I percorsi di Giustino Fortunato

date

1898

author

Fortunato, Giustino

title

Per le lapidi a’ martiri della Patria [estratto n.1]

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  • Fa parte di: "Il Mezzogiorno e lo Stato italiano. Discorsi politici (1880-1910)", vol. II, Bari, Laterza, 1911, pp. 81-89.

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[Discorso pronunziato a Potenza il 20 settembre 1898]

Signori! — Non è artifizio retorico il mio se incomincio dal dire, che non senza molta trepidanza ho accettato l'onorevole incarico, affidatomi dalla Deputazione provinciale, di commemorare que' nostri conterranei, i cui nomi, scolpiti sul marmo, oggi consacriamo all'ammirazione dei venturi. Poiché nulla ho fatto e nulla ho sofferto per la patria, non altri più di me ha profonda la coscienza e devoto il culto delle memorie. Nel triste sentimento dell'ora che volge, eccoci qui tornati alle prime evocazioni, a' primi palpiti degli anni giovanili, né mai come ora noi abbiamo il dovere di chiedere ai morti perdono dell'oblio. Fuggi il periodo delle liete aspettazioni e delle grandi speranze, lasciandoci freddi, indifferenti a noi stessi. Ma è bastato — nella scorsa primavera — un istante d'angoscia suprema per farci avvertiti, che nessun male presente è pari al danno e alle vergogne del passato; che se dell'alba, cosi fulgida di promesse, è tanto diverso il meriggio; se ancora siamo tanto lontani dalla mèta agognata di una Italia sana, forte, ricca, felice: oh non c'è cosa che giustifichi, anche lontanamente, anche per poco, l'abbandono d'ogni simbolo ideale, d'ogni atto di pubblica riconoscenza a’ martiri, agli eroi del nostro riscatto. Nessuno è più severo di me nel concetto, nel giudizio dell'opera nostra, e sa e vede quanto sia ancora troppo debole, troppo inferiore a sé questa terza Italia, così a lungo, così fortemente invocata da' padri, chiamata (come diceva, con accesa eloquenza, il Mazzini) ad armonizzare cielo e terra, ad insegnare diritti e doveri a cittadini liberi ed uguali: questa Italia, il cui vivere noi stessi, nella verde giovinezza nostra, abbiamo immaginato, creduto, tanto più riposato e sicuro. Ma io non impreco al mio tempo e non dispero all'avvenire; io ho fede nella coltura più diffusa, nella più vigorosa concitazione morale dei cuori: ho fede, soprattutto, nella virtù redentrice del sangue versato, nel ricordo, nell'esempio del sagrifizio compiuto. Perciò sono qui, nonostante la mia pochezza di fronte al soggetto. Voi perdonatemi l'ardire, ed ascoltatemi.

Io non tenterò di rifare, neanche sommariamente, il racconto delle nostre rivoluzioni, dal 1799 al 1860. Non è questo il luogo opportuno, e, del resto, sarebbe arduo accennare, con spirito di verità, al vario impulso degli animi, alla varia manifestazione de' propositi, che a' moti politici della nostra Basilicata e delle province meridionali, nella serie de' rivolgimenti d'Italia, dettero impronta e carattere del tutto speciali. Non parlerò quindi delle cospirazioni tentate, delle lunghe ansie sofferte, delle persecuzioni, de' processi, delle condanne, degli esili, delle prigioni virilmente sopportate; né, tanto meno, ricorderò le buie dolorose pagine delle reazioni patite, che carità di patria vorrebbe per sempre cancellate dalla memoria: di quelle reazioni, nei cui scatti selvaggi, vibra pure, terribilmente ammonitrice, l'anima delle nostre plebi rurali. Mi ridurrò, secondo è mio debito, ad illustrare le lapidi, che oggi inauguriamo, a diffondere su di esse, che sono come il libro d'oro del nostro martirologio, tanto lume quanto basti a intenderle e a compiacervisi. V'ha ancora degli uomini, grazie al cielo, che delle glorie della patria si compiacciono!

La Commissione, che per invito del Consiglio provinciale lavorò intorno alle liste, adottò unanime due criteri fondamentali: il primo, che non fossero da inscrivere se non i nomi di quei nostri conterranei, i quali diedero la vita o sul patibolo o nelle battaglie; il secondo, che fosse dimostrato non esservi stata, per quelli, altra causa di condanna se non di mera imputazione politica. Raccogliere i nomi delle vittime delle sommosse locali, ossia della guerra civile, perché non uno dei tumulti che desolarono molti nostri comuni, nacque mai se non dall'odio di parte o di classe

fra que' che un muro ed una fossa serra,

— sarebbe cosa impossibile o, se possibile, non meritoria: que’ nomi la cronaca registra e compiange, ma la storia non eterna. Mettere, d'altra parte, insieme con i màrtiri dall'anima pura e incontaminata quelli che incontaminati e puri non furono, o perché mossi da fini di vendetta o, peggio, perché macchiati di colpe, e che il caso, se non la ferocia de' giudici, trasse a morte nella invidiata loro compagnia, — sarebbe, più che una indegnità, una profanazione; è troppo alto, troppo insigne il tributo di affetto e di riverenza, che noi intendiamo rendere al valore, alla virtù, al disinteresse, a tutto ciò che eleva e nobilita il cuore dell'uomo, perché sia lecito contaminare e offendere quanto i màrtiri, per l'appunto, tennero di più caro su la terra: l'onore. Nessuna rivoluzione fu più onesta della nostra; e il martirologio italiano, per essere quello che è, non ha bisogno di accattar fame usurpate, di mendicare sotterfugi e pretesti. Certo, non è necessario io ragioni qui degli esclusi. Ma qui non posso né devo tacere, che, per ciò solo, invano si cercherebbero, negli elenchi, i nomi de' sei potentini, morti su le forche in Matera il 15 marzo del 1800, e tre de' sei calvellesi, moschettati il 13 marzo del 1822 presso Calvello. I primi è dubbio, secondo la varia tradizione orale, nell'assenza di ogni testimonianza scritta, non abbiano partecipato — direttamente o indirettamente — alla sanguinosa tragedia, che si svolse contro gli assassini del vescovo Serao il 27 febbraio del 1799: per i secondi è fuori questione, a detta della stessa sentenza della Corte Marziale, toccar loro esclusivamente, non a tutti insieme i compagni, come il «Giornale Ufficiale» mostrò allora di credere, la triste responsabilità della uccisione, avvenuta in Calvello dopo l'assalto alle carceri nella notte del io febbraio 1822, di un infelice viandante.

Chiariti, così, quali furono gl'intendimenti e il metodo, vengo a dire, il più breve che io sappia, di quelli che le lapidi ricordano.

È l'aurora appena dell'era novella, e uno studente tuttora imberbe apre animoso la schiera de' màrtiri. Nel mattino del 19 gennaio 1799, mentre i francesi liberatori sono in via per Napoli, un manipolo di patrioti sorprende e disarma il presidio di San' Elmo, si chiude nel forte e vi inalbera, in cima, la bandiera tricolore: fra essi è Francesco Palomba, nato in Avigliano il 1779. Arriva, alle porte della città, l'esercito della Repubblica; ma la plebe, e ad esso e a' giacobini che quello soccorrono ed acclamano, oppone una delle più cieche, una delle più fiere resistenze che la storia contemporanea registri. A sera del 22 alcuni drappelli di fanteria giungono, finalmente, a penetrare nel castello, si uniscono ai custodi e, divisi in due squadre, discendono l'una per Antignano, l'altra per Santa Lucia del Monte: i primi sono salvi, e fanno sosta al Museo; i secondi, oppressi ne' vicoli circostanti la parrocchia de' Sette Dolori, battono in ritirata, lasciando a terra, colpito in pieno petto, il nostro Francesco. In una delle prime adunanze del Governo provvisorio, il cittadino Forges-Davanzati propone sia inciso il nome di lui su apposita colonna commemorativa.

Scorrono quattro mesi, e già le sorti della Repubblica partenopea precipitano: in una stessa giornata, il 10 maggio, Altamura si arrende e Picerno è presa di assalto. Colà, fatto prigione, è passato per le armi un giovane patrizio di Matera, Giovanni Firrao, nato il 1778; quivi cadono, combattendo a capo degli ausiliari. Michele e Gerolamo Vaccaro, di 25 anni l'uno, di 24 l'altro. Nessun elogio varrebbe le parole, con le quali il Coco immortalò i nomi de' due gentiluomini aviglianesi: «se il fato (egli dice) non faceva perire i virtuosi e bravi fratelli Vaccaro, se il Governo avesse inviati loro non più che cento uomini di truppa di linea, qualche uffiziale e le munizioni da guerra che loro mancavano, forse la causa della libertà non sarebbe perita». Non sarebbe perita, ove tutti i comandanti del Potentino e del Murese, dopo che le avanguardie dello Sciarpa — nel 19 aprile — avevano oscenamente occupata Tito, fossero accorsi, dietro il loro esempio, in difesa dì Picerno. L'eccidio della piccola eroica cittadina, — eroica, meno per il coraggio mostrato che per la fede a lungo tenuta nel respingere le ingiunzioni nemiche, è degno di nota speciale; ed ecco, per ciò, nello elenco, a titolo di solenne testimonianza, il nome di uno del popolo, Nicola Galvano, settuagenario, ucciso a colpi di pietra in chiesa, mentre, nella calca di donne atterrite, levava e presentava la immagine del Cristo crocefisso alle orde irrompenti. Il paese non ebbe né dissidenti né traditori. Onore a Picerno!

I vincitori entrano in Napoli e, immediatamente, alzano il patibolo. I processi sono affrettati, tenuti occulti, infine bruciati. Ma la fama illustre delle vittime corre il mondo, e giunge fino a noi circonfusa di aureola.

Anche prima che il palco, su cui tanto sangue doveva scorrere, fosse eretto nel Mercato, e il tribunale insediato in Monte Oliveto, saliva la forca, fuori porta Capuana, a di’ 13 luglio, Nicola Carlomagno, nato in Lauria il 1762, avvocato: a lui non potevano perdonare essere stato, più che membro della municipalità, uno de' commissari della Giunta di polizia. Godeva pubblica stima di uomo probo e benefico. Abbandonava madre moglie figliuoli, nella indigenza. E finiva (scrive il Marinelli), gridando aJ popolo plaudente: «Verrà il giorno del rimorso e del pentimento!».

Nel pomeriggio del 14 ottobre, Felice Mastrangelo, di Montalbano, e Nicola Palomba, di Avigliano, tra' più ardenti, decisi repubblicani, sono tratti al supplizio. Entrambi erano andati, nelle province, commissari organizzatori, l'uno a Bari, l'altro a Matera; insieme avevano tentato, in Altamura, di fare argine al cardinal Ruffo: la legge dei vinti li affratellava nella morte. Era medico il Mastrangelo, già volontario nell'esercito francese, e lasciava impavido, a 26 anni, la vita: sacerdote il Palomba, zio di Francesco, non più giovane, perché nato nel 1746, ma come un giovane, impetuoso e fantastico. Sotto il patibolo (narra il Lomonaco), al commesso del fisco che gli sussurrava di essere ancora in tempo per rivelare i complici, «vile», rispondeva forte il Palomba, «io non so comprare il capo con la infamia!». Pochi giorni dopo, il 29, la stessa sorte incontrava un luminare, Mario Pagano. Basta alla gloria della nostra provincia il nome insigne del giureconsulto di Brienza. Di fronte alla storia contemporanea d'Italia, Mario Pagano rappresenta, nell'ordine intellettuale, la scienza nuova, nell'ordine civile, il culto alla libertà, nell'ordine morale, la integrità. Visitando, come io ho fatto, la vota sua casa paterna, appollaiata sotto il castello baronale che ora cade in rovina, l'animo è compreso dalla più tenera, profonda emozione; il pensiero che ivi nasceva, da un povero notaio, l'8 dicembre del 1748, chi tanto scosse fra noi l'edifizio feudale del medio evo, il quale pareva dovesse pesare immobile su la terra, suscita nel cuore l'alito di un fervore intimo, religioso. Perché quell'uomo, che primo fra noi volle riformate e norme e regole e leggi sociali, era estremamente buono, infinitamente semplice. «Non ho sposato», egli scriveva nel 1787, «se non il partito della verità, non ho altro interesse se non il pubblico bene. Il filosofo, che dal suo umile gabinetto osi levar la mano coraggiosa contro il pregiudizio o contro la opinione dei secoli, deve sapere, che negli schiavi dell'abito e della imitazione troverà sempre i suoi dichiarati nemici». E nella prima adunanza del Comitato di legislazione, il 17 febbraio del 1799, egli diceva, e il «Monitore» di Eleonora Pimentel Fonseca riportava, che «i cittadini di un paese libero non potrebbero mai dirsi pienamente liberi, finché l'amore e il disinteresse non avessero estirpato dai cuori l'egoismo, e purgato l'animo da tutte le vili passioni che ne derivano». Dinnanzi a' giudici, incitato per ischerno a difendersi, con alterezza rispose: «Mi difende la capitolazione». Condannato al capestro, non diede segno di odio, non di paura, e usci dal «confortatorio», insieme con Domenico Cirillo, placido quale era vissuto, puro, innocente. Fu pianto da tutta l'Europa colta e civile. «Non si potrà dir peggio dell'età nostra», esclamava Carlo Botta, «che un Mario Pagano sia morto su le forche!».

E su le forche morivano, il 12 dicembre, due altri comprovinciali, chiari nelle lettere, miti nella indole; tutti e due pubblici insegnanti di matematiche, membri del Consiglio municipale: Michele Granata, preposto dei carmelitani, nato in Rionero il 1748, Nicola Fiorentino, nato in Pomarico, di agiata famiglia, il 1755. «Fu Niccolò Fiorentino (ricorda il Colletta) dato a' birri, che stringendo spietatamente le funi e i ceppi, tante piaghe lasciarono sul corpo quanti erano i nodi; ed egli tornato in carcere, narrando a noi que’ fatti, soggiunse, misero e veritiero indovino, che ripeterebbe fra poco que’ racconti a’ compagni uccisi».

L'anno, e quale anno!, si chiude in Matera — il 30 dicembre — con la esecuzione capitale, ob perduellionis crimina, di un prete cinquantenne di Tolve, Oronzio Albanese. Di quale speciale delitto fosse accusato dinnanzi alla regia Udienza, ci è ignoto: forse, come io sospetto, per aver guidato i repubblicani all'assalto di San Chirico Nuovo. Ma la voce pubblica, incontestata e indiscussa, la tradizione unanime della sua dottrina e del suo patriottismo lo mettono tra' memorandi, che la morte fece sacri.

Ci è noto, invece, di quale imputazione politica rispose in Napoli, con la vita, il 1° febbraio del 1800, Cristoforo Grossi, di 28 anni, praticante chirurgia nell'ospedale degl'Incurabili. Tanto allo insorgere de’ «lazzari» il 21 gennaio quanto all'irrompere de’ «sanfedisti» il 13 giugno, su l'alto di quell'ospedale fu costruita una batteria a difesa. E denunziato il fatto (scrive Guglielmo Pepe), dei giovani che l'avevano servita, il Grossi e un siciliano, il Pucci, come già prima un sannita, il Varanese, ascesero il patibolo. Orfano di un benestante di Lagonegro, a lui spettò l'onore — ultimo della eletta — di chiudere degnamente la serie de' nostri màrtiri del 1799.

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