I percorsi di Giustino Fortunato

date

1933

author

Claps, Tommaso

title

Il castello di Lagopesole e una singolare leggenda su Federico Barbarossa

summary

bibliography

  • Archivio storico per la Calabria e la Lucania, anno III, Roma, 1933, pp. 461-471

teibody

Alla memoria di Giacomo Racioppi e Giustino Fortunato , primi insigni storici di nostra gente, che la terra lucana amarono d’intenso tenace purissimo affetto.

Anni or sono, a proposito di un interessante studio di G. Marcoccia intorno ad Alcune leggende dalmate su Diocleziano , ebbi ad occuparmi anch’io, brevemente, di una molto analoga e curiosa leggenda basilicatese su Federico Barbarossa, pubblicando una succinta nota, che giova qui riportare nella sua parte sostanziale.

Di dette leggende la più importante parve a me essere pure essere, senza dubbio, la prima dell’intero ciclo, sorto fin dal primo medio evo intorno al fiero persecutore dei Cristiani, il quale, com’è noto, trascorse gli ultimi anni di sua vita a Salona, dove si era fatto costruire l’immane palazzo, presso cui sorse poi Spalato: e, cioè, il racconto del tutto identico alla famosa favola del Re Mida, ch’ebbe origine nella Grecia settentrionale – in Macedonia, secondo Erodoto – e che si diffuse largamente presso quasi tutti i popoli d’Europa.

Come allora avvertivo, nessuno ignora, almeno nel suo schema rudimentale, se non nella poetica narrazione di Ovidio, il classico mito dell’avaro re della Frigia, che, chiamato arbitro nella gara musicale tra Pane ed Apollo, per punizione del suo giudizio in favore del primo, si vide di subito cambiare in asinine le orecchie. Tale vergogna, sebbene dal re tenuta rigorosamente nascosta, divenne palese, per avere il barbiere che lo radeva confidato il segreto alla terra, in una fossa, dove crebbero delle cannucce, le quali, mosse dal vento, ripetevano le parole dell’indiscreto. Nella leggenda dàlmata, però, oltre il nome del protagonista, che per ragioni storiche locali diventa il crudele imperatore Diocleziano, dalla cui ferocia vengono condannati a morte a volta a volta tutti i barbieri che vanno a raderlo, v’è aggiunto il gentile episodio della madre dell’ultimo e più giovane di cotesti umili servitori del tiranno. Per risparmiare al figliolo la triste sorte toccata agli altri, la povera donna pensò di apparecchiare una focaccia, impastata col proprio latte: e non appena il despota ne ebbe gustata una parte, vinto dalla pietà, volle non avesse rivelato ad alcuno il segreto della sua deformità, da costui del pari confidato poi alla terra e, secondo il classico mito, egualmente divulgato dal mùrmure delle canne ivi cresciute. Tranne cotesto episodio, lo stesso racconto costituisce il sostrato di una leggenda, che giovinetto io ho sentita più volte narrare da un caro ed arguto mio parente, il quale mi assicurava di averla colta in bocca ai contadini della nativa nostra Avigliano, del cui tenimento fa ora parte l’antico Castello di Lagopesole, già un tempo preferita dimora di Federico II, col popoloso villaggio sorto più in basso, non molto lontano dalla stazione ferroviaria omonima della linea Foggia-Potenza.

Questo Castello, per l’appunto, la tradizione popolare del luogo assegna a dimora dell’avo paterno del grande Federico, narrando che l’odiato Barbarossa, non mai, che si sappia, disceso fin quaggiù, vivesse ivi i suoi ultimi anni e che per nascondere la deformità a lui congenita, avesse ordinato che i barbieri, da cui si faceva radere, nell’uscire dalla stanza regale, venissero condotti per un corridoio ad un trabocchetto, appositamente scavato in una delle torri, dove erano a mano a mano travolti e rimanevano seppelliti.

Da simile tremenda sorte sarebbe riuscito a scampare soltanto uno, il quale si ebbe salva la vita a condizione di non svelare a persona il segreto, che peraltro non seppe rattenersi dal confidare alla terra, scavando un buco in una delle parti più remote della campagna circostante, donde la voce umana uscì tradotta nel fruscio delle canne che vi crebbero ben presto e che, agitate dal vento, ripetevano come un monotono il ritornello:

«Federico Barbarossatiene le orecchie dell’asinaaaa»!

Avevo per certo che una tale curiosa leggenda, per la prima volta da me raccolta, fosse soltanto l’eco della tradizione popolare e che di essa non potesse esser traccia alcuna nei vari libri da me allora consultati né tanto meno nei numerosi documenti antichi, amorosamente ricercati e pubblicati dal compianto senatore G. Fortunato, in appendice al citato esauriente suo volume sullo storico Castello, che per l’occasione io avevo riletto da capo a fondo. Non avevo avuto però cura di esaminare l’intero testo dei suddetti documenti, dei quali m’era parso bastevole allo scopo tener presente l’accurato sommario dell’Autore permesso in testa a ciascuno.

Avendo avuto poi occasione di scorrerli di nuovo e per intero, mi è avvenuto l’anno scorso di soffermarmi sul penultimo di essi, il LVI della raccolta, che porta la data del 18 dicembre 1530 e contiene la descrizione, che del feudo e delle sue rendite si fece al momento della confisca, sotto l’amministrazione dei beni dei ribelli. E, con non poca sorpresa, ho letto sul bel principio:

«Lacus Pesolus antiquo tempore erat terra satis conveniens suis partibus. In alto sita super quodam monte qui nomen habet a dicta Terra, nunc remansit solum quoddam Castrum a Federigo Imperatore Barbarossa, ut aiunt, continum satis pulcrum et magnificum si dirui non permicteretur.Muris optimis circum vallatum, suntque sex turres sen turriones optime muniti, duo in introito portarum dicti Castri, et quator in quator partibus dicti Castri admodum quadranguli facti. Itaque quaelibet pars habet nunc torrionem ad modum punctarum adamantinarum ornatissime facture, essetque fortissimum, et inespugnabile si fidos et sufficientes teneret custodes. Plurima tenet membra intus spatiosum et amplium cortilium. Habet Lacum proper qui dicitur «la fontana de lo Imperatore», et alius dicitur «la fontana de la Imperatrice».

Adunque, da questo importante documento risulta essere già viva, fin dai primi anni del secolo XVI, la tradizione popolare che attribuisce a Federico Barbarossa la costruzione del magnifico Castello in esso minutamente descritto, presso a poco quale anche oggidì si scorge «ancora in piedi, per opera sua propria, non certo per volere degli uomini», con la sua mole solitaria su cui «incombe il silenzio austero, solenne delle cose morte», con le sue fontane, che continuano a denominarsi dell’Imperatore e dell’Imperatrice; senza più, soltanto, il bel lago, così vagamente descritto dall’Arduini nel 1674, che s’era negli ultimi tempi ridotto «un vasto ricettacolo d’acque piovane – come tristemente lo definiva G. Fortunato, conchiudendo il suo classico studio – una gran pozzanghera acquitrinosa… fómite nell’estate di malaria», le cui opere di bonificamento, già nel 1901 classificate di prima categoria, vennero indi a poco quasi interamente compiute.

Certamente, il fuggevole surriferito accenno alla tradizione popolare, secondo cui il Barbarossa avrebbe addirittura costruita la magnifica mole, non conferisce alla medesima, se pur racchiusa in un documento ufficiale, neanche l’ombra di un qualsiasi fondamento storico. Come risulta dalla esauriente dimostrazione fattane dal senatore Fortunato nella succitata sua monografia ed è confermata dai più recenti studi di archeologi tedeschi (tra i quali in particolare modo l’Haseloff), che all’insigne compianto uomo non invano si rivolgevano per ogni notizia e chiarimento, il costruttore dell’imponente fabbrica – il più grande degli edifizi militari del grande Imperatore e dei meglio conservati, al dire del Bertaux – è senza dubbio Federico II, per cui volere, «alla precedente antica domus imperialis dovette (tra il 1242 e il 1250) succedere il Castrum Lacus pensilis, quale vediamo ora giganteggiare nella solitudine dell’antico valico ascheruntino, col villaggio che gli nacque ai piedi». La costruzione non dovette essere forse condotta a fine per i consigli di quel saggio e fedele suo giustiziario Tommaso di Gaeta, il quale, in una delle famose lettere dirette al Sovrano, così, liberamente, lo esortava: «I poveri non debbono essere oppressi da imposte per le numerose fabbriche fridericiane». In codesti luoghi è, però, da escludere che sia mai giunto o vi abbia, sia pur brevemente, dimorato il di lui avo paterno, Federico Barbarossa. Vi era stato bensì, in precedenza, secondo la non dubbia testimonianza di Falcone Beneventano riferita dall’on. Fortunato, l’Imperatore Lutario III, il quale nel 1137 fu indotto dal papa Innocenzo II a varcare le Alpi o scendere in Puglia contro Ruggiero Normanno e insieme col Pontefice, nel luglio di quell’istesso anno, lasciata Melfi si portò ai confini del territorio di Potenza «ibique, iuxta fluenta da Lacu Pesole, per dies fere triginta morantur», tenendovi plàciti, dispensando privilegi, giudicando e sentenziando come signore. Di un castello però non vi doveva essere ancora traccia, o si trattava se mai, di una piccola domus seu turris pheudalis, poiché e papa e imperatore alloggiavano fuori, nell’aperta campagna. E qui il Fortunato, maestro nel rievocare l’anima dei secoli e la melanconica poesia che lega gli uomini a tutto quello che è passato, s’indugia a descrivere imaginosamente quel che dovette apparire, nella stessa sera dell’arrivo, l’accampamento di Lagopesole, dove «le due maggiori podestà della terra sbalzate così da lungi su quel monte di Lucania, posavano vittoriose del ‘siculo tiranno’, che il titolo di re aveva usurpato contro il Vicario di Dio e contro Cesare»… Facevano corona al Papa i più alti dignitari, il patriarca d’Aquileja, l’arcivescovo di Pisa, tre cardinali… e l’abate di Chiaravalle, il celebre Bernardo… per fama di santità assai autorevole. E circondavano l’Imperatore la moglie Rachiza, il cugino Ottone di Brunswick, il genero Arrigo di Baviera e, fra gli altri, l’émulo suo stesso Corrado di Svevia , fratello del padre di Federico e quindi prozio del grande Federico, che tanto amò quei luoghi, e che vi inizio poi la costruzione dell’attuale Castello.

Però, che sia pure una piccola domus «fin d’allora esistesse, con pochi o punto abitanti propri, piccola casa campestre turrita o non come le consimili di Agromonte e di Montemarcone, o le altre di Cisterna, di S. Nicola dell’Ofanto, di Boreano e di Gaudiano» – tutte sparite senza lasciar vestigia alcuna – può ritenersi non già una semplice congettura, ma un fatto storicamente accertato. Invero, Lagopesole, detto Oppidum nelle Cronache dell’abate Telesino (morto dopo il 1140) – parola che significa più che un Castello – risulta, dal famoso Catalogo dei Baroni Normanni (formato tra gli anni 1154-1169), sotto la giurisdizione del Conte di Conversano; e feudo autonomo era ancora nel 1239, e solo nel 1250 venne incamerato al R. Demanio.

Secondo lo stesso diligentissimo storico della Valle di Vitalba, «il passo di Lagopesole dov’è, forse esser chiuso dalla via del Vulture, e munito di guardie, sino dall’epoca della guerra gotica» (ibidem, pag.11) e costituire probabilmente uno dei fortilizi di quel sistema di fortificazioni costruite non oltre il mille dai Longobardi di Salerno o dai bizantini del Monte Vulture, da Lagopesole a S. Fele, lungo l’Appennino, le cui opere di collegamento sono ancora visibili nelle mura di cinta del valico di S. Cataldo .

Ora, a cotesta antica torre feudale o fortilizio che fosse, per quanto non risulti compreso nell’elenco dei castelli dei quali G.A. Garufi ha diligentemente ricercata l’origine nell’accurato studio Da Genusia romana al «Catrum Genusium» dei secoli XII-XIII, inserito nel fasc. I, attuale volume, del nostro «Archivio» (pag.9 e seg.), deve per l’appunto ricollegarsi la leggenda da me raccolta. Essa è confermata dalla tradizione popolare, cui si richiama il documento sopra citato e della quale nella mia prima nota, sulle orme di un altro mio notevole studio, cercai di rendermi conto col sistema seguito dal filosofo greco Evèmero per spiegare la mitologia con la storia. E così si spiega anche, ed a più forte argomento, l’altra leggenda, in alcuni punti ad essa tanto rassomigliante, riferita per primo dal Bertaux nel suo famoso studio su I monumenti medievali nella regione del Vulture e riportata poi dal Fortunato, in principio del II capitolo del suo volume, la quale trova autentico riscontro nella tradizione del luogo, raccolta dallo stesso Fortunato, che ritiene il villaggio di Lagopesole poggiasse nella china del colle opposto a quella in cui è presentemente.

Di questa analoga leggenda non feci allora un particolare esame, essendomi parso bastevole, ai fini di quel breve articolo di divulgazione, il generico richiamo all’identico procedimento della fantasia popolare, che «affastella in uno i nomi e i fatti di migliaia di anni». Ma non è inopportuno riprodurne ora qui la trama, non essendo dubbio che si riferisca pure al medesimo Castello di Lagopesole, per quanto questo venga inesattamente chiamato di Firenzuola. Essa racconta di «un Andronico ivi mandato da Leonida re di Sparta, nella metà dell’ottavo secolo, a capo di un’orda di Musulmani». Colà si sarebbe annidato in un castello, da lui costruito in cima del villaggio, «mirabilmente forte, ricco, incantato, che riceveva acqua, mediante ascose condutture di piombo, dal prossimo lago, comunicava segretamente, per un lungo sotterraneo, con Agromonte, e aveva, giù nel torrione senza scala, un immenso trabocchetto, in cui il crudele masnadiero precipitava le vittime. Ed egli – il nemico di Dio – moriva decrepito, lasciando quella terra – paurosa minaccia per tutta la Valle di Vitalba – ai figli, predoni come lui, ai figli dei figli, ai più tardi nipoti, finchè, su lo scorcio del X secolo, non riuscì ai Longobardi di scacciarveli via, con frode, brutalmente, e di dannare ogni cosa alle fiamme, poi che Firenzuola erasi piegata a Maometto, rinnegando la fede di Cristo. Villaggio e castello rifece poi con altro nome – il nome di un isolotto pensile e mobile su le acque del lago – Federico II, quando egli affrontò e uccise i baroni congiurati».

Come è stato osservato «le leggende esaltano, gonfiano, deformano, ma di rado creano: da ogni bolla di sapone, che non par nulla, è pur dato ricavare una gòcciola d’acqua grassa e da un fastello di tradizioni sospette, si può ottenere, con la pazienza, un minuzzolo di verità».

Nel caso nostro, tale minùzzolo di verità mi sembra si possa ravvisare nello assunto che, o mi illudo, ritengo aver brevemente qui dimostrato, della preesistenza storica di un altro castello, costruito presumibilmente, anche prima dei Normanni, nello stesso luogo, o presso a poco, dove in seguito il gran Federico eresse l’attuale maniero. Siccome però gli uomini ricordano più i danni patiti che i benefici ricevuti e alle folle si raccomandano più facilmente i nomi dei tiranni e dei conquistatori, che quelli dei sovrani saggi ed illuminati; così non appare del tutto inesplicabile il fenomeno, pieno di profondo significato etnico-nazionale, che, presso le rudi popolazioni rurali di una delle più romite regioni d’Italia, quale il centro rupestre della Basilicata, il re protagonista del mistico racconto ellènico, nella fantasia popolare, diventi non già il Monarca sapiente, figlio di Costanza imperatrice, il quale aveva addolcito la sua coltura «ai latin’ soli» e di quei luoghi aveva fatta la sua dimora per il riposo estivo e per la caccia preferita, ma «l’insano evasor di cittadi» suo barbaro avo, Federico il Barbarossa, il cui nome esecrato suona ancora incendio e rovina non solo presso il popolo della rasa Milano, ma presso tutte le genti d’Italia, dal Brennero al Lilibeo

Si direbbe, che nell’ingenuo ritornello della leggenda basilicatese riecheggi il grido fremente della epica Canzone di Legnano:

«…per tutto il parlamento trascorse quasi un frémito di belva. Da le porte le donne e dai veroni pallide, scarmigliate, con le braccia tese e gli occhi sbarrati, al parlamento urlavano: - Uccidete il Barbarossa Sulla storia di esso vedi, la oramai, rara monografia di G. FORTUNATO, Il Castello di Lagopesole , Trani, Vecchi, 1902, nonchè la classica Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata di G. RACIOPPI, 2 ª ed., Roma, Ed. Loescher, vol. II, pag.167 seg., e da ultimo, A. HASELOFF, Die Bauten der Hohenstaufen in Unter Italien, Leipzig, Hirschfeld, 1920, vol. I. Nel primo fascicolo dell’Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane «Il Folklore italiano» diretto dal Prof. R. Corso (Catania, Tirelli, 1925). Nel Bollettino del Regio Provveditorato agli Studi di Potenza «Lucania», (n.2-5 del 1926). G. FORTUNATO, op. cit. Cfr. La modernità politica e il diritto delle genti nei «Regesta» di Federico II , ne Gli scritti di G.B. Guarini, vol. II, pag. 184, Melfi, Stab. tip. Del Secolo, 1929. Cfr. op. cit., pag. 30-31. Per più particolari notizie, oltre la monografia più volte citata, cap. V, pag. 39 e seg., vedi dello stesso fortunato I feudi e i casali di Vitalba (Trani, Vecchi, 1898), pubblicati già prima e in unico volumetto col titolo Della Valle di Vitalba nei secoli XII e XIII, Roma, Bertero, 1895, pag. 17 in particolar modo dove è ricordato che nel dicembre 1239 Federico II, destinava a Riccardo di Lagopesole uno dei suoi prigionieri lombardi, Giacomo della Torre. Il feudo di Lagopesole, in origine distinto e separato da quello di Avigliano, fu feudo abitato, per lo meno fino all’epoca della costruzione o ricostruzione di Atella, anzi ne comprendeva tre, tutti e tre abitati, e cioè Montemarcone, Agromonte e Lagopesole, sotto il cui nome nel 1416 vennero poi inclusi nello stato di Melfi e con questo infeudato a ser Gianni Caracciolo. Soltanto in tale epoca divenne quasi disabitato, ma non fu mai inabitato; e se il Comune fosse stato meglio difeso davanti alla Commissione feudale, ben diverso sarebbe stato forse l’esito del famoso giudizio tra l’Università di Avigliano ed il Principe Doria per il riconoscimento degli usi civici da quella reclamati, definito con la sentenza del 25 gennaio 1810 illegalmente interpretata con Regio Rescritto del 20 gennaio 1860 che finì per dar torto al Comune (cfr. il mio studio Avigliano e i suoi antichi statuti comunali, nel I fasc., anno I, di questo «Archivio», pag. 6 e gli autori citati in nota 13). Comunque, mentre di Agromonte non resta se non il nome della contrada e il ricordo di un favoloso tesoro (della cui popolare leggenda è un cenno nel mio giovanile volume di novelle regionali «A pie’ del Carmine», Torino, Roux e Viarengo, 1906, pag. 204) Lagopesole con Montemarcone costituisce ora una delle più popolose e industri frazioni di Avigliano; e precisamente al Casale di Montemarcone si riporta l’episodio, da me ricordato nello scritto G. Fortunato e la sua terra natale (inserito nel fasc. IV, cap. II di questa Rivista). In onore dell’insigne compianto Uomo, cotanto benemerito della terra Lucana e dell’intero Mezzogiorno, mette conto riportare qui testualmente il brano della lettera da lui direttami in data Napoli 28 luglio 1907, relativo a quell’episodio, che m’è riuscito ora di ritrovare tra le mie carte: – «…Ah, io non amo della nostra provincia – oramai – se non i soli contadini! e se potessi rifar la vita! Ricordo ancora la mia visita alle capanne di Monte Marcone, tanti anni fa. Era l’anno del pericolo di guerra con la Francia. Ad alcuni bei giovani, già soldati, io dissi del possibile richiamo, e della possibile minaccia, cercando infiammarli all’idea del pericolo di una guerra contro gli stranieri, contro i francesi. Erano rassegnati al loro dovere, ma, freddissimi. Indispettito, conchiusi: «Ma, insomma, vi piacerebbe riavere i francesi»? – ed essi, indifferentemente: «Sarà lo stesso che avere voialtri». – Voialtri, cioè i signori, di tutti i tempi e di tutte le nazionalità! E io arrossii, perchè, in fondo sentii che essi avevano ragione». Cfr. Rionero Medievale, Trani, 1899, pag. 8 e 9, nonché HASELOFF, Ricordi degli Hohenstaufen in Puglia, traduzione di G.B. Guarini, in Scritti citati, pag.449 e G. POCHETTINO, I longobardi nell’Italia meridionale, Caserta, Casa Editrice Moderna, 1930, pag. 369 e seg.). Pubblicato dallo ZOLLER, fasc. II e III della stessa Rivista «Il folklore italiano» su Le origini delle leggende dalmate su Diocleziano. «Napoli nobilissima», vol. VI, n. 1897, supplemento. G. FORTUNATO, op. cit., pag. 11 e 13. G. PAPINI, Dante vivo, Firenze, 1933.

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