Non ancora trentenne, «vestito di negro alla spagnuola, col collare increspato, la fisionomia torbida e austera», un giovane, il 29 ottobre di quell’anno, guadava l’Ofanto al varco dell’Iscone, dove, quarantadue anni prima, Gian Geronimo Carafa erasi annegato; e lui seguiva una frotta di scherani a cavallo, intorno a uno stendardo, che portava molti fiori d’amaranto tagliati dal grembo col motto gentilizio: numquam languescimus. Era Carlo Gesualdo, conte di Conza e principe di Venosa, che lasciata furtivamente Napoli nelle prime ore del 27, e poco fermatosi nel paese da cui i suoi, d’antica origine longobarda, trassero il nome, un bel paesetto a mezza via del Vulture e Benevento, moveva frettoloso e cupo per la forte sua rocca di Venosa: la bella rocca di Pirro del Balzo
, che donata dal Re Cattolico a Gonsalvo di Cordova, l’avola di Carlo avea, nel ’43, acquistata dagli eredi. Di tutti i castelli de’ Gesualdo, quello, senza dubbio, il più munito e sicuro, - a breve distanza della Valle di Vitalba, dove un ramo cadetto della famiglia, ognora agognante al dominio di Armaterra, possedeva da tempo Ruvo del Monte
; e Ruvo, lungo la sponda destra dell’Ofanto, si collegava con Conza, e questa con la stessa Gesualdo: una signoria, in somma, tra le maggiori delle nostre province, che il TASSO, celebrando in una sua canzone del ’92 il grande ingegno musicale di Carlo, «illustre per nuove mirabili invenzioni nell’arte de’ suoni e del canto»
, descriveva, di maniera, così:
Né sol Venosa or sotto l’ombra ammanta,
Che pur si gloria e vanta
Di nobil cetra, al grande Augusto amica;
Ma quella terra fortunata, aprica,
Che inonda e porte a più felici genti,
Coll’onde sue correnti,
L’Aufido, che da lungi anco risuona,
Sin dove il seggio a lui fortuna scelse.
(L’«aprica» terra sarebbe Conza, chiusa tra’ monti, e l’Ofanto risuonerebbe fin su a Gesualdo, l’avventurato «seggio» degli avi di Carlo…)
Il quale, dunque, traversava in quel giorno l’estremo lembo di Monticchio, sfuggendo da’ centri abitati, né pure fermandosi alla grotta dell’Arcangelo, il santo patrono di sua casa, e andava, andava tutto solo per rinchiudersi nella più lontana delle sue terre, perché, tre sere innanzi, a tarda ora, nel palazzo de’ Sangro (oggi Sansevero) che egli abitava in piazza San Domenico, aveva sorpresa e ammazzata, insieme col drudo, la moglie: lei, donna Maria d’Avalos de’ marchesi di Pescara, sua cugina per parte di madre, vedova in prime nozze dell’unico figlio di Ferrante Carafa, ossia, dell’unico nipote di Gian Geronimo Carafa e di Mario Carafa, ultimi commendatarii carafeschi del Vulture, - «non meno chiara per i natali che famosa per la bellezza»
, paragonata dal Tasso, nell’88, allo splendore del sole; lui, don Fabrizio Carafa
duca d’Andria, originalmente del ramo primogenito del medesimo tronco agnatizio degli abati di Monticchio, ammogliato e già padre di famiglia, - «forse il più nobile e grazioso cavaliere della città, così avvenente e così valoroso, che ora l’avresti stimato un Adone ora un Marte»
. Certo, la mancata fede del talamo significava un’onta di tal fatta, che un principe come don Carlo non poteva, non doveva sopportare; senza dire degli antenati paterni, che non mai si lasciarono passar mosche sul naso, sua madre, Geronima Borromeo di Milano, era nipote di papa Pio IV e, quindi, sorella di san Carlo, cugina dell’arcivescovo Federigo e del cardinal de Altemps: e papa Pio IV avea pure insignito della sacra porpora un de’ Gesualdo, lo stesso zio di Carlo, quell’Alfonso, che già primate di Conza, a cui vantaggio ricuperò dalla chiesa di Melfi il demanio di Palo Rotondo, seppe acquistarsi fama con la traslazione – una delle mode di quel tempo – delle ossa del santo arcivescovo Erberto. Buon sangue, non c’è che dire, gli scorre nelle vene, e l’onore offeso non tollera dubbio: appena la tresca gli viene all’orecchio, fatto certo della vergogna, ogni indugio gli è incomportabile. E smosse le serrature della porta, che comunica, per una scala a chiocciola, dal mezzanino in cui dorme con la camera nuziale, detto di voler fare, come era solito, una grande cacciata agli Astroni, dove gli è forza pernottare, parte di pieno giorno in compagnia di servi e di bracchi, ma solo per celarsi presso un parente, dal quale, a prima sera, gli riesce di nascosto rimettersi in casa. Il guardaroba, meravigliato, gli chiede: «e la caccia?». Ed egli: «taci; vedrai che caccia farò qui!». Battono le ore cinque, e a un bel chiaro di luna, in fondo alla deserta piazza, il duca d’Andria appare, - nella diritta una manopola, nella sinistra un guanto di ferro brunito: a un tenue suo fischio un balcone si socchiude, lasciando sporgere, incappucciata, la dama del cuore; e dal portone, come usavano, sempre spalancato, il duca sale all’appartamento, aprendo l’uscio con chiave falsa…Un’ora dopo, seguito da tre staffieri armati, don Carlo penetra dalla scaletta segreta nell’andito, dove sonnecchia la nutrice, e rapido come il pensiero irrompe dentro la stanza: «ah traditore, ah bagascia!»; e due colpi di pistola, tirati a bruciapelo, stendono al suolo il duca, che è appena balzato a terra in camicia, e un colpo di coltello squarcia alla principessa, ancora giacente in letto, la gola. Non una voce, non un gesto, in quello scatenarsi d’inferno, contro gli assassini, che pure seguitano a percuotere da ciechi. Poi, tutti insieme, vanno per ridiscendere, ma don Carlo si arresta: «è morta davvero?»; e fattosi indietro, ricorre verso il talamo, e i più pugnalate ferisce quel corpo esanime….
Scorta la falsa chiave, questa sola raccatta, consegnandola al guardaroba, perché voglia la dimane mostrarla, in suo nome, a’ ministri della giustizia; e con le mani e con gli abiti ancora lordi di sangue, scende nel cortile, ordina una fida scorta di armigeri, salta sul cavallo e via! Via, d’un fiato, per quanto umanamente gli è possibile, oltre Gesualdo, oltre Monticchio, fino a Venosa: dal castello di Venosa al porto di Barletta il cammino è breve, e i mezzi di fuga assai facili. Tutto, fuor che anima viva possa mai dire, che un Gesualdo abbia sofferto insulto, meno che da altri, da uno de’ Carafa!
L’ambasciatore veneto ne informava poco dopo la Serenissima ne’ termini seguenti: «don Carlo Gesualdo, principe di Venosa e nipote dell’illustrissimo cardinale don Alfonso, appostatamente salito martedì, alle sei hore di notte, con sicura compagnia, alla stanza di donna Maria d’Avalos, moglie e cugina sua carnale, stimata la più bella signora di Napoli, ammazzò prima don Fabrizio Carafa, duca d’Andria, che era con essa, e lei appresso, di questa maniera vendicando la ingiuria ricevuta. Abbracciano queste tre principalissime famiglie quasi tutte le altre maggiori del Regno, et ognuno pare stordito per lo stupore di questo caso, e se non sbigottì molto all’avviso l’illustrissimo signor Viceré (conte di Miranda), che amava e stimava infinitamente il duca come persona, che per natura e studio era dotato di tutte le più belle e degne parti e conditioni che si ricercano in signor principale et in valoroso cavaliero. I ministri con la Corte sono stati alla casa, e fatte alcune inquisizioni, comandarono che fossero stati fermati e custoditi tutti li familiari. Ma fin qui non se ne sente altro»
. (E ,in realtà, non se ne fece altro, e don Carlo, chiuso in Venosa, poté presto rassicurarsi, perché, quantunque le leggi non permettevano al marito di uccidere la moglie adultera, ma solo il drudo, e non ogni drudo, ma unicamente se di origine plebea, il viceré, «stimando giusto il motivo» da cui quegli fu mosso «a togliersi l’onta», e volendo «usar riguardo a tanto Uomo», comandò arrestarsi e indagini giudiziarie, lasciano impuniti così il principe come gli sgherri).
Che il caso abbia destato «molto stupore», non è dubbio. Tutti gli scrittori contemporanei consacraron versi di compassione e di cordoglio, tra buoni e cattivi, alla «incauta coppia»: il TASSO, sopra gli altri, deplorò e compianse la fine de’ «miseri amanti» in varii componimenti, a cominciare dal noto sonetto:
Piangete, o Grazie, e voi piangete, o Amori
Che egli diresse a un amico, scrivendogli come «non solo piangesse e cantasse tutta Napoli, ma quanti sono poeti in Italia, vaghi di una occasione così bella et altamente poetica». Anche il cavalier MARINO, poco più che ventenne e già famoso, fu del bel numero uno…
Don Carlo tornò a Napoli, riprese moglie, una Eleonora d’Este, e nel ’92 accolse il Tasso in una sua villa a Mergellina, richiedendolo di alcuni madrigali, che melodiati da lui «a cinque voci», pubblicò, più tardi, a Genova. Non ebbe figli, dal secondo matrimonio. De’ due avuti dal primo, credendo leggere nelle sembianze del minore, bambino di pochi mesi, le odiate sembianze del Carafa, lo fece, come narrano, soffocare nella culla; e il quadro di una chiesetta di Gesualdo, nel quale l’Arcangelo san Michele adita supplice a un pargoletto che vola in grembo al Redentore don Carlo penitente, confermerebbe, dicono, la tradizione del misfatto, commesso nel povero innocente. Sposò il maggiore, Emanuele, cui il MANSO rimproverava di «compiacersi al pari di Narciso non meno della propria bellezza che di quella della donna amata», a una ricca signora tedesca; ma ebbe il dolore prima di vederlo alle prese col vescovo di Venosa, che interdisse lui insieme con la città nel 1609
, poi di prenderlo di «malattia soprannaturale», frutto di luride bevande «et altri sortilegi», de’ quali venne accusata, presso il Sant’Officio, una contadina gesualdese, da lui sedotta e abbandonata. Gli sopravvisse, unica erede, la nipote Isabella, che andò moglie del principe di Piombino, Niccolò Ludovisi, di Bologna, nipote di papa Gregorio XV.
De’ figliuoli del Carafa – tanto per chiudere l’intermezzo – l’uno divenne abate di Montecassino, l’altro fu settimo Generale della Compagnia di Gesù, il terzo fondò la nuova Congregazione de’ Pii Operai.
C. MODESTINO, Della dimora di Torquato Tasso in Napoli, vol. II, p. 86.
Costruita nel 1470 su l’area dell’antico duomo, che egli stesso, Pirro del Balzo, duca di Venosa e principe di Altamura, riedificò di pianta all’altra estremità del paese. LUPOLI, Iter venusinum, p. 190.
RICCA, La nobilità delle due Sicilie, vol. I, p. 120, - Cfr. CONTARINO, La nobiltà di Napoli, p. 59.
Santa Maria di Pierno
, pp. 34 e 35.
TASSONI, Discorsi, lib. X, cap. 23. – Cfr. ORLOFF, Essai sur l’histoire de la musique, vol. I, p. 239.
Il Tasso non fu mai nella valle dell’Ofanto: la sua dimora a Bisaccia, nell’autunno del 1588, con l’apparizione dello «spirito amoroso» e con la presenza del cardinale Alfonso Gesualdo, che diede argomento, or non è molto, al migliore de’ quadri del Celentano rimasto incompiuto, è una fiaba, come il MODESTINO chiaramente dimostra (Op. c., vol. I, pp. 120-23), già inventata dal MANSO (Compendio della Vita di T. Tasso, 1619, lib. III).
Il ritratto è nella cappella, che già appartenne a Ferrante Carafa, dentro la chiesa di San Domenico Maggiore in Napoli. - S. VOLPICELLA, Descr. Stor. di alcuni princ. edifici di Napoli, p. 292.
A. BORZELLI, Notizia de’ Mss. Corona, 1891, p. 30.
Il processo, ossia l’«informazione», come allora si diceva, che si arrestò all’atto di ricognizione de’ cadaveri, alla prova generica descrittiva e a quella specifica, consistente nelle due dichiarazioni della nutrice e del guardaroba, da cui ho tratto, con fedeltà, il racconto, è stato integralmente pubblicato dal MODESTINO (op. c., vol. II, p. 48 e seg.). Comincia così: «die 27 octrobris 1590, essendo pervenuto a notizia della Gran Corte della Vicaria qualmente ec….., ci siamo conferiti in casa del detto illustrissimo don Carlo Gesualdo, e nell’appartamento superiore di detta casa, nell’ultima camera della medesima, subito nell’entrare della porta, distante dal letto, abbiamo trovato morto ucciso, disteso in terra, l’illustrissimo don Fabrizio Carafa, quale teneva vestita una camicia di donna, a basso lavorata con pezzilli e collaretti di seta negra, ed era tutto insanguinato e ferito di più ferite, di un’archibugiata al braccio sinistro che gli passava il cubito dall’una parte all’altra, e passava ancora il petto, e la manica della camicia era abbruciata, di più e diversi colpi in petto di ferri acuti e nelle braccia e in testa e in faccia, e di un’altra archibugiata alle tempie e sopra l’occhio dov’era una gran lava di sangue; e in detta camera si è trovata una trabacca indorata con cortino di panno verde, e dentro il letto si è trovata morta uccisa l’illustrissima donna Maria d’Avalos, quale stava in camicia piena di sangue, e teneva tagliati li cannarini, una ferita in testa dalla parte della tempia diritta, una pugnalata in faccia e più pugnalate sulla mano e braccio diritto, e nel petto e nel fianco teneva due altre ferite di punta; e sopra il detto letto si è trovata una camicia di uomo con lattuchiglie (collaretti di tela lina molto fine, increspati a foggia di lattughe) imposimate, e sopra una seggia di velluto cremisino, vicino al medesimo letto, si è trovata una manopola di ferro e un guanto di ferro imbrunito, un paio di calzoni di panno mischio verde e un giubbone di tela gialla e un paio di calze di seta verde e un paio di calzonetti bianchi di tela, quali vestiti stavano tutti senza pertuso né punta di ferro acuto né macchiati di sangue; e dalla banda dell’appartamento delle donne, in detta camera, si è trovata la porta rotta con la serratura ammaccata, e in essa è la portella del caracò che cala a basso nell’appartamento di don Carlo, e nella stanza dove questi dormiva abbiamo trovate tre alabarde, e tutte e tre stavano con le punte sanguinolenti e lorde di sangue, e ci si è trovata una rotella di ferro, grande, con frangia di seta nera all’intorno, una coltella di argento indorata, e una spada similmente indorata, e due torce di cera cominciate. Ed all’ora medesima furono mandati a pigliare due tauti (bare), e subito dopo vennero con alcuni reverendi Padri Gesuiti a farsi consignare i corpi de’ morti uccisi la contessa di Ruvo quello del detto signor duca dalla parte della moglie signora duchessa d’Andria, e la marchesa di Vico quello della detta donna Maria d’Avalos dalla parte della illustrissima donna Sveva Gesualdo madre di detta signora. Ec.ec.»
.
MUTINELLI, Storia arcana e aneddotica d’Italia, vol. II, p. 262.
SERASSI, Vita del Tasso, p. 249.
CATONE, Memorie Gesualdine, p. 82.
Poesie Nomiche, Venezia, 1635, parte 3.ª, sonetto CLXXV.
CENNA, p. 171.
L. AMABILE, Il Santo Officio, ec., vol. II, p. 11, in n.