I percorsi di Giustino Fortunato

date

1904

author

Raffaele Cammarota

title

Una gita a Monticchio

summary

bibliography

  • «Il Lucano – Giornale Politico Amministrativo», Potenza, a.XII, n.427, 17-18 settembre 1904, pp. 2-3.

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Caro Corbi,

Aderisco al tuo desiderio, narrandoti la gita che il collega Villamena ed io facemmo a Monticchio nel 18 passato mese di agosto.

Prima di partire da Potenza avevamo chieste ad alcuni amici che erano stati o che dicevano di essere stati a Monticchio, informazioni sulla via più comoda da percorrere: ma, poichè i pareri degli uomini sono sempre difformi, non riuscimmo ad avere suggerimenti sicuri, avendoci alcuni detto che era meglio andare per Rionero o per Melfi, altri invece che era meglio scendere alla stazione di Monteverde, ed altri ancora che era più comodo proseguire fino alla stazione di Monticchio.

Fra tanti dispareri, ritenemmo prudente fornirci del biglietto ferroviario fino alla stazione di Monticchio.

Però fortuna volle che per via c’incontrassimo con l’Ingegnere Pietro Bevilacqua e col dottore Vincenzo Andretta di Melfi, i quali, essendo pratici di quei luoghi, ci consigliarono di scendere invece alla stazione di Monteverdi, come quella che distava qualche chilometro appena dai bagni di Monticchio.

Che anzi il dottore Andretta venne con noi fino alla stazione di Monteverde, facendoci grata e sapiente compagnia. E dico sapiente compagnia, perché ci fornì gentilmente di pastiglie di chinino, come mezzo di prevenzione contro la malaria che infesta quei luoghi attraversati dall’Ofanto.

Dopo circa due ore di fermata coatta alla stazione di Monteverde, per aspettare che la pioggia impetuosa, che si scatenava sulla terra con inaudito furore, fosse cessata, il gentile dottore Andretta nostro duce e maestro ci accompagnò per parecchie centinaia di metri costeggiando l’Ofanto, che la pioggia aveva terribilmente ingrossato, fino al pittoresco mulino da cui si scorge il vetusto ponte di Pietra dell’Olio dell’epoca romana.

In quel punto la tradizione vuole che molto tempo prima dell’era cristiana fosse precipitato nell’Ofanto un tale Pietro insieme ad una mula carica di olio, e di qui il nome Pietro dell’Olio dato al Ponte.

Vera o non vera tale tradizione, il meraviglioso è come un ponte che rimonta a tempo imprecisato dell’epoca romana, resista ancora alla perenne forza corroditrice delle acque ed alle ingiurie dei secoli.

Dal mulino di Monteverde si parte una comoda strada carreggiabile che attraversa buona parte della immensa tenuta di Monticchio, lasciando alla sua destra la pittoresca, e, ad un tempo mortifera valle dell’Ofanto.

A misura che si saliva si scovrivano allo sguardo nuovi orizzonti e nuove bellezze della natura, e intorno ondulazioni di terreno coronato da piante di frutti selvatici in mezzo alle quali cresceva rigogliosa la vite e il granturco. E, dico cresceva, perchè ahimè, pochi minuti prima la tempesta aveva tutto distrutto!

E che tempesta! Alberi divelti dal suolo, frutta ed altri prodotti disseminate dalla forza dell’acqua nei solchi e sulla strada; viti abbattute dal vento e qua e là banchi di ghiaccio formati dalla stratificazione della gragnuola.

Al di sopra però di questa zona colpita dalla sventura, la natura sorrideva in tutto il suo splendore.

Ridenti case coloniche sparse qua e là, e costruite con tutte le esigenze moderne, biancheggiavano in mezzo al verde della foresta – e pei sentieri e per le strade carri tirati da giganteschi buoi o da variopinti asinelli, e un brulichio continuo e festante di gente allegra che ti ricordava il Sabato del Villaggio dell’immortale Leopardi.

Affaticati dal cammino in salite, in mezzo ad una fredda nebbia che penetrava nelle ossa, ma non sazii di osservare, giungemmo finalmente alle sorgenti delle acque minerali, in mezzo alle quali sono costruite le case adibite ad abitazione pei bagnanti.

Ivi ristorammo le nostre forze in una osteria, tenuta decentemente da una simpatica coppia di coniugi milanesi, che non ci lasciarono nulla a desiderare.

Alla dimane, dopo di avere visitata la gran vasca dei bagni ferrati, in mezzo alla quale naturalmente zampilla un tiepido gorgoglio di acqua ferrata, e dopo di avere minutamente osservati i camerini pei bagni a doccia e le abbondanti sorgenti delle acque acidule a magnesio che si disperdono per la immensa cresta della montagna, fummo attratti dalla vista di uno spettacolo degno di minuta osservazione.

Ai piedi di una roccia frastagliata per la quale filtrano acque minerali, spuntano delle grosse radici di alberi coverti di muschio variopinto.

Tocchiamo colle mani queste radici: esse sono dure come la pietra.

Le incrostazioni dei sali minerali le hanno cristallizzate, ed anche il variopinto musco forma un solo corpo con esse.

Ci allontaniamo da quella roccia, e dopo aver percorso un lungo tratto di strada rotabile fiancheggiato da piante ombrellifere, da castagni e da nocelli simmetricamente piantati con sapiente cura per una immensa estensione di terreno, giungiamo ai laghi di Monticchio.

Sono due laghetti, il primo di forma quasi ovale e della circonferenza di circa tre chilometri, dall’acqua cristallina e leggermente increspata, sulla cui superficie scintilla il sole in mille guizzi di luce.

Gli alberi del bosco che lo circondano da un lato si riflettono in quelle onde cristalline con un effetto di ombra e di luce sorprendente.

Più in su, a poche decine di metri di lontananza giace l’altro lago, più piccolo del primo, di forma quasi rotonda, circondato in gran parte da folto bosco. Nel centro della collina s’innalza a picco sulla riva del lago il magnifico monastero di S. Michele, che si specchia in tutta la sua magnificenza nelle onde sottostanti.

In questo monastero risiede colla sua famiglia il simpatico ed ospitale cav. Rocco Buccico, che, colla sua inesauribile attività e grande competenza, ha saputo, trasformando la coltura in quella parte di Monticchio che è sottoposta alla sua amministrazione, darle un indirizzo razionale e moderno.

Accanto al monastero sorge la chiesa di S. Michele, alla quale nel giorno della festività accorrono numerosi i fedeli della provincia di Foggia, di Avellino e da molti paesi della Basilicata.

È una chiesetta di piccole dimensioni che s’interna sotto le piante del bosco e la cui volta, che si regge per virtù di statica, è costituita da una dura e grigia roccia scavata nella montagna.

Ad uno dei lati della chiesetta s’innalza il piccolo campanile, nel centro del quale, in alto, pende una campana.

Vuole la tradizione che questa campana, suonata, avesse le virtù di mandar figli alle donne sterili.

Attraverso ai secoli chi sa quante belle donnine d’oltre monte e d’oltre mare vennero sotto alla campana e fissarono gli occhi amorosi in quel batocchio, ahimè purtroppo incapace a fecondare il loro seno!

Usciti dalla chiesa e girata la incantevole sponda del lago piccolo tornammo alla riva del lago grande e, saliti su di un’agile barchetta, scendemmo sulla sponda opposta.

Alla dimane, e prima far giorno, sulle cavalcature gentilmente forniteci dalla cortesia del cav. Buccico, facemmo l’ascensione del Vulture.

Descrivere le meraviglie che si presentano allo sguardo di chi sale su quella vetta, che costituisce un punto isolato e centrale in mezzo allo sterminato orizzonte, è cosa assai difficile.

Di là si vedono una infinità di paesi. Di là si vede il mare. Di là dicono che con un buon canocchiale si scorga anche il pennacchio del Vesuvio. Noi però non l’abbiamo visto, forse perchè il cielo non era troppo limpido o i nostri binocoli non erano di lunga portata, o forse anche perchè non si può vedere.

Dopo mezz’ora di continua contemplazione scendemmo da quella superba vetta e, finchè gli alberi e la strada ce lo permisero, il nostro sguardo fu diretto sempre ai due laghetti, alla parte più bella di Monticchio, a quei due lucenti specchi di acqua che sono come gli occhi della incantevole tenuta.

Poi quei due occhi sparvero e con essi l’incanto di Monticchio. Eravamo già sulla deserta e polverosa via che dal Vulture scende a Rionero.

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