La rivoluzione del 1820, scoppiata il 2 luglio per effetto di una congiura militare, lasciò tranquilla la nostra provincia. Ma la rotta di Antrodoco, avvenuta l’8marzo dell'anno seguente, e la subitanea inattesa restaurazione degli ordini assoluti, compiuta, contro la fede giurata, dalle baionette straniere, ebbero tra noi moti arditissimi di protesta, come in nessun'altra regione del Regno. Nell'avvilimento generale, pochi non disperarono della patria; e fra quei pochi, in prima linea, due nostri affiliati alla «carboneria», Domenico Corrado, potentino, e Giuseppe Venita, ferrandinese: di 40 anni il primo, di 43 il secondo.
Mentirebbe la storia se li dicesse immuni d'ogni taccia, d'ogni censura. Erano uomini dalle passioni violente, di spiriti irrequieti, la fantasia accesa e più forte della ragione; tutti e due, l'uno per causa di onore, l'altro per accecamento d'ira, già corsi, pur troppo, al sangue... Ma essi potevano, e non vollero, piatire grazia o trovare scampo nell'esilio: potevano, come tanti altri, rifuggire dall'impresa disperata di lavorare a insorgere, comunque, anche in pochi, a ogni patto. Fu una follia, la loro; ma una generosa follia, che essi scontarono col sangue e suggellarono con la miseria, con la perdita de’ loro più cari. E il cuore umano non è ancora così insensibile da negare una lagrima, un palpito di tenerezza alla loro memoria!
Perché, «o signori, non è credibile la ostinazione, con la quale essi mossero incontro al destino. Le Corti marziali, già formate; i decreti di morte per i cospiratori e gli scorridori a mano armata, già pronti; gli austriaci, già accasermati in tutte le province del Regno: pubblico, universale il terrore. Eppure que’ due, allora appunto, tentano l'impossibile, prima dandosi, con lena affannata, a ricostituire «vendite», a risollevare gli animi abbattuti, poi, messi al bando, buttandosi alla campagna, — il Corrado solo, il Venita col fratello Francesco, di quattro anni maggiore, e col Giusti, palermitano, già de' cavalleggeri ribelli di Monteforte. Sono ricchi, hanno larghe parentele e più larghe aderenze, noti per il loro singolare coraggio, per il comando già da essi esercitato, durante il governo costituzionale, nelle milizie provinciali. Vanno su e giù, alla macchia, sempre profughi, sempre inseguiti da guardie e da gendarmi, finché, sopravvenuto l'inverno, il Corrado si ricovera nel Melfese, i Venita nella valle dell'Agri, ove, a un tratto, sorge loro incontro una delle più forti austere tempere, che la nostra storia rammenti, Carlo Mazziotta, — credente più di loro nell'ideale della riscossa.
Il Mazziotta era nato in Calvello, il 31 agosto del 1789, da umili genitori. Era medico, viveva felice, sicuro del domani. Nessuno più di lui pareva alieno da ogni avventura, da ogni temerità, nessuno più contrario a mettere in pericolo la quiete di casa propria. E invece quell'uomo, nell'ora novissima, muove segretamente per Napoli, e il 12 dicembre del 1821, come se preso dalla vertigine, dà il nome al Comitato centrale di organizzazione della Lega Europea, «intenta (sono parole testuali) a dirigere i comuni sforzi della nazione alla libertà e alla indipendenza d'Italia». Ivi ottiene, quasi a titolo di onore, il mandato espresso d'inculcare — egli — tra' suoi, il dovere, la possibilità dell'azione, di prenderne, occorrendo, la immediata iniziativa. E rimpatria sereno, tranquillo, con l'emblema, che doveva perderlo, della fenice tra le fiamme e l'arcano motto: post fata resurgo. Calvello e Laurenzana, grazie a lui, si trasformano in due centri d'insurrezione, e i fratelli Venita, mediante i suoi offici, vi trovano, a vòlta a vòlta, cura, rifugio, amorevole fratellanza. — Sono noti gli sconsigliati impeti del 3 febbraio 1822 in Laurenzana, del IO in Calvello, che tutto rovinarono; e per ciò mi taccio. Ne è cenno quanto basti nella magistrale opera di Giacomo Racioppi (), che molte province ci invidiano.
I fratelli Venita riescono a fuggire, ma il Carlo Mazziotta, per la infamia de' pochi e la viltà de' molti, è arrestato; in sua casa è trovata una lettera di Francesco Venita, che diceva: «Mi si assicura che la organizzazione è completa in Catanzaro, bene avviata a Reggio e a Cosenza. Ho buone notizie dagli Abruzzi. Spagna spinge l'opera, e noi dobbiamo, anche a prezzo della vita, essere pronti per i primi». Erano su l'orlo del precipizio, e sognavano cosi! Io ho letto molti processi celebri, ne’ quali non è poi tutta quell'audacia di parole, quella padronanza di sé, di cui la leggenda copre molti e chiari nomi. Ma nel processo di Calvello, imbastito lì lì sul posto dalla Corte marziale, col fine aperto — non dubbio agl'imputati — di dare esempio di rigore e di severità; in que´ brani del processo, che ancora avanzano, io ho letto, commosso, gl'interrogatori segreti di Carlo Mazziotta, e posso dirvi sicuramente, che nessun uomo ha mai conservato, dinnanzi a' giudici, più alta la dignità del cittadino. Tacque, ostinatamente, freddamente, di tutto e di tutti, pur sapendo di giocare il capo, di soccombere, forse, sotto la infame denunzia di assassinio: non difese sé dalla imputazione di avere ospitato i fuorusciti se non col rispondere, semplicemente, che, per lui, le leggi della ospitalità erano sacre. Altri, non lui, diede avviso delle tracce de' Venita. E questi, cacciati innanzi come belve feroci, còlti dal nevaio nel bosco di Pietrapertosa, furono, di lì a poco, scovati da un drappello di austriaci, comandato dal sottotenente conte Schònburg di Vienna. E ricondotti a Calvello, e messi insieme con i compagni, tutti accusati «di scorreria a mano armata col fine di cambiar la forma di Governo», la sera del 12 marzo la Corte ne condannava nove alla fucilazione, — fra' quali il prete Eustachio Ciani, di 43 anni, e il custode del castello Giuseppe La Rocca, di 34, amici del Mazziotta e per amor di lui ricettatori de' Venita. Caddero tutti nove, alla presenza di muta calca di popolo, «intrepidamente», com'è scritto ne' rapporti riservati della polizia: e il Mazziotta lasciava moglie e due teneri figli in estrema necessità! Non so più quanti altri ebbero l'ergastolo. I due delatori, la deportazione.
Sorte meno crudele toccò a' processati di Laurenzana, due dei quali vennero dannati a morte, e qui, in Potenza, moschettati il 10 aprile: Giuseppe Cafarelli, possidente, di 34 anni, e Leonardo Abate, artigiano, di 26. Ad essi tenne dietro, tre giorni dopo, ultimo della schiera, Domenico Corrado, — anch'egli incolpato «di cospirazione politica». Ferito e feritore in uno scontro con la guardia civica presso Genzano, da cui scampò per miracolo, era stato sorpreso, solo e giacente, in una grotta delle murge di Gravina: la febbre lo aveva domo e prostrato. L'ispettore di polizia, nella stessa ora in cui il piombo squarciava il petto al Corrado, scriveva al ministro in Napoli: «nell'essere il reo trasportato dalle carceri alla cappella, — ha dovuto battere buona parte del paese, e per le strade c'è stato molto allarme, perché egli rimproverava acerbamente molti che incontrava, e arrivato sotto l'abitazione del Sindaco, ha gridato: Vado a morte da uomo d'onore e sono un patriota. Giunto nella cappella, ha seguitato a minacciare, senza mai pensare all'anima. La famiglia, per ordine del comandante la gendarmeria, era stata allontanata dalla città».
Misera, vana mostra di compassione, che il pietosissimo caso di Leonardo Nigri, giovane gentiluomo di Palmira, doveva — di lì a sei anni — solennemente smentire! Terribili scene di sangue, per annose implacabili inimicizie di famiglie borghesi, avevano, a di 20 marzo 1821, gettato il lutto in Palmira. Ma giustizia era stata fatta e la calma pareva ritornata negli animi, quando l'autorità della provincia, mossa da antico astio politico, credette dover imporre al magistrato il proseguimento della istruzione penale. Su lo scorcio del 1827, in aperta opposizione al decreto di amnistia, fu spiccato mandato di cattura contro tutti indistintamente i liberali di Palmira, imputati, non più di violenza, ma «di guerra civile». Nella sera del capodanno la gendarmeria arriva al galoppo da Potenza, sorprende il paese e, per la prima, circonda la casa de' Nigri, chiedendo di Lorenzo, primogenito di quattro fratelli orfani del padre. Quegli, inerme, si dà alla fuga. I soldati, tutti insieme, fanno fuoco, lo feriscono e lo raggiungono; ma uno di loro è, del pari, mortalmente colpito. L'evidenza non è dubbia: nessuna prova, nessun indizio, nessun elemento di colpabilità per il Nigri. Ma la gendarmeria non poteva, non doveva confessare il proprio fallo: le bisognava un capro espiatorio, e Lorenzo, consegnato — illegalmente — al Consiglio di guerra del presidio provinciale, in funzione momentanea di Commissione militare, è passato per le armi, brutalmente, qui in Potenza, l'11 marzo del 1828. Aveva 25 anni: era stato, nel 1821, delle legioni di sicurezza interna, e non egli né i suoi si erano macchiati delle vergogne dei conterranei. La madre, la quale non sopravvisse se non di otto giorni alla morte del figlio, invano aveva implorata grazia dal re, protestando alteramente contro «la cieca iniqua vendetta»: la supplica non fu fatta neppure giungere a destinazione. Innocente lo proclamò, e subito, e fin che visse, l'onorando suo confessore, canonico Pietragalla. Giuseppe D’Errico, nel 1848, pubblicamente ne compianse la memoria. Dopo il 1860, nella prima costituzione de' corpi locali, il fratello Giorgio venne eletto, alla unanimità, vice-presidente del Consiglio provinciale. Oggi il suo nome, evocato dall'ingiusto oblio, rivive su queste tavole del nostro riscatto.
Storia de’ popoli della Lucania e della Basilicata
, Roma, 1889, vol. 2, p. 291.