Commento di Enea Silvio Piccolomini agli Alfonsi regis dicta aut facta memoratu digna di Antonio Panormita

Introduzione

Introduzione

È il 22 aprile 1456, quando, da Napoli, Enea Silvio Piccolomini (il futuro papa Pio II) scrive ad Antonio Beccadelli, il Panormita, figura preminente della corte di Alfonso il Magnanimo, re di Napoli e d’Aragona, e organizzatore della sua “propaganda”. Nella lettera è incluso il suo Commento agli Alfonsi regis dicta aut facta memoratu digna, che il Panormita aveva dedicato ad Alfonso il Magnanimo per celebrarlo e rappresentarlo come il più sapiente dei re, dotato di ogni virtù.

Il Panormita, aveva ultimato la sua opera poco prima, nei giorni immediatamente a ridosso del 26 agosto 1455, quando Alfonso il Magnanimo, re d’Aragona e di Napoli, con una solenne orazione pronunciata dinanzi al suo consiglio annunciò di voler intraprendere la crociata – mai effettivamente realizzata – contro i Turchi (cfr. l’introduzione a Panhormita 2024).

Costantinopoli era caduta il 29 maggio 1453 sotto l’attacco condotto da Maometto II, e da quel momento si susseguirono, da più parti, molteplici invocazioni innanzitutto all’imperatore Federico III e al re Alfonso il Magnanimo, perché un esercito cristiano accorresse in aiuto dell’antica capitale dell’Impero d’Oriente e difendesse l’Occidente dalla minaccia degli infedeli. Già il primo agosto di quello stesso anno, Biondo Flavio si era rivolto al sovrano aragonese con una accalorata orazione epidittica (De expeditione in Turchos), che faceva il paio con un’altra dell’aprile del 1452, indirizzata sempre ad Alfonso e a Federico III, perché impedissero l’imminente disfatta di Costantinopoli (Oratio coram serenissimo imperatore Frederico et Alphonso Aragonum rege inclito). Furono, però, davvero molte le orazioni o le opere di vario genere, in versi e in prosa, dedicate all’argomento, sentito collettivamente come particolarmente urgente.

Si infittirono, in quegli anni, anche gli sforzi papali in direzione di una spedizione militare di difesa e di liberazione contro il Turco invasore, giunto ormai alle porte dell’Europa, tanto che il 4 luglio 1456 ebbe inizio l’assedio di Belgrado. Dapprima si susseguirono le forti sollecitazioni di Niccolò V, che indisse la crociata il 30 settembre del 1453, cercando interlocuzioni soprattutto con l’imperatore, perché si giungesse a una generale pacificazione del-l’intera Europa per liberare le risorse necessarie a organizzare la controffensiva. Poi quelle maggiormente energiche di Callisto III, Alonso Borja, suddito della corona d’Aragona, che fu eletto l’8 aprile 1455 e che subito fece voto solenne di dedicarsi interamente alla lotta contro i Turchi. Il 15 maggio di quello stesso anno sottoscrisse la bolla di indizione della crociata, inviando in tutta Europa suoi legati per sostenerla. Le speranze del nuovo papa si indirizzarono immediatamente verso Alfonso, suo signore naturale (Marinescu 1935; Navarro Sorní 2004).

La spedizione, in realtà, fu solo annunciata e preparata per anni, ma non fu mai realizzata: eppure questo fu sufficiente a infiammare gli animi e a riaccendere la discussione sui valori autentici della cultura occidentale, identificata con quella classica, non solo latina, ma anche greca, che era tornata in quegli anni prepotentemente al centro dell’attenzione.

A scrivere l’orazione pronunciata da Alfonso il 26 agosto 1455, che generò una eccitata atmosfera, intensa e carica di attese, era stato Antonio Beccadelli, il Panormita, che la incluse nella parte conclusiva (immediatamente prima del Triumphus), della sua opera ideologicamente e politicamente più impegnata, i Dicta aut facta per l’appunto: l’intento era quello di supportare la strategia politica del sovrano, anzi di costruire l’immagine di un Alfonso re filosofo e cristiano, erede dei valori della civiltà classica e autentico successore degli antichi imperatori romani. Probabilmente, in quei giorni non si parlava d’altro: finanche Joanot Martorell, che in quel periodo era a Napoli, se ne lasciò suggestionare per il suo romanzo in catalano Tirant lo Blanch, la cui ambientazione è connessa con quegli eventi.

Espressione di quelle attese è anche il Commento del Piccolomini, strutturato in forma di epistola che inizia con una sezione nuncupatoria; prosegue con annotazioni puntuali ai vari capitoli dell’opera del Panormita; termina con una conclusio, che include anche la data, già ricordata al principio di queste pagine, che costituisce un sicuro terminus ante quem per la compilazione: Napoli, 22 aprile 1456. Il Piccolomini, che allora era vescovo di Siena, era giunto in città solo pochi giorni prima, inviato dal papa per spingere re Alfonso a mantenere fede alla sua promessa di compiere la spedizione contro i Turchi: proprio in questa direzione sono volte gran parte delle considerazioni dell’autore, anche se, parallelamente, mirano anche a chiedere aiuto e protezione per Siena, la città da cui veniva e di cui era vescovo, che in quel periodo era turbata dagli assalti bellici del condottiero Giacomo Piccinino.

Che l’opera sia volta a fare pressioni su Alfonso, perché tenesse fede ai suoi voti di crociata, è mostrato con piena evidenza dalla conclusione, che chiosa il Trionfo di Alfonso (posto in coda ai Dicta aut facta del Panormita) in questo modo:

Cum redierit Alfonsus, subactis Turchis, liberata Grecia, et spolia illa cruenta nefandique Mahumeti caput retulerit, o qualem ei currum apparabit Italia, quales gratias aget Ecclesia, quae festa omnis Christiana societas agitabit!

Quando Alfonso sarà tornato, dopo aver sottomesso i Turchi e liberato i territori greci, e avrà riportato le spoglie cruente e la testa del nefando Maometto, quale carro trionfale gli predisporrà l’Italia, quali ringraziamenti gli offrirà la Chiesa, quali festeggiamenti gli organizzerà tutta la società cristiana!

Il Piccolomini, prefigurando già la vittoria completa di Alfonso, gli preannuncia festeggiamenti solenni e un trionfo ancora più grande di quello celebrato nel 1443. E su questa linea prosegue in maniera ancora più immaginifica:

Convenient Romam Septentrionis et Occidentis reges, redeuntemque magnum imperatorem Christianae reipublicae servatorem salutabunt. Cardinales cunctique praesules ecclesiarum et magistratus urbis, longo extra moenia intervallo sacra ferentes, obviam ibunt. Nivei stabunt ad frena Quirites, sternetur purpura et ostro quaecunque ab eo terra calcanda fuerit. Matronae nobiles virginesque, rosas et lilia, eiectis in eum manibus, spargent, et variorum serta florum sacro capiti annectent. Ipse curru sublimis aureos in plebem nummos iaciet, quocunque in foro, quocunque in trivio substiterit, novas ludorum facies offendet, acclamabitque omnis populus victori vitam et gloriam.

Verranno a Roma i re del Settentrione e dell’Occidente per salutare il grande condottiero vincitore della repubblica cristiana che torna vincitore. I cardinali e tutti i vescovi delle Chiese e i magistrati dell’Urbe, uscendo fuori le mura per un lungo tratto, gli andranno incontro portando le sacre insegne. I Quiriti gli manterranno le redini e saranno gettati a terra la porpora e l’ostro perché li calpesti. Le nobili matrone e le vergini gli lanceranno dai tetti rose e gigli, accomodando sul suo sacro capo corone di variopinti fiori. Egli stesso dall’alto suo carro lancerà monete d’oro alla folla, in ogni piazza e in ogni trivio in cui si fermerà tutto il popolo predisporrà nuovi spettacoli festosi e lo acclamerà augurando al vincitore vita e gloria.

Tutto il mondo sarebbe accorso a omaggiarlo e a sottometterglisi, in un festeggiamento che sarebbe stato pari a quello che si usava in occasione delle incoronazioni imperiali. Del resto, il Piccolomini chiama Alfonso proprio magnus imperator, con quel-l’oscillazione nel senso della parola – ‘condottiero vincitore’ e ‘imperatore’ – che lo stesso sovrano aragonese, anche grazie ai dotti letterati che lo circondavano, avrebbe sfruttato per presentarsi al mondo come il verus imperator “all’antica”, superiore a quello “medievale”, quel Federico III che era stato incoronato nel 1452 e subito reso vassallo di Alfonso, ma che non si mostrava all’altezza del titolo che portava (Delle Donne 2015 e 2022). Il gioco non è solo allusivo, ma pienamente esplicito:

Atque ita triumphans non in Capitolium falsique Iovi aedem, sed in apostolorum principis beati Petri basilicam deducetur; ibique maximum sacerdotem Calistum tertium, verum Christi vicarium et regni aeterni claves tenentem, inveniens, largam ab eo benedictionem accipiet et, amplexus atque deosculatus grandaevum patrem, secum in penitiorem palatii partem secedet, ubi et de recenti victoria et de rebus Hispanicis longos inter se sermones habebunt.

E così trionfando sarà condotto non nel tempio capitolino del falso Giove, ma nel-la basilica di San Pietro, principe degli apostoli. Lì trovando il pontefice, Callisto III, vero vicario di Cristo e detentore delle chiavi del regno eterno, e ricevendo da lui l’alta benedizione, lo abbraccerà e lo bacerà come un anziano padre, ed entrerà con lui nei recessi più interni del palazzo, dove discorreranno a lungo della recente vittoria e delle cose della Spagna.

Ad accogliere Alfonso, dunque, ci sarebbe stato un trionfo ancora maggiore, non solo rispetto a quello di Napoli del 26 febbraio del 1443, ma anche rispetto a quelli antichi, perché sarebbe stato celebrato non in Campidoglio, ma addirittura nella basilica di San Pietro, nel cuore della Cristianità. La fantasia è tramutata in realtà pienamente verosimile, così che già vengono pregustati i racconti e le descrizioni della grandiosa vittoria non ancora, anzi mai avvenuta. La conclusione è questa:

Tunc tua, Antoni, musa, quasi ab inferis resurget, et tu quidem poemata compones, Bartholomaeus Factius historias scribet, mortalemque regem immortalitate donabitis.

Allora, Antonio, la tua musa quasi risuonerà dagli alti penetrali: tu comporrai poemi e Bartolomeo Facio scriverà storie, e donerete immortalità al re mortale.

Il riferimento al Panormita è scontato, scrivendo il Piccolomini un commentario alla sua opera. Quello a Bartolomeo Facio ci restituisce, invece, la suggestione che pure i suoi Rerum gestarum libri, che nell’aprile del 1455 erano già giunti al decimo e ultimo libro, terminando in maniera inattesa, siano stati repentinamente conclusi proprio in prospettiva della crociata di Alfonso, che sembrava imminente.

Già da queste brevi notazioni risulta evidente e spiccata la connotazione ideologico-politica dell’opera del Piccolomini, che si inserisce perfettamente nel contesto delle aspettative connesse con la crociata annunciata da Alfonso. Quella crociata mai realizzata, grazie soprattutto al consenso organizzato da Panormita, contribuì in maniera determinante a trasfigurare Alfonso nel più grande dei sovrani, in un imperatore assimilabile a quelli romani antichi, ma rispetto a essi ancora più grande, perché cristiano e difensore della vera fede. Il commento del Piccolomini, dunque, non è uno scritto meramente erudito o d’occasione, una banale raccolta di chiose al testo del Panormita. Piuttosto, è un’opera complessa, che non viene scritta di getto e poi accantonata, perché subisce riscritture redazionali (Delle Donne 203). Si pone la finalità evidente di riscaldare ulteriormente il già rovente clima che accompagnò la caduta di Costantinopoli con accalorate invocazioni al riscatto della Cristianità e della civiltà occidentale (basata sui principî della classicità), che si temeva fosse ormai prossima al tracollo. Inoltre, celebrando Alfonso come il più potente sovrano dell’epoca, cerca di indirizzarlo alla difesa di Siena contro le ostili ambizioni di Giacomo Piccinino, che allora imperversava in Toscana. Infine, sotto il profilo letterario, coopera decisamente al rilancio del genere faceto e apoftegmatico, rilanciato da Poggio Bracciolini con le sue Confabulationes e, più particolarmente, rielaborato in maniera originale dall’opera del Panormita, che costituisce lo spunto non tanto per un commento minuto e puntuale, quanto per la definizione di una nuova collezione di detti e fatti memorabili di sovrani illustri, e in particolare dell’imperatore Federico III e di altri principi di area boema e tedesca, al Piccolomini ben noti per i lunghi incarichi di tipo cancelleresco e diplomatico cui assolvette in quelle terre.

Prendendo, insomma, lo spunto da un testo ideologicamente strutturato, quale fu quello del Panormita, il Piccolomini volle non solo fare azione di pressione politica, ma contribuire anche a dare sviluppo alla tradizione della narratio brevis di tipo faceto, che stava divenendo in quegli anni una forma letteraria di successo, grazie non solo alle opere originali dei suoi contemporanei Poggio e Panormita, ma anche all’esempio illustre rinvenuto negli antichi greci che allora si stava riprendendo a tradurre e ai quali si attribuiva esemplare valenza politico-ideologica nella definizione delle virtù del perfetto principe. Modello preminente furono soprattutto i Memorabilia Socratis (ovvero Dicta et facta Socratis secondo il titolo assegnato dal primo traduttore, il cardinale Bessarione), usato come esplicito punto di partenza dal Panormita, e gli Apophtegmata di Plutarco, letti soprattutto nella traduzione approntata da Francesco Filelfo, ricordata dal Piccolomini nella prima parte nuncupatoria della sua opera e certamente nota anche al Panormita, che la lesse e annotò (unitamente all’altra traduzione di Antonio Cassarino, su cui si rimanda a Biscione 2023).