Commento di Enea Silvio Piccolomini agli Alfonsi regis dicta aut facta memoratu digna di Antonio Panormita

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1456-04-22

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Enea Silvio vescovo di Siena - Traduzione del Commentario - Libro IV

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Sul proemio

[1] La Spagna, che è da comparare alle terre migliori, non fu solita dare a Roma e all’Italia solo imperatori e re, ma anche cardinali e papi dalla vita purissima e dalla dottrina ammirevole. Infatti, la Spagna ci ha dato papa Damaso, di eccelsa virtù e famosissimo per lo studio di tutte le arti. [2] Ora dalla stessa provincia abbiamo avuto in sorte Callisto III, che riteniamo ottimo in virtù del nome. È risaputo che nel sacro collegio dei cardinali molti sono gli Spagnoli degni di lode: vediamo nel collegio i cardinali Alfonso di Sant’Eustachio e Giovanni di San Pietro in vincoli, la cui morigeratezza dei costumi e l’accortezza nel comportamento è stata tale che hanno portato dalla loro parte tutto il sinodo. Noi stessi abbiamo servito nella segreteria di Giovanni. [3] Oggi la Spagna annovera tra i cardinali anche Giovanni di San Sisto, Antonio di Lleida e un altro Giovanni, di Sant’Angelo, che or ora è andato come legato in Ungheria, per raccogliere truppe contro il Turco. Il mondo romano è illuminato da quelle due stelle di sapienza teologica; e il terzo non è inferiore a nessuno nella scienza del diritto. [4] In verità Alfonso, come dici, non trae lode dalla Spagna ma egli stesso rende lustro alla Spagna. Sebbene sia tanto religioso e osservatore del culto divino, come scrivi, non è immemore della dottrina evangelica e dopo i digiuni, le preghiere e le altre opere di pietà, cui si dedica costantemente, si dichiara servo inutile. E, infatti, in questi giorni, essendo venuto da lui il messo apostolico per trattare della pace della Toscana, tra le varie altre cose sapienti ha detto: «So che, dopo aver iniziato a regnare, ho elevato molti uomini da umile condizione a grandi ricchezza e potenza, che poi si sono dimostrati immemori del bene ricevuto. La cosa non mi meraviglia, dal momento che io stesso sono tormentato dal vizio dell’ingratitudine. Infatti, chi ha ricevuto da Dio più benefici di me, che, nato da re, ho ottenuto per diritto ereditario grandissimi regni e ne ho conquistati altri non minori con le armi? Pochi re mi precedono tra quelli cristiani. [6] La natura mi ha concesso un ingegno non ottuso, una memoria non debole, un corpo sano, una vita piuttosto lunga e non guastata dalle malattie, godo di abbondanti ricchezze, lussi, piaceri; ho avuto anche una certa formazione letteraria. Ma dov’è la mia gratitudine? Cosa faccio o ho fatto per aver ottenuto tanti e tanto grandi doni dalla divina clemenza? Sono certamente consapevole di essere ingrato e perciò di essere degno della stessa accusa e pena di cui penso che siano degni gli altri che sono stati ingrati nei miei confronti, tanto più che è più grave ingannare Dio che gli uomini. [7] Tuttavia, se mi sarà concesso di vivere, ho in animo di rimediare a ciò che finora ho trascurato in abbondanza. Infatti, ho deciso di vendicare gli oltraggi che la crudelissima nazione dei Turchi infligge quotidianamente a Gesù Cristo, il nostro vero e grande Dio, sia in Grecia, sia in Asia, e ho già preparato navi, uomini e armi a questo scopo. Quindi, non c’è motivo per cui si possa pensare che voglia turbare in alcun modo la pace della Toscana che ora si sta negoziando». [8] Queste cose ha detto il re, che, se manterrà la sua promessa, sarà riconosciuto da tutta Europa come il salvatore della religione cristiana inviato dalla Spagna.

Sul cap. 1

[1] Ci trovavamo presenti quest’anno mentre accadevano questi fatti. A capotavola sedeva un vecchio cieco, che diceva di aver perso la vista sedici anni prima. Il re lo serviva. In nostra presenza, gli chiese se soffrisse molto per la cecità. [2] Il cieco, ignaro che fosse il re a parlargli, rispose: «Senza l’aiuto della grazia divina, nessuno desidererebbe continuare a vivere da cieco, tanto è miserabile questa condizione, specialmente per chi un tempo vedeva la luce». Allora il re disse: «Vorresti lasciare questa vita?». «No, affatto», rispose lui. E il re: «Se sei infelice, perché non vuoi liberarti dall’infelicità?». «Non so – rispose il cieco – se morendo passerei a un’infelicità ancora maggiore, né mi è chiaro dove andrei a finire». [3] A quel punto uno dei cortigiani disse: «Non sai forse – gli chiese – che se vivi in modo retto, si apriranno per te i luoghi destinati ai giusti?». «Io so – rispose il cieco – che esistono tre luoghi a cui, dopo aver abbandonato il corpo, sono condotte le anime degli uomini: il cielo accoglie le anime dei giusti; gli inferi quelle dei malvagi; e quelli che furono malvagi ma, prima di morire, si pentirono del male compiuto, devono recarsi in purgatorio». [4] Il cortigiano riprese: «Se credi in queste cose e ti astieni dal peccato, perché non vuoi morire?». «Credo – rispose il cieco – che a chi muore bene possa toccare una buona sorte. Ma chi può essere sicuro di morire bene?». Allora il re disse: «Il cieco ragiona saggiamente: la sua riflessione attinge alla teologia più alta». [5] A quelle parole, il cieco udì che lo avevano chiamato “re” e chiese chi fosse. Il re rispose: «Sono io, colui che sta parlando con te».

Sul cap. 2

[1] Dall’Ungheria giunsero all’imperatore Sigismondo quarantamila monete d’oro. Si stava facendo sera, e furono riposte nella camera reale quando egli si coricò. L’imperatore, mentre rifletteva su come impiegare quel denaro, non riusciva a prendere sonno. Allora svegliò i suoi camerieri e disse loro: «Andate subito, convocate i consiglieri e i comandanti militari». [2] Chiamati nel cuore della notte, i nobili arrivarono preoccupati e, temendo che fosse accaduto qualcosa di grave, chiesero quale fosse il motivo di una convocazione così improvvisa. L’imperatore, aperto lo scrigno, distribuì il denaro tra i presenti: «Andate – disse – ora possiamo finalmente dormire tranquilli. Ciò che mi toglieva il sonno, ora se ne va con voi».

Sul cap. 3

[1] In mia presenza, alcuni si chiedevano perché Alfonso, che si mostrava liberale e munifico verso ogni genere di persona, trascurasse soltanto gli astronomi. Infatti, a differenza di altre discipline, non si vedono a corte maestri di quest’arte onorati come gli altri. [2] Allora uno che sembrava sapere di più disse: «Le stelle – disse – governano e spingono gli stolti, ma i sapienti dominano gli astri. Perciò è coerente che i principi stolti onorino gli astrologi, non quelli sapienti; e Alfonso, fra i sovrani, detiene fama di sapienza». [3] Intervenne allora un altro: «Pietro da Montalcino, astronomo di non scarsa fama, durante il Concilio di Costanza, fece una previsione sugli eventi futuri, sostenendo che Sigismondo sarebbe stato coronato a Roma con grandi onori e che papa Giovanni XXIII, che aveva convocato il concilio, ne avrebbe ottenuto gloria. [4] Avendo, però, il grande sinodo deposto Giovanni dal sommo pontificato, e non essendo ancora sceso in Italia Sigismondo pur essendo trascorsi molti anni, da più parti si levarono ad accusare Pietro di aver detto una cosa palesemente falsa. Ed egli rispose: “Io dovevo pronunciarmi su due stolti: Tolomeo stesso non avrebbe potuto predire correttamente la verità su di loro”».

Sul cap. 4

[1] Fu un motivo non trascurabile di prestigio per Alfonso che Federico III, dopo esser stato incoronato imperatore a Roma, si recasse a fargli visita. [2] Rientrato in Germania, interrogato dagli amici in Italia su ciò che avesse visto di memorabile, Federico rispose: «Alfonso è il più saggio e magnifico tra tutti i re viventi». [3] Poiché, però, alcuni non approvavano che una dignità maggiore si recasse da una minore, Federico disse: «Anzi, io sono andato da un superiore. Benché l’autorità di un re sia inferiore a quella di un imperatore, Alfonso in sé è più grande di Federico».

Sul cap. 5

[1] Sarebbe un risultato di poco conto aver dato la pace all’Italia, se poi non la si mantenesse.

Sul cap. 6

[1] La citta di Vienna ha un borgo con una rocca fortificata, attraverso il quale si passa dall’Austria alla Stiria. Fu affidato a un vecchio amico di Ernesto I, padre dell’imperatore Federico III. Alcuni giovani si presentarono più volte a Federico, chiedendo per sé il comando del luogo, sostenendo che colui che lo governava fosse fiaccato dagli anni e dalle forze. Federico rispose loro: «Io ho affidato un amico di mio padre alla fortezza, non la fortezza a un amico».

[2] Quando un duca di Slesia fece testamento, dispose che fosse costruito un grande edificio, nel quale fossero nutriti fino alla morte, grazie alle rendite di alcuni terreni destinati a tale scopo, tutti quei cani usati per la caccia, che, divenuti vecchi o deboli, fossero stati abbandonati dai loro padroni. E il suo volere fu rispettato.

Sul cap. 7

[1] Giacomo, margravio di Baden, quando apprese di un furto commesso nei suoi dominî, convocò coloro che avevano subito il danno e ordinò che ricevessero direttamente dalle sue casse un risarcimento pari al valore, dichiarato con giuramento, di ciò che avevano perduto. In seguito, ricercò coloro che avevano commesso il furto e, dopo averli catturati, li fece morire sulla ruota, che è una forma terribile di supplizio usata in Germania. [2] Così, in breve tempo, rese la sua provincia oltremodo pacifica. Suo figlio Carlo, giovane di nobile stirpe, sposato con Anna, sorella dell’imperatore Federico, segue le orme paterne.

Sul cap. 8

[1] Un duca di Opava andò incontro alla moglie, che proveniva dalla Lituania, e vide al suo seguito un giovane di straordinaria bellezza e possente corporatura, trasportato su un carro sospeso, adagiato su cuscini. Pensando che fosse il fratello o un parente della sposa, chiese chi fosse. [2] Gli risposero che, presso i Lituani, secondo la loro tradizione, le donne nobili avevano l’abitudine di tenere in casa uno o più concubini, a seconda delle possibilità del marito, che assolvessero ai doveri coniugali, qualora quest’ultimo li trascurasse. Proprio per tale motivo quello era stato condotto, per adempiere a tali incombenze nel caso in cui il duca, malato o impedito, non potesse soddisfare la moglie. [3] Il duca avrebbe voluto dare quell’uomo in pasto ai cani, ma, fermato dagli amici, lo mandò via al più presto in Lituania, provincia nella quale, a quanto si dice, pochissime mogli si separano dai loro mariti.

Sul cap. 9

[1] «Ha già vinto a sufficienza – diceva l’imperatore Sigismondo – chi ha messo il nemico in fuga».

Sul cap. 10

[1] Quando chiesero all’imperatore Sigismondo quale uomo giudicasse degno e adatto a regnare, egli rispose: «Colui che le circostanze favorevoli non esaltano e quelle avverse non abbattono».

Sul cap. 11

[1] A un borioso cavaliere, che davanti a Sigismondo disprezzava i magistrati civili e portava in cielo i comandanti militari, quello replicò: «Taci, Trasone: non avremmo bisogno di eserciti se ogni comunità fosse governata con moderazione e giustizia dai propri pretori e dagli altri magistrati».

Sul cap. 12

[1] Forse i Senesi, inconsapevoli, hanno fatto finire un piccolo ramoscello in un occhio del re. Voglia il cielo che il re non si dolga di altro se non del dolore e del timore del popolo senese! Invece Joan de Hijar, che ogni giorno arreca nuovi oltraggi alla nostra città, continua ad accusarla presso il re. [2] È vero ciò che dice il poeta satirico:

[…] Questa è la libertà del povero: pur preso a pugni, supplica e scongiura di poter tornare indietro con pochi denti ancora in bocca.

Sul cap. 13

[1] Una lettera di Kaspar Schlick, inviata da Norimberga e indirizzata ad alcuni Ungheresi, cadde nelle mani dell’imperatore Federico. Alcuni suggerivano di aprirla, sospettando che si potessero scoprire tracce di un tradimento. Ma Federico disse loro: «Io considero Kaspar un uomo onesto e fedele. Se mi sbaglio, preferisco che l’errore si riveli da sé, piuttosto che venga scoperto dalla mia solerzia».

Sul cap. 14

[1] Non stupisce che Alfonso non creda di poter trovare sette saggi nel suo regno e nel suo tempo, dal momento che in tutta la Grecia e in Asia, anzi in tutto il mondo e in ogni epoca, se ne sono a stento contati altrettanti.

Sul cap. 15

[1] Una volta, l’imperatore Carlo IV entrò nella scuola di Praga e ascoltò, per quattro ore, le dispute dei professori di arti liberali. Ai cortigiani, che ne erano infastiditi e gli ricordavano che si stava facendo ora di cena, rispose: «L’ora si è già fatta per me, non per voi. È questa la mia cena».

Sul cap. 16

[1] Una volta, davanti a Sigismondo, qualcuno definì beati gli usurai, che guadagnavano mentre dormivano. Sigismondo gli rispose: «E tu allora sei uno sventurato, che consumi i tuoi beni restando sveglio».

Sul cap. 17

[1] Se mancano i Trasoni fanfaroni, invano si lamentano i ruffiani Gnatoni.

Sul cap. 18

[1] Alfonso, a mio avviso, aveva letto quello che un non oscuro poeta scrisse:

O dèi, alle ombre degli antenati, che vollero che il maestro fosse sacro come un padre, concedete terra soffice e senza peso e profumata di croco e un’eterna primavera.

[2] Per questo ha offerto con la sua stessa mano al maestro frutti e dolci di zucchero.

Sul cap. 19

[1] Giorgio Fistello, sebbene dottore, ricevette dall’imperatore Sigismondo l’investitura a cavaliere. In seguito si recò al concilio di Basilea e Sigismondo, trattando di questioni ardue, ordinò che i dottori andassero da una parte e i cavalieri dall’altra. Poiché Giorgio esitava nella scelta del gruppo al quale unirsi e, propendeva per i cavalieri, [2] Sigismondo gli disse: «Agisci da stolto, anteponendo la milizia alle lettere. Io, in un solo giorno, posso fare mille cavalieri, ma in mille anni non potrei fare un solo dottore».

Sul cap. 20

[1] Vitoldo, duca di Lituania, affermava che la plebe dovesse essere sottomessa alla legge e la legge al principe. Tanto si mostrò differente nei costumi e nell’aspetto dai suoi compatrioti, che con un editto ordinò loro di tagliarsi la barba, conservandola per sé solo, in segno di sovranità. [2] Ma non ebbe successo, perché i Lituani erano pronti a perdere la vita piuttosto che la barba. Allora egli stesso si rase il capo e le guance, minacciando la pena capitale a chiunque, imitando il suo esempio, si fosse rasato barba o capelli.

Sul cap. 21

[1] «Se fossero scelti con l’elezione e non con la successione – come dice Isocrate – i principi sarebbero spesso migliori dei privati cittadini».

Sul cap. 22

[1] Un tale chiese a Tommaso da Sarzana, che in seguito sarebbe diventato pontefice col nome di Niccolò V, come fosse papa Eugenio IV. «È facile da capire – rispose. Quale è la sua famiglia, tale è anche il principe».

Sul cap. 23

[1] Gli Austriaci, che con l’aiuto dei Boemi assediarono a Neustadt l’imperatore Federico III che tornava dall’Italia, si ritrovarono infine nella condizione di chiedere pace al vinto, e di versargli ogni anno seimila pezzi d’oro.

Sul cap. 24

[1] Quando l’Austria fu governata da una donna – poiché la discendenza maschile si era estinta – gli Ungheresi e i Bavaresi cominciarono a depredare la provincia. Gli amici le consigliavano di sposare uno dei due nemici, perché la difendesse dalle offese dell’altro. [2] Lei rispose: «Non mi sposerò con un nemico. Piuttosto, chiamerò in mio aiuto Ottocaro di Boemia: arricchito dal mio matrimonio, darà sia ai Bavaresi che agli Ungheresi ciò che meritano. Non è nella natura delle cose che facciamo del bene a chi ci fa del male».

Sui capp. 25-26

[1] Mentre l’imperatore Sigismondo si trovava in Italia, venne a sapere che i padri riuniti a Basilea stavano per deporre papa Eugenio dal sommo pontificato. Pur soffrendo di gotta, si mise in viaggio e giunse con tale rapidità che lo si vide nel concilio prima ancora che si sapesse del suo arrivo. [2] Non gli sembrava tollerabile, infatti, che la Chiesa, tornata grazie a lui all’unità e alla concordia nel concilio di Costanza, fosse di nuovo frantumata in quello di Basilea.

Sul cap. 27

[1] Le lettere di condoglianza che hai ricevuto per la morte di tuo fratello testimoniano il grande affetto che il re nutre per te. Ma chi può amare il re, se non te, che gli procuri fama anche per le imprese da lui compiute?

Sul cap. 28

[1] Una volta fu chiesto all’imperatore Federico quale fosse il bene più grande che potesse capitare a un uomo. Rispose: «Una buona fine di questa vita».

Sul cap. 29

[1] L’imperatore Sigismondo era solito considerare saggi coloro che sanno accettare con moderazione gli scherzi, e dotati di ingegno coloro che sanno farli con prontezza.

Sul cap. 30

[1] L’anno scorso giunse dal duca Alberto d’Austria un greco che affermava di essere fratello dell’imperatore Costantino, ucciso dai Turchi. Quando Alberto scoprì che era una spia, intento a riferire ai Turchi i preparativi in Germania, ordinò che fosse ucciso con la spada.

Sul cap. 31

[1] L’imperatore Carlo IV convocò l’uomo che aveva complottato per assassinarlo e gli donò mille monete d’oro, affinché potesse dare in sposa la figlia, già in età da marito, dicendo di provare compassione per lei, costretta a restare in casa già adulta. [2] L’uomo ringraziò il re e, andando dai cospiratori, disse loro: «Non sapevo che Carlo fosse così: adesso che so che è un principe generoso e misericordioso, non potrei in alcun modo fargli del male».

Sul cap. 32

[1] Alberto imperatore, padre di Ladislao, diceva che la caccia è un esercizio virile mentre la danza è appropriata alle donne; e che poteva fare a meno di qualsiasi piacere, ma non della caccia.

Sul cap. 33

[1] Se si deve essere contenti della propria sorte, Alfonso non può lamentarsi della sua, giacché possiede i regni di tre divinità: quelli di Plutone in Spagna, di Nettuno in Sicilia e in altre isole, e di Giove in Italia, benché la sua virtù meriterebbe il dominio su tutto il mondo.

Sul cap. 34

[1] Nessuno che conosca Alfonso dubita che egli sia amante degli studi e dei libri, poiché ogni suo discorso rivela dottrina. Di recente lo abbiamo pregato di non lasciare che la Toscana fosse rovinata dalla guerra, egli che si definisce re di pace. [2] E ha risposto: «Apollo diede a Cassandra il dono della profezia e della conoscenza del futuro. Ma, riuniti in consiglio, gli dèi lo giudicarono inopportuno, perché non è consentito ai mortali conoscere il futuro. Tuttavia, ritenendo nefando revocare un dono divino, stabilirono che nessuno avrebbe creduto alle profezie di Cassandra. Allo stesso modo, sebbene mi definisca re di pace, nessuno mi crede».

Sul cap. 35

[1] Tra coloro che mentono più di tutti, aggiungi pure, se vuoi, chi molto ha combattuto. [2] Giovanni di Amburgo, medico non sconosciuto, un giorno, quando l’imperatore Sigismondo ordinò che si allontanassero tutti quelli che non conoscevano la lingua cumana (poiché aveva da trattare con i Cumani, popolo dell’Ungheria), non obbedì all’ordine. [3] L’imperatore gli chiese perché non fosse andato via: «Perché – rispose – hai dato l’ordine di andar via soltanto a chi non conosce il Cumano, e quell’ordine non mi riguarda. Nessuno è capace quanto me di mentire e rubare, che è cosa propria dei Cumani».

Sul cap. 36

[1] Anche i dieci comandamenti della legge divina ci sono affidati e prevedono grande impegno da parte nostra: quando se ne infrange uno, si infrangono tutti.

Sul cap. 37

[1] Svatopluk, ultimo re dei Moravi, quando seppe che, in sua assenza, il palazzo reale era bruciato, chiese al messaggero se la cantina fosse salva. Avuta risposta che tutto era andato distrutto, ma che quella era rimasta intatta, esclamò: «Allora anche noi siamo salvi e felici!».

Sul cap. 38

[1] «Come gli dèi vogliono essere amati e temuti, così anche i re – dice Sigismondo –; infatti, non si può amare veramente se non si teme».

Sul cap. 39

[1] Vorrei che, con l’abilità e l’impegno di Alfonso, non solo i cittadini, ma anche i soldati corrotti e malvagi divenissero buoni e corretti. Ma la vita militare, a mio avviso, è un ricettacolo di vizi e non riceve alcun rimedio dalla virtù.

Sul cap. 40

[1] Direi, in verità, che Alfonso abbia gareggiato e persino superato tutti in ingegno, dottrina, virtù, abilità e saggezza; sembra nato per riuscire in qualunque impresa decida di affrontare.

Sul cap. 41

[1] In Austria morì un nobile all’età di novantatré anni, che aveva condotto la vita tra i piaceri e le lusinghe senza mai una malattia, né un’ombra di sventura o mestizia. Quando lo riferirono all’imperatore Federico, egli disse: «Anche da ciò si può ricavare che le anime sono immortali. Infatti, se Dio governa questo mondo, come insegnano filosofi e teologi, e nessuno nega che sia giusto, allora esistono altri luoghi in cui le anime migrano dopo la morte, e lì ciascuno riceve premi o castighi in base a ciò che hanno fatto. Qui, infatti, né ai buoni vengono date le giuste ricompense, né ai malvagi vengono inflitte le dovute punizioni».

Sul cap. 42

[1] Se il medico francese rende iniqua la causa cui presta patrocinio, lo stesso fa il Piccinino, che agisce in maniera ingiusta e scellerata.

Sul cap. 43

[1] Lo svevo Johann von Rechberg disse: «Se mi fosse data la scelta di un’occupazione in cui passare la vita, mi piacerebbe inseguire qualche ricco mercante, come si dice ne esistano a Firenze, puntandogli la lancia alla schiena, come se lo dovessi catturare». [2] Così, infatti, ciascuno è tratto dal proprio desiderio, come dice il più grande dei poeti latini. Ma il dolce ozio e la quiete della vita privata sono preclusi ai principi, e nemmeno Diocleziano, che si ritirò a coltivare i suoi orti, trovò il favore della fortuna.

Sul cap. 44

[1] Quando chiesero all’imperatore Federico III chi fossero per lui i più cari, rispose: «Coloro che mi temono non meno di quanto temono Dio».

Sul cap. 45

[1] Non mi risulta che Federico III abbia mai giurato, se non nella città di Aquisgrana, nel territorio dei Belgi, e quando fu incoronato a Roma; e mantenne costantemente il giuramento. Avendo promesso solennemente di non alienare in alcun modo i beni dell’impero, e ora l’uno, ora l’altro glieli chiedeva, preferì negare apparendo avaro, piuttosto che concedere e risultare spergiuro. [2] Per questo motivo si oppose a lungo alla richiesta del marchese Borso d’Este di ottenere il ducato di Modena, finché non gli si dimostrò che la concessione di quel ducato, con un tributo annuale, sarebbe risultata più un guadagno che un’alienazione, soprattutto considerando che Modena e Reggio non erano in suo potere. A convincerlo, in particolare, fummo proprio noi.

Sul cap. 46

[1] Un cittadino di Praga prestò all’imperatore Carlo IV centomila pezzi d’oro, ricevendone in cambio una ricevuta, e il giorno dopo lo invitò a pranzo. Estese l’invito anche ad alcuni principi e preparò un banchetto sontuoso alla maniera boema. [2] Giunti al momento della frutta e del formaggio (poiché non sono abituati ai dolci di zucchero), fece portare la ricevuta su un piatto d’oro, destando stupore tra i commensali, che si chiedevano cosa volesse significare. [3] E disse: «Cesare, gli altri piatti sono stati gli stessi per te e gli altri nobili, ma questo è solo per te. Ti dono tutto l’oro che ti ho prestato ieri e ti libero dal debito».

Sul cap. 47

[1] L’erisipela, il fuoco “sacro”, stava consumando un dito del piede dell’imperatore Sigismondo, e si temeva che potesse propagarsi. [2] I medici consigliarono di amputare il dito: l’imperatore acconsentì e rimase immobile e imperturbabile a guardare il bisturi del chirurgo, come se stessero operando un altro.

Sul cap. 48

[1] In Boemia, dove ci sono molte pianure e pochi avvallamenti, la fanteria e la cavalleria vengono protette in cerchio da carri. Dentro questi carri, come se stessero dietro le mura, si dispongono soldati pronti a colpire il nemico con armi da getto. [2] Quando la battaglia ha inizio, i carri si dispongono come due ali, che si allungano a seconda del numero dei soldati e delle necessità del luogo; sul retro e sui fianchi rimangono coperti, e si combatte sul fronte, mentre i conducenti avanzano con prudenza, cercando di circondare e chiudere le fila nemiche. Così facendo, la vittoria è quasi certa, poiché il nemico è colpito da ogni lato. [3] La schiera dei carri è tale da potersi aprire, su ordine del comandante, quando e dove voglia: sia per la fuga sia per l’inseguimento dei nemici, se la situazione lo richiede.

Sul cap. 49

[1] Sebbene Alfonso potesse affermare di essere sciolto dal patto, per colpa di chi lo aveva violato, tuttavia, memore della propria costanza e dei benefici ricevuti, volle mantenere fede agli accordi stipulati. [2] Lo stesso sperano ora da lui i Senesi: anche se i benefici ricevuti dai Senesi non sono comparabili con quelli ricevuti da Filippo, uguale a quella verso Filippo è la costanza del re verso di loro. [3] Se, d’altra parte, in qualche modo si troverà che i Senesi hanno violato il patto, cosa che non crediamo, ciò sarà forse dovuto a ignoranza, non certo a malizia.

Sul cap. 50

[1] Come fosse Alfonso da giovane è ora mostrato dalla sua età matura. Più di una volta lo abbiamo visto inseguire le fiere col suo veloce destriero, scagliare lance ora contro cinghiali ora contro cervi, e abbatterli con la sua stessa mano. [2] Ammiriamo nelle azioni di un così grande re il vigore più che la prudenza. Non sia mai che la sua vita, in cui risiede la vita di tanti popoli, venga esposta a pericoli senza grave necessità.

Sul cap. 51

[1] Questa orazione è degna di un grande re e dello stesso Alfonso: qui è il dito di Dio. Infatti, queste parole, questi sentimenti, questa mente non sarebbero possibili se non fossero ispirati dallo Spirito Santo. Questo discorso è stato pronunciato e portato fino a noi in Germania. Non può essere negato ciò che è stato detto. [2] Con eleganza il re ricorda tre grandi benefici ricevuti da Dio: che è stato creato da lui non bestia, ma un uomo capace di ragionare; non un uomo qualsiasi, ma uomo cristiano; non un cristiano qualsiasi, ma un re cristiano. [3] La modestia gli ha impedito di rammentare che non è stato reso da Dio un qualsiasi re, ma il più potente e saggio tra i re d’Europa, cosa che nel nostro secolo è senza precedenti: re e filosofo. [4] Ma poiché è onesta e lodevole questa promessa se viene mantenuta, allo stesso modo è vergognosa e biasimevole se viene trascurata. [5] Per realizzare tale impresa, è necessaria la pace dell’Etruria, che, essendo turbata, tiene sospesa tutta l’Italia. Nessuno dubita che il potere e l’arbitrio di pacificare spettino ad Alfonso. [6] Quindi persuadilo, Antonio, persuadetelo tutti voi a cui le orecchie del re prestano ascolto a restituire la pace alla Toscana abbandonando il Piccinino. [7] Così, prese le armi contro i Turchi, potrà difendere e ampliare il nome cristiano, così come è stato detto da lui.

Sul Trionfo

[1] Quando Alfonso sarà tornato, dopo aver sottomesso i Turchi liberando Bisanzio, e avrà riportato le spoglie cruente e il capo del nefando Maometto, quale carro trionfale gli predisporrà l’Italia, quali ringraziamenti gli offrirà la Chiesa, quali festeggiamenti gli organizzerà tutta la società cristiana! [2] Verranno a Roma i re del Settentrione e dell’Occidente per salutare il grande condottiero, salvatore della repubblica cristiana, che torna vincitore. I cardinali e tutti i vescovi delle Chiese e i magistrati dell’Urbe, uscendo fuori le mura per un lungo tratto, gli andranno incontro portando le sacre insegne. [3] I Quiriti gli manterranno le redini e saranno gettati a terra la porpora e l’ostro perché li calpesti. Le nobili matrone e le vergini gli lanceranno dai tetti rose e gigli, accomodando sul suo sacro capo corone di variopinti fiori. [4] Egli stesso dall’alto suo carro lancerà monete d’oro alla folla, in ogni piazza e in ogni trivio in cui si fermerà tutto il popolo predisporrà nuovi spettacoli festosi e lo acclamerà augurando al vincitore vita e gloria. [5] E così trionfando sarà condotto non nel tempio capitolino del falso Giove, ma nella basilica di san Pietro, principe degli apostoli. Lì trovando il pontefice, Callisto III, vero vicario di Cristo e detentore delle chiavi del regno eterno, e ricevendo da lui l’alta benedizione, lo abbraccerà e lo bacerà come un anziano padre, e entrerà con lui nei recessi più interni del palazzo, dove discorreranno a lungo della recente vittoria e delle cose della Spagna. [6] Allora, Antonio, la tua musa quasi risuonerà dagli alti penetrali: tu comporrai poemi e Bartolomeo Facio scriverà storie, e donerete immortalità al re mortale. [7] Anche noi, per conto nostro, se ci sarà consentito gracchiare come cornacchie tra cigni, troveremo qualcosa da tramandare ai posteri su un re tanto grande.

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