I percorsi di Giustino Fortunato

date

24-09-1902

author

Fortunato, Giustino

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L'On. Zanardelli a Melfi, parte I - L'attesa a Melfi

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  • Fa parte di: "Pagine e ricordi parlamentari", vol. II, Bari, Laterza e Figli, 1920, pp. 202-206.

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L'ATTESA A Melfi

Melfi, 22 (Severus). Pare che l'on. Zanardelli giungerà qui il 26, sul tardi.

Nel programma del viaggio è fatto al circondario di Melfi picciol segno d’onore. In una sola giornata il venerando vecchio, come se la fatica dei giorni innanzi fosse poca, dovrà partire da Matera, accoglier voti e auguri a Palazzo San Gervasio, salire a Venosa e trattenervisi qualche ora; accettare, nella lugubre valle di Santa Venere, gli omaggi delle rappresentanze di Avellino; scender quasi di sera a Melfi; e di qui, apparendo pel tempo strettamente indispensabile d’un banchetto, fuggire a Rionero. Un programma da sfibrare le più gagliarde tempre, e un programma in cui la notte, consigliera di riposo, dovrebbe far vedere e studiare i bisogni nostri…

Del resto, ciò è apparentemente giusto. Noi abbiamo fama di essere il Circondario più prospero della Basilicata. Il Vulture, sogno di poeti e d’artisti, è fin quasi alla vetta, ricco di castagni, di pampini e d’olivi; e la campagna, punteggiata di ville e di casette bianche, dà l’impressione di una straordinaria floridezza. Di che cosa avremmo bisogno noi, che, anche prima del ’60, avevamo una completa rete stradale, e ora i ridenti paesi, sparsi sulle pendici del monte meraviglioso, vibrano ai sussulti delle ferrovie ofantine?

Eppure anche qui l’emigrazione cresce spaventosamente, mentre essa ha quasi spopolato l’alto Melfese: Ginestra è quasi deserta.

Da Rionero, da Ripacandida, da Barile, da Rapolla, da ovunque parton torme d’emigranti, ai quali le ferrovie servono di più facile tramite al triste esilio. Anche Melfi sente il vuoto che le si fa d’intorno, e il suo tribunale segna, tra gli affari di maggior momento, le espropriazioni.

Non certo la soluzione del grande esaurimento economico della provincia dipenderà da una ferrovia di più o di meno: noi ne siamo l’esempio, per quanto grande sia la riconoscenza agli uomini, che ce la procacciarono. E questo io dico, non perché le giuste aspirazioni delle altre contrade siano impedite, se è vero, com’è, che alla Basilicata non venne fatta equa parte dei comuni benefici; ma per persuadere che la grande auto-suggestione, che le vie possano colmare gli stenti della fame, sia corretta dalla dura esperienza nostra. È precisamente per altre vie, e principalmente mercè un radicale mutamento del sentimento di responsabilità delle classi dirigenti che la Provincia potrà conseguire quel benessere, il quale non può dipendere da provvedimenti, più o meno esili, dello Stato, ma dalla sola virtù nostra.

Perchè è bene confessarci in pubblico, una buona volta.

Dal 1887, dall’anno della infausta legge forestale, noi abbiamo divelti dalle nostre colline e dalle nostre valli ben 173.000 ettari di boschi. Un indomito ciclone di cupidigia e di dissipazione imperversò per anni su queste contrade, che avevano il culto dei boschi e degli armenti, e che inviavano a Roma imperiale le famose (lucanichae). I prezzi alti del legname e quelli, per discreto numero di anni, ancora più del grano, suscitarono quassù la febbre delle dissodazioni.

Che cosa abbiamo fatto a favore di questa terra così prodiga? In quale forma abbiamo restituite ad essa, sia pure in parte minima, le ricchezze che ci offerse? Nessuna. Un confronto doloroso si ha in un paese, che io conosco davvicino. Mentre una società provvida e coraggiosa costituisce colonie agricole, che associa gl’istrumenti di lavoro e di produzione, e fa il benessere suo e dei coloni, accanto è la interminabile distesa di terre feudali, un dì ricche di alberi, ed ora squallide: una distesa, in cui domina ancora la servitù della gleba.

Dal sogno di grandezza ci hanno risvegliato i paesi minacciati da frane per gli avvenuti disboscamenti, l’emigrazione che ha prodotto il fenomeno unico della diminuita popolazione in confronto al censimento del 1881, il turbato corso delle acque, l’accresciuta malaria, l’abuso del credito bancario, e un enorme debito ipotecario. E quella sfrenata cupidigia della dissodazione ha colpito, e crudamente anche, e più di tutte, la media proprietà, che pure non ebbe o ebbe scarse colpe. Essa, che a Rionero, a Barile, a Ripacandida, a Venosa, a Melfi, e via via, aveva specializzata la coltivazione del prezioso agliànico, e fatto tutto il poter suo per secondare i precetti della scienza agraria, si dibatte da anni in angosce senza nome, e già comincia a spiantare i vigneti per la incostante vicenda della stagione. I disboscamenti, il Santilli, ne hanno profondamente turbato l’equilibrio.

Quando io penso che questa serie di malanni si presta alla piccola guerricciuola contro i deputati, che non avrebbero visto, quando era necessario vedere e provvedere, e si condensa in una questione di strade, le quali avrebbero aperto il traffico a ciò che non ci è, posso spiegare il fenomeno, troppo solito nella vita locale; ma veggo che codeste querimonie sono ben lontane dall’avviarci a quell’alta coscienza dei doveri sociali, che si dee imporre, non solo agli uomini che hanno pubblici uffici, ma principalmente a chi dee render conto, se non dell’origine delle ricchezze, del modo come le usa. Purtroppo però il criterio della rispettabilità, della influenza, e del resto, sta nell’ «avere».

Un possidente che «vive di rendita», e non sappia far altro che questo, regola il buono e il cattivo tempo.

Vi sono, è vero, nobili eccezioni e apostoli di riforme agrarie, ma sono non numerose e senza seguito.

E accade che questa ottima gente, spesso indebitata, è quella che chiede che lo Stato lo condoni, o quasi, i debiti che essa ha col credito fondiario… Col medesimo diritto, e forse con maggiore giustizia, il piccolo possidente, che ha debiti ipotecari privati al 12 per cento oltre l’imposta, potrebbe chiedere uguali favori, senza dare per nulla la speranza, che ciò gli faccia nascere l’amore della terra e l’aborrimento dell’assenteismo!

Più che una lunga serie di provvedimenti, ai quali è vano sperare, sarà bene che si condensi il chiedere nel ristorare le sorti dell’agricoltura, mediante il credito a mite interesse e a lunga scadenza, oltre le giuste esigenze delle contrade prive di viabilità.

L’emigrazione, in Basilicata, non è un fenomeno che si colleghi alla scarsezza delle mercedi; anzi, queste sono comparativamente alte. Dipende dall’esaurimento della terra. Data l’uniformità della coltura estensiva, il lavoro mercenario non è costante; e perciò il contadino, che è anche piccolo colono, diserta le terre ingrate, e anche, in certi punti, fugge dalla oppressione usuraia.

Questa povera stirpe di mandriani, che potè vivere nei tempi andati custodendo le greggi, ora non ha nè greggi nè terre.

Ed io non vorrei che ci si paragonasse ad un padre scioperato che, dopo aver dato fondo alla sua fortuna, mandi innanzi i figli cenciosi perchè prendano i soldi dai viandanti…

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