I percorsi di Giustino Fortunato

date

1875

author

Riccio, Luigi

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Escursione al Vulture

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  • Bollettino del Club alpino italiano, anno 1875, N. 24, Torino, pp. 329-332.

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Pregiatissimo signor Baretti,

Debito di ogni sezione del Club Alpino è lo studiare le montagne della propria circoscrizione. In tutta Italia, da Aquila ad Aosta, trenta e più sezioni, con quasi tre mila soci, hanno per loro campo di studio il medio e l’alto Appennino e i versanti italiani delle Alpi. A questa nostra sezione napoletana, co’ suoi 170 soci, incombe invece lo ascendere e il descrivere man mano le grandi giogaie e i principali monti dell’Appennino inferiore, dalla Majella d’Abruzzo alla Sila di Calabria. Fra questi, senza dubbio, principale e importante è il monte Vulture, ed al Vulture adunque, come per gita ufficiale della nostra sezione del quinto anno di sua vita, mossero da Napoli, a dì 6 maggio, dodici alpinisti napoletani.

Abbiatevi sotto gli occhi, dice il Tenore, la carta delle provincie napoletane, dividetene in due parti uguali il suo più lungo diametro dal Tronto al Capo d’Armi, fate che venga a tagliarlo l’altro diametro più largo da Napoli a Bari, anche in due parti ugualmente diviso, nel luogo della intersezione voi troverete il Vulture. Due strade fanno capo a questo antico vulcano estinto, l’una pel versante tirreno, l’altra pel versante adriatico.

Noi preferimmo la seconda non solo perchè più agevole, ma anche perchè invitati cortesemente de’ nostri soci, signori Lops, a visitare uno de’ più mirabili monumenti dell’Italia meridionale, qual è appunto Castel del Monte in provincia di Bari.

Difatti al mattino del 7, giunti colla ferrovia a Barletta, ci recammo dapprima in un vigneto tra Andria e Corato a vedere il Campo de’ Tredici, dove fu combattuta la nota disfida fra italiani e francesi; una lapide ivi posta nel 1583, ricorda tuttora quella gloria nazionale. Al tardi poi andammo a Ruvo in casa del nostro socio signor Jatta, e potemmo ammirarvi la più completa collezione che ci sia forse in Italia di vasi italo-greci.

Il giorno seguente fu tutto impiegato nella visita di Castel del Monte.

Fondato nel 1235 da Federigo II, il quale vi si recò spesso a ritemprar la mente turbata dalle lunghe lotte sostenute co’ papi, lo svevo monumento s’erge maestoso in cima a un colle su l’immensa piana del Tavoliere di Puglia. Di forma ottangolare, ha ad ogni angolo una torre esagonale, e, per lo passato, fu casa di caccia, fu fortezza, fu prigione, fu palazzo di delizie, fu asilo di banditi… Ma ora, a guardarlo com’è, profonda pietà arreca all’animo del visitatore! Il pianterreno e il primo piano son ricovero di vili bestie; tutto il resto dell’edificio è miniera di marmi e di pietre per gli abitatori de’ dintorno. Veramente, non è missione del Club Alpino di richiamare la pubblica attenzione su le antichità di cui è cosparso il bel suolo d’Italia. Pure nel forte cuore dell’alpinista vibra potente l’amore della patria e delle sue sacre memorie, epperò la presidenza della sezione di Napoli, facendosi interprete di un così nobile sentimento, ha già rivolta domanda al ministro della pubblica istruzione perchè il governo acquisti una buona volta e conservi dall’ultima rovina Castel del Monte.

Alle 3,30 del dì 9, con tre carrozze e in meno di quattr’ore, si giunse a Canosa; dove, nella breve fermata, avemmo l’agio di ammirare il duomo e la tomba di Boemondo d’Antiochia. Ripreso il cammino dopo tre ore si fece sosta di bel nuovo a Gaudiano, a metà di Val d’Ofanto, in un podere de’ nostri soci, fratelli Fortunato. Da quel momento diventammo ospiti del caro Ernesto; ch’ella ben sa, egregio professore, come in coteste provincie meridionali prima di mettersi in viaggio è mestieri aver tutto concordato con amici o conoscenti de’ luoghi che si vogliono visitare. Fatta colazione ripartimmo ad un’ora pomeridiana per Lavello, Rapolla, Barile e Rionero, ove arrivammo finalmente alle 7 di sera. Eravamo così alle falde orientali del monte Vulture, a 573 metri sul livello del mare.

Si presenta il Vulture da Rionero assai maestoso sopra ampia base, dalla quale s’innalza con dolce e pressochè uniforme pendio, e finisce in sette vette non tutte ugualmente distinte, ma le maggiori sono appunto le estreme, l’una denominata Pizzuto di Melfi, ch’è la più settentrionale, e l’altra più meridionale che dicesi Pizzuto d’Atella. Ben per tempo, al mattino del 10 maggio, ne incominciammo l’ascensione. Bellissima la giornata, bellissimo il panorama, e a noi napoletani rivedere le lave e le ceneri simili a quelle del Vesuvio, e la odorata ginestra, parve davvero come rivedere noti luoghi di cara conoscenza. In un’ora e tre quarti raggiungemmo la cime di Melfi, che di tutte è la più acuta e la più alta, elevandosi di 1,328 metri sul mare, e di circa 755 al disopra di Rionero; la sua posizione è a 40° 57’ di latitudine e ad 1° 22’ 49” di longitudine orientale dal meridiano di Napoli. Come in un teatro al mutare di una scena, così a un tratto cambiò d’aspetto a’ nostri occhi l’opposto versante dell’estinto vulcano. Da oriente ad occidente move un’aspra parete che va giù verso Foggiana, discendendo nel cratere fino alla Pietra della Scimmia; le sette punte formano una seconda e più aspra parete che si prolunga da settentrione a mezzogiorno, dechinando in più breve corso dell’istesso cratere. Le due pareti s’incontrano ad angolo retto al Pizzuto di Melfi, da cui lo sguardo spazia su vastissimo orizzonte, contemplando con lo stesso colpo d’occhio le due regioni, l’una montuosa e l’altra piana, da un lato cioè tutto il dorso dell’Appennino, e dall’altro gli spaziosi campi dell’Adriatico. Noi percorremmo le sette punte da settentrione a mezzogiorno, e giunti al Pizzuto d’Atella cominciammo a discendere in senso contrario nell’antico cratere, traversando stupendi boschi di faggi dove in pien meriggio non s’era colti dal un sol raggio di sole. Raggiunta la Pietra della Scimmia avemmo ad osservare uno de’ più strani fenomeni che si possan mai vedere, quello cioè di alcuni strati di tufo vulcano malamente consolidati, inclinati da sud a nord e da ovest ad est, forati da un obelisco di lava vulcanica, il quale emerge per 30 metri sul lato ov’è maggiore l’inclinazione del tufo. È la lava che ha attraversato il tufo, od è il tufo che si è formato intorno alla lava? Ecco un problema degno di studio pe’ geologi.

Raccolte alcune rocce per incarico avuto dal professore Guiscardi, ci portammo finalmente a’ due laghi nel fondo del cratere che misura 680 metri sul livello del mare. Il più piccolo di codesti laghi è proprio ai piedi d’alte masse di basalti, tormentate da’ fuochi vulcanici, alle quali si addossa l’abolito convento di San Michele. Lo Scacchi ne trovò la profondità a metri 37, mentre un secolo addietro l’abate Tata ne contò 45.

Alimentato da sorgenti interne e da un ruscelletto, ha un diametro di circa 600 metri, e mette fuori le sue acque, per mezzo d’un canale, nel lago più grande che è profondo soli 16 metri, avendo un diametro di circa 900 metri. Dal convento di San Michele godemmo a lungo la scena meravigliosa che ci s’apriva dinanzi. Libera a settentrione avevamo a sinistra l’immensa boscaglia di Monticchio, un dì ritrovo e nascondiglio di briganti, e a destra tutta la valle superiore dell’Ofanto in provincia d’Avellino.

La vegetazione è ivi oltremodo rigogliosa, e tra gli alberi che formano l’estesissimo bosco, si notano per bellezza sorprendente il frassino, il faggio, l’acero, il carpino, il cerro, la quercia, il leccio, il castagno e il tiglio.

Alle 7 di sera eravamo di ritorno in Rionero, contentissimi di aver visitato uno de’ più importanti monti della nostra circoscrizione. Al giorno seguente rifacemmo in carrozza l’amena strada fino a Lavello, e, passato l’Ofanto al varco di Poggetto, fummo ancora in tempo alla stazione di Cerignola da muovere per Napoli col treno pomeridiano, tornando così in città dopo cinque giorni d’amenissima escursione, che noi tutti non dimenticheremo sì presto, tanto per le cose vedute, quanto pel ricordo della cortese ospitalità dataci da’ signori Lops e Fortunato.

Se la nostra sezione non ha dedicato al Vulture tutto lo studio che è solita rivolgere alle altre montagne dell’Appennino inferiore, ciò è dipeso dal fatto che il Vulture è forse fra tutti i monti dell’Italia meridionale il più studiato e il più noto. Primo ne scrisse il Tata, al 1777; ne scrissero in seguito il Brocchi, il Villa, l’inglese Daubeny, il prussiano Abich, il Tenore, il Gussone, il Fonseca e il russo Tchihatchoff; ne ha scritto il botanico Terraciano, e infine ne scrissero dottamente, a causa del terribile tremuoto che desolò il circondario diMelfi a dì 14 agosto 1851, i nostri due insigni soci onorari, professori Luigi Palmieri ed Arcangelo Scacchi.

Anche di Castel del Monte abbiamo qui a Napoli una recente ed accurata monografia dovuta a Giuseppe Aurelio Lauria.

E qui finisco, egregio professore Baretti. Togliendo intanto l’occasione per ricordarmi alla sua memoria, la prego di continuarmi la sua cara amicizia.

Napoli, 5 luglio 1875.

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