Nel mezzo di quel seno concavo, che si stende fra Lioni e Cairano, a ridosso del varco del Temete, che immette le sue nelle acque del Sele, s’innalza, di meno che duecento metri sul fiume, un cono isolato, ricoperto di cupa verdura, il quale ha termine in una piattaforma dirupata. È Conza della Campania, la cui topografia, e nell’antichità e nel medio evo, fece di essa un valido arnese di guerra, una vera piazza forte (φρούριον), come la chiama giustamente lo storico bizantino del VI secolo. Oltre il versante dell’Appennino, all’avanguardia de’ passi soprastanti al Basento e al Sele, i romani e i longobardi ebbero due posti militari: Acerenza e Conza; rocche, più che città, piantate gagliardamente in cima a picchi scoscesi, come le «ambe» abissine. E dell’arce antica, propriamente detta, Conza serba intatto, ancora, il carattere. Giù alla spianata, l’occhio è colpito dagli avanzi di un enorme edificio reticolato, appoggiato al monte, di costruzione romana: un edificio, probabilmente, adibito a pubbliche terme. L’abitato, dalla porta alla sommità, è tutta una scalea acciottolata, che s’inerpica tortuosa ed aspra fra casette minuscole, da’ piccoli vani con le imposte, qua e là, sporgenti in fuori: usci e finestre, da cui pare impossibile, quasi, non si mostrino gli armigeri di una volta. A metà della salita, in un’angusta piazzetta, si eleva nuda la facciata della cattedrale, abbattuta dal tremuoto del 1694 e malamente rifatta nel secolo scorso, dedicata al santo arcivescovo Erberto, di nazione inglese secondo l’Ughelli, indigeno secondo la tradizione, colà morto e seppellito nel 1181; una cattedrale, in cui è solo il capitolo, perché l’arcivescovo e il seminario hanno sede in un villaggio delle alture, Sant’Andrea, già feudo, per donazione de’ primi normanni, della chiesa stessa di Conza. Sul cocuzzolo sono ancora i ruderi della bicocca; intorno al colle, per un circuito di non oltre cento metri, sono ancora i resti delle mura. Ma di là, tutto in giro alla campagna, è uno spettacolo così mesto, che a lungo, certamente, non vi si ferma volentieri la vista. Quando, nella estate, soffia il favonio, pende sul fondo della valle un arso nugolone di polvere.
A Conza, ove già Roma avea addotta una colonia, posò Annibale, rimontando l’Ofantodopo la battaglia di Canne, combattuta, com’è noto, il 2 agosto dell’anno 216 avanti Cristo. Il racconto, che ne fa Tito Livio, è interessantissimo: «Annibale(egli scrive), dopo il fatto d’arme e la espugnazione e preda degli alloggiamenti, incontanente era passato di Apulia in Sannio, chiamato nelle terre degl’irpini da Stazio Trebio, il quale gli prometteva di dargli la città di Conza. Era Trebio un cittadino di Conza, grande e nobile tra’ suoi, ma era sopraffatto dalla famiglia de’ Mopsi, famiglia potente per favore di Roma. Dopo la fama del fatto d’arme di Canne, e la venuta di Annibale, divolgata da spessi ragionamenti di Trebio, essendosi partiti que’ della famiglia Mopsiana dalla terra, la città si diede a’ cartaginesi, senza contrasto, ed accettò la guardia. Lasciata ivi tutta la preda e gl’impedimenti, Annibale comandò a Magone, che con parte dell’esercito pigliasse la possessione delle città di quel paese, che si davano, e sforzasse quelle, che facessero resistenza. Ed egli, per la Campania, se ne andò al Tirreno per espugnare Napoli, desiderando di avere in suo potere una città di marina». Così nella versione di Jacopo Nardi.
Otto secoli più tardi, cioè l’anno 554 dopo Cristo, a Conza, cospicua città (Municipii loco) durante la pace dell’impero, riparò egualmente, non chiamato né acclamato come Annibale, ma fuggiasco e vinto, un altro straniero, proveniente dall’altro versante della penisola: vi andò Ragnari, unno, a capo de’ settemila goti superstiti dell’esercito di Teia, battuto a’ piedi del Vesuvio dalle armi di Giustiniano, gran raccoglitore di molta parte delle province occidentali. Doveva essere ben forte Conza, se i goti la preferirono alla stessa Sant’Agata, già da essi fabbricata su le falde meridionali del Taburno, e che serba tuttora il loro nome. Agatia, scrittore contemporaneo, ne descrive il fatto con parole, le quali, sul posto, acquistano espressione di evidenza mirabile. «Si raccolsero (egli scrive, e il Balbo, liberamente, traduce), col resto di lor ricchezze e con molti viveri, in Conza, castello forte di munizioni, e più del sito, perché collocato sopra un arduo monte, i cui versanti scabri e ronchiosi vietano l’accesso al nemico. Andava Narsete stesso a campeggiarla, e non la potendo, a cagione del luogo, assaltare, attese ad affamarli. Gli assediati facevano sortite, ma senza frutto; e sopraggiunta la primavera dell’anno seguente, Ragnari domandò un abboccamento con Narsete, e vennevi con pochi tra le mura e il campo; ma perché egli voleva dettar condizioni, e Narsete non le acconsentiva, si partivano. Come fu Ragnari su per dirupo, accosto a sue mura, tolto l’arco, ne scoccò una saetta in giù contro a Narsete. Diede in fallo; e sendogli risposto subito dalle saette greche, cadde egli ferito a morte, e, riportato addentro, morì due giorni appresso. Allora gli assediati si resero a patto di vita salva: e Narsete, entrato nel castello, li mandò tutti, affinché più non turbassero Italia, a Costantinopoli».
Di lì a poco nuovi invasori vendicavano quella resa, poi che i longobardi, occupata Benevento nel 571, ed appostatisi, dentro Sant’Angelo, a cavaliere dell’alta Valle dell’Ofanto, ripigliavan Conza dalle armi imperiali, scacciandone i maggiorenti, tra’ quali quel Giovanni, che nel 610 s’impadronì di Napoli, e facendola in breve una delle principali, una delle più valide loro contee. Tutto il circolo dell’Appennino, da San Fele a Teora, tutto l’altipiano del Formicoso, da Andretta a Bisaccia, andò compreso nell’ambito del gastaldato di Conza, come più tardi, su lo scorcio del secolo XI, in memoria dell’antica importanza della città, quello stesso territorio veniva sottoposto alla gerarchia della sua chiesa, allora creata metropolitana; di tutta l’alta valle dell’Ofanto, solo il passo di Santa Venere e il nodo del Vulture, già assegnati al gastaldato di Acerenza, restarono a’ greci di Bisanzio, i quali, per ciò, colà eressero le torri di Cisterna e di Monteverde, quivi cinsero di mura Melfi e Rapolla. E i signori di Conza, lungo que’ secoli di guerre assidue e pugnaci, tennero bravamente il tratto di confine loro affidato, poiché invano Carlo Magno, nel 788, chiese l’abbattimento della forte città al duca Grimoaldo III, incoraggiato appunto alla resistenza, secondo l’Anonimo salernitano, dal prode suo gastaldo Ranfone: quell’incerto, ognora mobile confine de’ due dominii, che fluttuò sempre al mescolarsi di quelle due forze contrarie, cui presto si aggiunsero le incursioni de’ musulmani di Sicilia, allettati o stipendiati ora da’ longobardi contro i bizantini, ora da’ bizantini contro i longobardi. E dalla presenza de’ musulmani, nella regione superiore dell’Ofanto, forse rimarrebbe tuttora, unico indizio, l’appellativo di Pesco Pagano, serbato a un comune che siede alto alle spalle di Conza, se, in quella vece, non fosse vivo il ricordo storico di un assedio di quaranta giorni, che Conza medesima, nell’866, ebbe a soffrire per opera del sultano di Bari, fugato, dice il Cronista cassinese, dal «presidio di Dio»: quel terribile Sâlem, il demonio, di cui gli annali cristiani narrano tante meraviglie, e che a lungo stesse minaccioso e asserragliato in Venosa.
I longobardi, nell’ Italia Meridionale, durarono oltre cinque secoli; erano già vissuti duecento settant’anni, allorché, scoppiato lo scisma politico in Benevento, Orso, gastaldo di Conza, prima ospitò segretamente nel proprio castello, poi quivi stesso esaltò il legittimo erede Siconulfo, suo cognato, al nuovo principato di Salerno, cui, fatta la pace, venne per ciò a spettare tutta quanta la contea, mentre alla terra beneventana seguitò ad essere ascritto il Vulture (medius gastaldatus Acerentinus). Durarono, cioè, insino alla metà del secolo XI: quando i normanni, impadronitisi di Melfi, «la ricca terra – dice Ariosto – che li fece grandi», spingendosi via via tra’ possedimenti di Bisanzio e Longobardia, tanto si giovarono delle rivalità di quegli eterni, ormai decrepiti competitori, che in breve riescirono, mediante la lega federale di Puglia, a costituire il primo nucleo del reame di Napoli. Ma Conza, né ribelle né omicida di un ssuo gastaldo Landemario, come vorrebbe l’apocrifo Annalista di Cava, non cedette a Roberto il Guiscardo se non solo nel 1076, ossia trentacinque anni dopo l’occupazione di Melfi, e non più che uno avanti la capitolazione di Salerno. Roberto il Guiscardo, non più giovane, ma ancora (così lo descrivono i contemporanei) «il volto acceso, vivaci gli occhi che pareva scintillassero, ampie le spalle, tonante la voce», saliva a capo de’ suoi nella doma città, e ne pigliava possesso dalle mani stesse di Guido, ultimo Gastaldo di Conza, zio di Gisulfo II, ultimo principe longobardo. Del vecchio nome de’ longobardi sono tuttora contrassegnati i molti comuni alle propaggini dell’Ofanto, tra’ quali è Sant’Angelo, oggi capoluogo del circondario. Sotto i normanni, Conza di mantenne fra le più notevoli contee della nuova monarchia: la sola città, sebbene in tremuoto del 990 l’avesse, afferma Leone Ostiense, «quasi mezza distrutta», era feudo di XX militi, e quindi rappresentava la grossa rendita di quattrocento once d’oro. Ma certo non fu suo feudatario, nel 1095, come tanti asseriscono, quel Dudone della Gerusalemme Liberata,
Ch’avea più cose fatte e più vedute:
poi che egli, in cambio, era nativo e signore di Kuontz, presso Treviri, al confluente del Saar nella Mosella. Né alla rocca feudale di Conza, come la tradizione pretende, convennero mai, nel 1486, i baroni congiurati a’ danni di Casa d’Aragona; essi, in vece, si radunarono a Lacedonia, piccola città vescovile dell’archidiocesi conzana, posta su alle origini dell’Ausento, e ivi, nella chiesetta di sant’Antonio, dice il Summonte, si giuraron fede su l’ostia consacrata: quella povera Lacedonia dell’itinerario appiano, cui financo la vicina Carbonara, il 1862, ha ingiustamente usurpato, per grazia sovrana, l’antico nome romano di Aquilonia.