suo cospetto, e
da essi su per le colline assediati; et ora non venire alle mani con
isperanza di vincere, ma per far prova se que’ pochi de’ Milanesi, col
numero, anche l’animo avessero loro aggiunte: ma che entrassero nella
battaglia sicuri; ché non più briga, ma preda maggiore coloro aver lor
arrecato. Essere a lui paruto suo dovere, prima si dipartisse da questo
mondo, menare li suoi soldati, che l’avevano di tanta riputazione
arricchito, in lato che col mezzo della virtù loro si potessino dalla
povertà trarre, et il rimanente de’ loro giorni in pace e fuor delle
belliche fatiche godersi: la qual cosa, la Dio mercè, gli era venuta falla;
però che quel dì metteva ne’ cuori e nelle loro mani il potere un regno
conquistare, copioso di tutte le cose desiderabili all’uomo, et il cui
possessore, non che altro, all’Italia dava legge. Essi non dovere sperare,
lasciatasi uscire dalle mani la presente occasione, che gliene potesse mai
più la simigliante porgere, essendo col piè sulla fossa; né volendo, col
tentare spesso la fortuna, far vergognoso il fine di quella vita il cui
principio e mezzo aveva cotanto onorato.
Il Duca non con altre persuasioni il suo esercito infiammava, che facendolo
capace di quanto fusse a’ nimici superiore, e come in lato veruno non aveva
altr’armi né altri capitani. Quivi le sue forze e de’ confederati aver
ragunate, per un tratto l’Italia liberare, tanti anni vessata da’ ladroni di
Roberto da Sanseverino: a’ quali si disponessino avere a servire, e far loro
preda le sostanze, le mogli e i figliuoli, posto che della loro virtù si
dimenticassino. La quale poco era che con seco per mezzo i corpi di quelli
stessi si era fatta la strada, lor mal grado passando per tutto il dominio
ecclesiastico: né gli poter nell’animo capire, essi voler più tosto, usando
viltà, sottoporsi all’imperio di Roberto, capitan di ventura, che,
adoperando valore, quel di un figliuolo di un Re conservare,
allevato e vivuto sempre ne’ campi e fra di loro, e che per lunga sperienza
avevano veduto essere il primo ad entrar nelle fatiche e l’ultimo ad uscire;
come quel di più che mai, o seguito o abandonato, era per dimostrare.
XXXV. Giornata tra il Duca di Calavria
e Roberto Sanseverino
In cotal guisa da l’una e l’altra parte gli animi de’ soldati irritati,
diedero nelle trombe e ne’ tamburi, e da più lati l’assalto principiarono.
Gli uomini d’arme, rotte con gran fracasso le lance, et urtatisi, quei che
fuor delle selle non uscirono, posto mano agli stocchi et alle mazze, e con
grandissimo strepito rivolte le teste de’ cavalli, si ritornarono a ferire.
I fanti, dall’altra parte, con alte grida e percosse si mescolarono: i
balestrieri, or contra sé medesimi scaricavano le balestre; altra volta li
fanti e gli uomini d’arme saettavano. Viddensi molte fiate in piega i
Papali, e molte gli Aragonesi si ritirarono: i capitani, con voci e con
mani, non men l’ufficio loro che di buoni soldati adempievano. Ma quando le
schiere de’ Colonnesi e degli Orsini per avventura s’incontravano, si
raddoppiavano allora i colpi; cessavano le voci, ma le braccia sopra l’usato
si adoperavano. Sovvenivano a’ Colonnesi le vecchie ingiurie, le fresche
agli Orsini. L’uno il desiderio di difendere la patria inanimava, l’altro la
speranza di conquistarla: amendue rendea feroci il combattere nel cospetto
di tutta l’Italia, et il volere si chiarisse quale delle due fazioni nella
guerra prevalesse. I soldati di Montorio, armati, corsi alle mura, talora
mesti e taciti, talor lieti e gridanti, da lungi la pugna riguardavano. Il
volgo inerme e le donne, fattesi alle finestre e su pe’ tetti, co’ pallidi
volti attendevano il fine della giornata; anzi in qua et in là, secondo i
varii movimenti de’ guerrieri, col corpo torcevansi. Ma Roberto nell’estrema
parte del giorno, o dubitando della perdita, o della vittoria diffidando,
mentre che gli animi de’ combattitori più che mai erano accesi e intenti
alla contesa, si cominciò a ritrarre dalla pugna; e con tanto disordine, che
aggiunse animo a’ nimici, e sin dentro li suoi steccati lo rincalzarono: i
quali anche combattuti avrebbe il Duca e forse vinti, se l’oscurità della
notte non gli avesse guardati. Né si creda alcuno, li fatti d’arme di que’
tempi per ostinazione o gagliardia de’ soldati i giorni interi essere
durali, ma sì bene perché le schiere non insiememente prendevano battaglia,
ma l’una dopo l’altra successivamente; sicché alle fiate, molte di loro, per
mancamento della luce, stavano nelle giornate spettatrici in vece di
combattitrici: le quali battaglie, tra per questo, e le poche ferite e morti
che in esse avvenivano, a giostre e torneamenti più che a nimichevoli zuffe
rendevano simiglianza.